I duecentodieci anni di E.A. Poe, cantore dell’abisso e poeta d’altri tempi

È sorprendente come l’opera di un autore ormai leggendario come Edgar Allan Poe (nato a Boston il 19 gennaio 1809 e scomparso a Baltimora a soli quarant’anni), scrittore tra i massimi della letteratura statunitense ma soprattutto tormentatissima figura di intellettuale e sognatore, continui da quasi due secoli a rivelare valenze simboliche di una tale profondità quale può essere solo quella della grande letteratura.

Prima di tutto, E.A. Poe fu un uomo dell’Ottocento, secolo cruciale del lungo cammino (involutivo) dell’era moderna, così particolarmente immerso nel tormentato dissidio culturale tra l’inarrestabile cammino del pensiero positivista da un lato, e i baratri sentimentali della cultura romantica e decadente dall’altro. Fu quindi giornalista, letterato dall’acume tutt’altro che comune (non è così risaputo che Poe recensì una traduzione inglese de I Promessi Sposi di Manzoni, sulla sua rivista Southern Literary Messenger nel maggio 1835), nonché animo instabile ed ipersensibile, gentiluomo all’antica dilaniato dal demone dell’alcolismo che lo porterà alla tomba, ingegno lontanissimo dall’America moderna e “barbara” in cui nacque … È impossibile, in un breve ricordo di poche righe, tentare di definire la complessa figura dell’Edgar Allan Poe uomo e scrittore, ancora oggi perlopiù celebre come “novelliere del terrore” e pioniere dell’horror contemporaneo, e non, come ampiamente riconosciuto dalla critica più disparata e dagli appassionati, autore più unico che raro nel narrare l’inconsueto, nell’esplorare i più grandi ed atavici terrori dell’uomo, nel rievocare perdute bellezze dei tempi ancestrali.

Con buona pace di Harold Bloom, alquanto restío a inserire il nome di Poe nel suo The Western Canon (1994), basterebbe ricordare che già nel decennio successivo alla sua scomparsa furono i grandi poeti francesi come Charles Baudelaire e Stéphan Mallarmé, alfieri del Simbolismo e della poesia moderna, a promuovere entusiasticamente in Europa la validità e la potenza dell’opera del bostoniano.

L’influenza esercitata da Poe sulla letteratura occidentale successiva è profonda ed imprescindibile, paragonabile forse soltanto a quella di giganti come Dostoevskij, Hugo, Proust, Kafka o il già citato Baudelaire. Nell’ambito della narrativa, interi generi letterari come il fantastico e il poliziesco moderno (da Poe praticamente inventato con il celeberrimo The murders in the Rue Morgue, ispirazione principale dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), non saranno più gli stessi dopo la pubblicazione dei suoi racconti e del romanzo The adventures of Arthur Gordon Pym.

Partendo dal surreale e oscuro onirismo sulla scia di E.T.A. Hoffmann e Charles Nodier (e che ritornerà, anche grazie all’influenza di Poe, in Nerval, Gautier, Villiers de l’Isle-Adam…) le fosche e bizzarre vicende narrate nei Tales of horror and imagination, pubblicati negli anni Quaranta, rielaborano in modo particolare e personale gli stilemi della storia di fantasmi e del romanzo gotico, entrando rapidamente nell’immaginario collettivo. Questa vasta influenza, tanto nel XIX secolo che nel successivo, è ampiamente testimoniata dall’opera di innumerevoli grandi autori di narrativa fantastica e non solo (primi fra tutti Verne e Lovecraft, senza dimenticare la profonda ricezione di Poe da parte della letteratura italiana: dalla Scapigliatura milanese di Praga e Tarchetti fino a Giovanni Pascoli), dal cinema e dai fumetti.

Ma se nei più celebri Tales di Poe veniamo guidati per i tetri meandri dell’incubo fino a oltrepassare i confini della landa ignota da cui nessun viaggiatore ritorna, e i suoi racconti di proto-fantascienza come Mellonta Tauta tessono inquietanti e disilluse (nonché attualissime) riflessioni sulle degenerazioni della scienza e della società moderna, è anche e soprattutto nella sua grande poesia che lo scrittore americano rivela un respiro lirico, “classico” e “romantico” nel senso più alto di questi termini, che affascina e meraviglia.

Pur essendo nato sul suolo americano, Poe vantava origini scoto-irlandesi e trascorse gli anni della prima istruzione in un college in Inghilterra (su iniziativa della famiglia adottiva, gli Allan); non sorprende quindi constatare il profondo legame ideale che lo scrittore mantenne sempre con il Vecchio Mondo, con i suoi archetipi e le sue tradizioni, e che il lettore sensibile e attento non può non avvertire nel suo stile letterario.

Dalle eteree e caliginose immagini di ambientazione classica, orientaleggiante e medievale-romantica (per quanto forse più affini alle ombre del gothic novel che all’antico romanzo cavalleresco) che popolano lo scenario interiore di Poe, e che lui mette in scena attraverso costruzioni metriche tra le più ricercate e musicali della poesia inglese del tempo, emerge una ineffabile nostalgia dell’ideale e del sublime, una perenne ricerca della bellezza, per quanto sempre lambita dalle ombre minacciose della decadenza e della morte. Si pensi a liriche come il lugubre capolavoro Ulalume (con i suoi «cieli cinerei e mesti», le «foglie disseccate e vizze» nella notte del «solitario Ottobre»…) all’angosciosa The Conqueror Worm, alla cupa e struggente The Sleeper, alla malinconia cosmica che compenetra le sognanti Al Aaraaf, To Helen, Israfel, Annabel Lee, Evening Star, A dream within a dream. E naturalmente al suo componimento più famoso, dopo Tamerlane e The Bells, ovvero quel The Raven pubblicato nel 1845, in cui Poe evoca l’ingresso notturno del «torvo corvo» che, nell’epica versione di Mario Praz, giungeva dal «plutonio regno d’ombra» a porre il suo tetro sigillo sulla disperazione dell’Io. E non è un caso che proprio The Raven fu l’ultimo grande successo dello scrittore poco prima della sua tragica scomparsa: il brano, al centro dell’immaginario lirico di Poe che, come viene esplicitato nella sua Philospohy of composition (celebre manifesto che disvela tutta la solida preparazione teorica e metrica del poeta) eleva all’ennesima potenza l’eterno motivo della perdita dell’amata, è importante e rappresentativo per comprendere molte cose della sua opera, e con essa della sua anima.

L’uccello, misteriosamente annunciatosi nei primi versi picchiettando alla porta della stanza per poi fare il suo svolazzante ingresso, è «un maestoso corvo dei santi tempi antichi» (come si esprime un’altra felice traduzione di Tiziano Sclavi che si può leggere nel n.33 di «Dylan Dog»): come tante altre immagini che ricorrono negli scritti di Poe, quel corvo proviene direttamente dal tempo del Mito. Attraversa le plutonie rive della Notte per andare ad appollaiarsi, con fare pomposo ed altero, sul cimiero di Atena, quasi a rappresentare l’oscurità dell’inconscio che prende il sopravvento sulle forze della ragione, ottenebrate dalla disperazione e dal terrore dell’ignoto.

Ma questa lettura alquanto palese, nonché apparentemente negativa, del simbolo scelto da Poe non è l’unica possibile. L’immagine del corvo, archetipo potentissimo, si incontra in varie antiche tradizioni: è tra i più tipici animali psicopompi, assieme al cane, lo sciacallo, il lupo; e proprio come il lupo (nel cui nome, non a caso, si rintraccia la radice indoeuropea lyk, la stessa di lux), la sua figura così tipicamente connaturata alle tenebre può essere allo stesso tempo quella di misterioso portatore di luce e conoscenza. Basti pensare a Hugin e Mugin, il Pensiero e il Ricordo, i due corvi che seguono Odino secondo la mitologia norrena. E nei labirinti della Tradizione alchemica, immagini come quella del drago, del teschio e del corvo costituiscono la simbologia legata alla Nigredo, agli impenetrabili e sconosciuti abissi della Interiore Terrae, che solo se affrontati ed attraversati permetteranno di risalire alla luce della Grande Opera.

Quegli abissi sono gli stessi rappresentati dai fatiscenti corridoi della Casa degli Usher, dalle inquietanti apparizioni di Ligeia o dai terrori inconcepibili che si spalancano nelle distese oceaniche in cui si avventura Gordon Pym. Quegli abissi da cui, purtroppo, Edgar Allan Poe non riuscì più a riemergere («…And my soul from out that shadow that is floating on the floor / Shall be lifted / Nevermore…»), dopo averli personalmente visitati nella sua triste parabola esistenziale ed averli ritratti nelle sue opere, lasciando un segno nella letteratura mondiale ben oltre i confini di quella sua vita troppo presto dissipata.

Una vita che come lui stesso scrisse, platonicamente, altro non è che «un sogno dentro a un sogno».

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