Il sognatore con l’elmetto

 

Christian de La Mazière, Il sognatore con l’elmetto, Genova, Italia Storica Edizioni, 2022, 402 pp.

Lettura altamente raccomandabile. Quest’opera rappresenta infatti un ottimo antidoto contro visioni e giudizi storici del tutto anacronistici, contro ogni manicheismo, contro l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto, contro l’ignoranza spacciata per impegno civile…

Di testi sul quel fenomeno complesso, contraddittorio ed estremamente affascinante che è stato il collaborazionismo europeo con le potenze dell’Asse ce ne sono oramai parecchi. Pochi però quelli che si salvano: alcuni testi in spagnolo sulla División Azul, il libro di Fabei sulla “legione straniera” di Mussolini e quello di Carnier sui Cosacchi in Carnia, uno di Rossi sugli ultimi giorni dei collaborazionisti europei, vari saggi sparsi di Nuñez Seixas e poco altro.

Il problema della maggior parte dei testi è in generale la scarsa obiettività. Da una parte abbiamo infatti tante ricostruzioni scandalosamente, e scioccamente, apologetiche, davvero poco affidabili, a partire dai numeri. Dall’altra invece una gran quantità di studi viziati da pregiudizi poco scientifici, dagli intenti moralistici se non addirittura volgarmente denigratori, in cui fin troppo spesso il giudizio viene anteposto alla ricerca.

Bene, benissimo, quindi hanno fatto Italia Storica Edizioni ed Andrea Lombardi a proporci la prima traduzione italiana de Il sognatore con l’elmetto di Christian de La Mazière. Perché si tratta delle memorie di un collaborazionista francese che ha spinto il suo coinvolgimento fino all’arruolamento nelle SS, nella 33. Waffen-Grenadier-Division Charlemagne. Una fonte diretta quindi, una testimonianza scritta con onestà e un bello stile (cosa che non nuoce mai), grazie alla quale possiamo conoscere senza filtri una porzione almeno del variegato mondo della collaborazione europea con il Terzo Reich. E possiamo pure verificare la tenuta di certi pregiudizi. Ci possiamo rendere conto così di come non tutti i collaborazionisti e nemmeno tutte le SS fossero dei mostri, dei sadici assassini di ebrei motivati solo da un odio irrazionale. Già, chi l’avrebbe mai detto?!

Tra chi ha fatto scelte analoghe a quelle di de La Mazière, e questo volume ci aiuta a comprenderlo, le motivazioni sono state le più varie. Per fanatismo ed opportunismo innanzi tutto, ma anche per caso, per mancanza di alternative, per spirito di avventura, o per vendetta, oppure per fedeltà a se stessi e a uno stile più che a delle idee… E ancora, per coerenza ideologica, certo: per tentare – come confessa l’autore – “di mettere le proprie azioni in accordo con le proprie idee“.

L’anticomunismo era ovviamente un sentimento diffuso, condiviso praticamente da tutti, ma solo per alcuni rappresentava la motivazione principale. Come per questo particolare, e a suo modo sorprendente, gruppo: “C’erano anche dei veri cattolici, integralisti militanti. Erano soprattutto gli uomini di Darnand che, intorno ai falò avevano sognato una rinascita nazionale attraverso la religione tradizionale, il ritorno all’artigianato e all’ordine corporativo, simboli secondo loro della dignità umana. Avevano indossato l’uniforme SS controvoglia, solo per combattere il comunismo la cui ideologia sembrava loro ancora più nociva di quella del nazionalsocialismo”.

Un altro giovane volontario, con alle spalle una militanza nel movimento anarchico, descriverà invece così le ragioni del suo arruolamento nella Französische (SS) Freiwilligen-Sturmbrigade, più nota come Brigade Frankreich, e successivamente nella 33. Waffen-Grenadier-Division der SS Charlemagne: “Come la maggior parte dei volontari francesi, mi sono schierato per un tipo umano piuttosto che per un’ideologia. Per coloro che soffrivano profondamente la smidollatezza del loro secolo, il suo nichilismo, la sua stupidità, il guerriero tedesco con il suo sguardo dritto, il suo passo fermo e impassibile, la sua calma, la sua cordialità senza chiacchiere era sentito come un rifugio, come una speranza[i].

Il volume si apre con delle snelle, ma sempre utili, note biografiche stese da Andrea Lombardi, che ci permettono di ricostruire le vicende terrene dell’autore, anche oltre l’orizzonte degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale.

Nato nel 1922 a Tunisi, de La Mazière era figlio di un ufficiale dell’esercito “che gli diede un’educazione tradizionale in un ambiente conservatore e nazionalista”. Fin da giovanissimo però subì fortemente il fascino degli ambienti e delle parole d’ordine della destra radicale e fascista. Nel 1939 si arruolò nell’Aeronautica militare francese, quale allievo ufficiale pilota da caccia, ma a causa della debacle del 1940 non fece in tempo a partecipare ai combattimenti. Dopo aver lasciato le forze armate di Vichy, tornò a scrivere per il giornale Le Pays libre, un quotidiano minore dell’ambiente collaborazionista. Nell’agosto del 1944, dopo lo sbarco in Normandia e alla vigilia della liberazione di Parigi, quando oramai tutto era perduto per la Germania, decise di arruolarsi nelle SS, raggiungendo la Divisione Charlemagne. Dopo l’addestramento combatté in Pomerania, tra le foreste baltiche[ii], in una delle ultime disperate battaglie contro la marea sovietica. Quindi – dopo l’annientamento della divisione, siamo nel marzo del 1945 – la fuga dei superstiti, la resa, la prigionia sovietica, il rientro in Francia, il processo e la condanna (relativamente mite) per collaborazionismo. Graziato nel 1948, ebbe comunque modo di conoscere in carcere personalità come Lucien Rebatet o Jacques Benoist-Méchin, dei quali diventò amico. Nel 1952 aprì un’impresa di pubbliche relazioni, ben inserita nel mondo del cinema e dello spettacolo. Fu l’amante di Juliette Gréco e poi di Dalida. L’uscita nel 1972 delle sue memorie (Le Rêveur casqué, ora tradotte) rappresentò un vero e proprio caso letterario, con un enorme successo di vendite, ma significò pure un irreparabile danno d’immagine per la sua attività. Tornato a fare il giornalista, divenne poi consigliere del generale Gnassingbé Eyadéma, il discusso presidente del Togo. Nel 2003 diede un seguito alle sue memorie, raccontando gli anni del dopoguerra nel Le Rêveur blessé (ossia Il sognatore ferito). È morto nel 2006.

Un personaggio decisamente fuori dal comune, come si vede.

Al quale ora credo sia giunto il momento di lasciare la parola:

mi sono ricordato di un mattino soleggiato dell’agosto del 1944 […] andavo a Est, per raggiungere i volontari francesi che si riunivano per l’ultima battaglia. È quel mattino che tutto ha avuto inizio. Avevo preso una decisione esaltante e strana, come in ogni scelta di attivismo. Corrispondeva certo alle mie scelte politiche, ma non era soluzione imposta dalle circostanze. Avrei potuto, al contrario, sparire dalla Francia o, meglio ancora, rendere alla Resistenza qualche favore per i quali, lo vedremo, ero stato peraltro sollecitato. Furono quelle stesse soluzioni agevoli, credo, che mi condussero invece alla scelta estrema, più ancora forse, delle mie stesse convinzioni: è proprio quando la casa è in fiamme, mi dicevo, e che potremmo scappare approfittando del disastro, che bisogna difenderla con ancor più energia. Così facendo, mi sembra, agivo meno nel nome di una dottrina che per fedeltà a me stesso. E mi rendo conto, oggi, di quanto potesse esserci di ingenuamente esemplare in un comportamento simile. Ma bisogna non aver mai avuto vent’anni per non capirlo. In effetti, all’epoca, era ancora sollevato da un entusiasmo che si tuffava nel più profondo della mia adolescenza. Dall’età di quattordici anni, le idee politiche mi affascinavano. Mio padre, che era un ufficiale, mi aveva dato un’educazione di un tradizionalismo di un nazionalismo intransigenti […] Ero stato formato, come si deve alla lettura de “L’Action française” […] Tuttavia, mi ero preso stancato del conservatorismo scrupoloso dei maurrassiani. Volevo essere innanzitutto un rivoluzionario, probabilmente per quell’impulso di contestazione che ci mette, a una certa età, contro la nostra famiglia e l’ideologia paterna. Ma, soprattutto, pensavo meno al passato che a dei domani esaltanti. Il mondo in cui vivevamo mi appariva schiavo del denaro, macchiato di ingiustizie sociali. Nondimeno, niente mi portava a unirmi alla rivoluzione comunista: era stato educato a condannarla costantemente e, istintivamente, sentivo il bolscevismo, come una forza malefica. Fu allora che attraverso gli stendardi e le fotoelettriche di Norimberga avevo avuto la rivelazione del nazionalsocialismo. Mi lanciai subito in letture numerose e contraddittorie, che ai miei occhi, non ne facevano che aumentare la seduzione. Questa dottrina, nella quale mi sembrava che le grandi tradizioni e un socialismo innovatore trovassero un equilibrio, proponeva uno sbocco naturale ai miei sentimenti rivoluzionari. […] Ero giunto alla certezza che le democrazie capitaliste fossero condannate per sempre […] avevo ricominciato a sognare un mondo nuovo, dove l’Europa avrebbe rappresentato il faro del socialismo. Questa speranza aveva nutrito gli editoriali che scrivevo per un piccolo giornale parigino. Il 1944 era arrivato, gli eventi erano precipitati. Mi trovavo, come ho detto, in quel punto critico in cui la militanza ha per solo futuro l’elmetto e il fucile. Ho fatto il salto, ho scelto l’avventura”.

Particolarmente significative mi paiono infine le parole con cui l’autore chiude la sua introduzione, le più indicate – credo – anche per terminare questa recensione:

Nel 1944, nonostante le scelte opposte di molti miei amici, sapevo troppo poco sulla realtà concreta del nazismo perché smettesse di apparirmi come una speranza possibile. Il disastro del 1945 e soprattutto le rivelazioni del dopoguerra dovevano distruggere le mie illusioni. Fu brutale e piuttosto crudele. Vidi, in parte, voltarsi dall’altra parte l’entourage che mi aveva nutrito della sua ideologia, un’ideologia di cui tuttavia la mia avventura ne costituiva il risultato ultimo. Restavano i miei amici – vecchi e nuovi – e l’amicizia non conosce patria ideologica. E del resto, andava bene così. Lasciavo che la mia gioventù vagabondasse con le generose fantasie che l’avevano sollevata, fino a questo […] libro in cui la resuscito solo per restituirla definitivamente al passato. È questo un rinnegarla? Questa domanda, mi sembra, è oggi senza significato. Si rinnegherebbe, del resto, il proprio entusiasmo giovanile, l’aver creduto in qualcosa, l’aver tentato di mettere le proprie azioni in accordo con le proprie idee? Non sarò mai uno di quegli esseri amareggiati che disilludono dalla loro fede i giovani di vent’anni. Solo, credo di avere il diritto di consigliare loro la massima prudenza, non nell’impegno militante in sé, quanto nelle scelte che ne derivano”.

* * *

Nicola Farinelli

Firenze, marzo 2025

Note

[i] Stiamo parlando di Robert Dun, singolarissimo personaggio, l’unica opera in italiano del quale (e dalla quale è stata tratta la citazione) è stata pubblicata nel 2024 dalle edizioni Passaggio al Bosco: L’anima europea. Risposta a Bernard-Henri Lévy.

[ii] Quante tragiche e feroci epopee ha conosciuto il Baltico nel secolo scorso! Dai Corpi Franchi di un Ernst von Salomon o di un Eric von Lhomond, alla rivolta di Kronstadt, passando per la guerra civile finlandese e il conflitto russo-polacco del 1919-21…

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