Gli aristocratici che hanno avuto la ventura di vivere in epoche «critiche» hanno svolto un ruolo che, tra i primi, interpretò esemplarmente, per formazione ed elezione, Platone, nell’Atene uscita sconfitta dalla Guerra del Peloponneso. Il filosofo seppe registrare il disagio esistenziale e la decadenza politica della sua città, come nessun altro, individuando vie d’uscita dal degrado. Il conte Alfred de Vigny ha svolto la medesima funzione sismografico-registrativa, rispetto a quanto accadde in Francia nei drammatici anni successivi alla Grande Rivoluzione. Lo sconquasso patito dai francesi trovò un momento di assestamento nel Secondo Impero di Napoleone III. Mezzo secolo di sovvertimenti sociali e di glorie conquistate sui campi di battaglia vengono sintetizzati dall’opera principale del De Vigny, Servitù e grandezza militare, da poco edita da OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, euro 12,00).
Nell’Introduzione al testo, Bruno Nacci ricorda le molteplici propensioni dell’autore. Questi fu: «militare di carriera, poeta ed erudito, marito ed uomo dai molti amori, prima napoleonico e poi antinapoleonico […] romantico, agnostico, ribelle e accademico» (p. 7). Sintetizzò in sé il senso riposto della vita e dell’epoca in cui visse, la coincidentia oppositorum. Alla fine della propria ricerca politico-esistenziale divenne seguace di Napoleone III, restauratore dell’ordine ma sovrano «moderno». De Vigny non riuscì ad essere fino in fondo un nostalgico della monarchia e dei Borbone e, per questo, si immerse nel proprio tempo, senza appartenervi mai completamente. Estraneo ma partecipe della modernità incalzante, ebbe contezza, lo si evince dalla sua prosa, di appartenere ad un ceto che andava dissolvendosi dopo aver perso il ruolo di guida politica che da sempre aveva esercitato. Un uomo solo, come tanti suoi contemporanei, alle cui invocazioni non rispondeva, nelle notti di angoscia, neppure Dio.
Le memorie militari di De Vigny, di tal natura sono le pagine, come rileva Nacci, del pastiche che qui presentiamo, contengono riflessioni spassionate, per lo più dolenti, sulla condizione umana e su quella di chi presta servizio militare. Alla scrittura, l’autore fu indotto da una: «melanconica sensazione» (p. 17) che lo costrinse a guardarsi indietro, a sollecitare la riemersione dei ricordi sugli anni di vita trascorsi nell’esercito. Servitù e grandezza militare vide la luce nel momento in cui in Francia si stava consumando il confronto fratricida tra le due fazioni dell’aristocrazia, i Borbone e gli Orléans. La Rivoluzione di Luglio del 1830, con l’avvento sul trono di Luigi Filippo, segnò la fine delle speranze degli ultras, strettisi attorno a Carlo X nel nome dei valori della monarchia assoluta. L’uomo d’armi De Vigny, tale per tradizione familiare, in quanto le storie delle gesta dei suoi passati avevano alimentato un «mito fanciullesco» che doveva essere attualizzato nell’azione, si era ormai trasformato in un raffinato letterato. Egli mise, quindi, in essere, nella prosa nostalgica, una sorta di «dipintura dell’io», il cui modello insuperato è da individuarsi nei Saggi di Montaigne. Il dipanarsi del narrato mette in luce la prossimità della condizione esistenziale di De Vigny a quella del tenente Drogo, protagonista del Deserto dei tartari di Buzzati. Entrambi in attesa: «di qualcosa che è ormai, irrimediabilmente, alle spalle o che non verrà mai» (p. 10).
E’ la malinconia del ricordo a indurre domande sul significato ultimo del passato e, in questo caso, sul senso della professione delle armi. La vita del militare è sospesa, per così dire, sull’attesa della guerra. In questo intermezzo: «La noia e la scontentezza sono i tratti comuni al volto militare» (p. 11), ma quando la battaglia si fa reale, si materializza, essa mostra il volto brutale, essa è «maledetta da Dio». Per questo, uno dei personaggi presentati dall’autore nei tre apologhi che costituiscono il libro, si interroga attorno a quale sia il confine ideale che divide le «sorti del guerriero», da quelle di un volgare assassino. Oltre all’aspetto terrifico e a quello ripetitivo, la vita delle armi, presenta un tratto decisamente positivo, da individuarsi nella spinta emotiva, innocente e generosa, che indirizza i giovani agli eserciti, a prescindere dalla ricerca dell’utile e di qualsiasi calcolo individuale. Si tratta di una abnegazione purificatrice che può, in casi limite, dar luogo alla realizzazione interiore centrata sulla «metafisica della guerra», della quale ha detto magistralmente Julius Evola. Nella maggior parte dei casi la vita spartana imposta dalle caserme, l’esistenza sana e vigorosa di tanti soldati, il tratto virile determinato dalla condivisione di uno stile di vita parco e aperto al rischio, stabiliscono, tra i giovani, legami camerateschi, difficilmente solvibili nella vita civile.
Nonostante ciò, De Vigny rintraccia nell’organizzazione degli eserciti moderni un tratto assai rischioso, prefigurante l’asservimento sociale della nuova epoca, centrata su: «un gran bisogno di azione ed una grande pigrizia di riflessione […] l’ammirazione di un capo militare diviene una passione, un fanatismo, una frenesia che fa di noi degli schiavi, dei furiosi dei ciechi» (p. 11). Il conte qui non fa che descrivere profeticamente quanto sarebbe accaduto con la ‘nazionalizzazione delle masse’, con la ‘razionalizzazione produttiva’ capitalista e con la nascita del’industria culturale che dirige le scelte degli uomini, spingendoli all’azione frenetica ed insensata. Ad un mondo che De Vigny intuisce sarebbe stato dominato, di lì a poco, dal denaro e dalla mercificazione universale, il guerriero ha la possibilità di contrapporre un valore essenziale, l’onore: «Questa fede che mi pare resti ancora a tutti e regni sovrana negli eserciti, è quella dell’ONORE […] L’onore è il pudore virile». (p. 229-231). In un mondo come l’attuale, nel quale sono stati portati scientemente a termine gli assassinii del Padre e dell’Eroe, e nel quale trionfa l’esasperato buonismo del politicamente corretto, il richiamo all’onore di De Vigny può svolgere il ruolo di significativo contravveleno nei confronti dell’ insensatezza contemporanea.
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