Rivoluzione conservatrice in Romania?

Il sintagma “Rivoluzione Conservatrice”, che dopo la seconda guerra mondiale è stato reso celebre da Armin Mohler, nacque nel secolo scorso; ma fu il letterato Hugo von Hoffmanstahl, nel 1927, a darle un contenuto programmatico: in un discorso intitolato La letteratura come spazio spirituale della nazione, von Hoffmanstahl identificava, quali fattori fondamentali della Rivoluzione Conservatrice, la ricerca della totalità e dell’unità in alternativa alla divisione e alla scissione.

A mano a mano che il concetto di Rivoluzione Conservatrice assume un significato politico, risulta chiaro che i suoi principi si contrappongono in maniera radicale a quelli che hanno trionfato con la Rivoluzione Francese. Possiamo dire che alla Rivoluzione Conservatrice appartengono coloro i quali combattono i presupposti del secolo del progresso senza però voler restaurare un qualsiasi Ancien Régime. La Rivoluzione Conservatrice, dunque, designa un processo politico che, come afferma lo stesso Armin Mohler, non si limita al mondo austro-tedesco, ma abbraccia l’Europa intera.

Da noi, infatti, Marcello Veneziani ha potuto cercare anche nella storia italiana i caratteri precipui della Rivoluzione Conservatrice, e ha creduto di poterne riassumere le caratteristiche in questi termini: “senso della modernità, ri-creazione della tradizione, rigetto della concezione lineare e progressiva della storia, anti-egualitarismo, vitalismo e organicismo, primato del politico e del comunitario, mobilitazione ‘totale’ delle masse, ripensamento della tecnica, elogio futuristico dell’acciaio, visione estetica e lirica della vita”.

Io sono del parere che il concetto di Rivoluzione Conservatrice possa servire, in una certa misura, per inquadrare e interpretare anche il fenomeno del Movimento legionario romeno. Potremo trarne la conferma da una breve rassegna delle posizioni di alcuni intellettuali romeni che militarono nel Movimento legionario o comunque furono ad esso assai vicini, contribuendo comunque a definirne l’identità dottrinale e programmatica.

Lo stesso Corneliu Codreanu, nel suo libro Pentru legionari, inserisce il Movimento legionario entro un alveo culturale e politico più ampio, che si manifesta in Romania già intorno alla metà del secolo XIX. Tra quelli che Codreanu cita come precursori del Movimento Legionario, vi sono alcuni dei nomi più illustri della letteratura romena; già in questo fatto troviamo una delle caratteristiche principali della Rivoluzione Conservatrice, poiché letteratura, spiritualità e nazione sono coordinate fondamentali di tutta la nebulosa della rivoluzione conservatrice indagata da Armin Mohler.

Ebbene, Codreanu cita tra gli antenati spirituali del Movimento Legionario il più grande dei poeti romeni, Mihai Eminescu (1850 – 1889). Eminescu, che in Italia è conosciuto più o meno come una sorta di Giacomo Leopardi romeno, fu in realtà uno strenuo militante nazionalista, che lottò con tutte le sue forze contro lo sfruttamento usuraio del contadinato romeno e contro l’alienazione cosmopolita delle classi dirigenti. Non a caso il defunto rabbino di Bucarest, Moses Rosen, al tempo di Ceausescu tentò invano di impedire la pubblicazione degli articoli di polemica politica del poeta nazionale romeno, dichiarando testualmente, con sovrano disprezzo del ridicolo e sollevando una protesta corale, che Eminescu deve essere annoverato tra i responsabili di Auschwitz.

Si può dire, comunque, che l’intellettualità romena nel suo complesso si è collocata coscientemente e dichiaratamente nel solco di Eminescu. Non solo tra le due guerre, ma, direi, fino al 1989, il problema principale dei Romeni è consistito nel definire la loro specificità nazionale e nell’individuare le modalità più idonee a tutelarla ed esprimerla su tutti i piani, di modo che i progetti culturali, politici, sociali ed economici elaborati dall’intellettualità romena in un secolo e mezzo hanno avuto quasi sempre come ragion d’essere la difesa e la manifestazione dell’essenza nazionale.

Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, in particolare, in Romania le varie correnti di pensiero si differenziano esclusivamente in relazione alla scelta dei mezzi da adottare per conformare la vita del paese alla sua identità nazionale, mentre tale scopo è dato per scontato ed è condiviso da tutti – con l’ovvia eccezione dell’esigua intellighenzia mondialista, la quale d’altronde rappresenta all’epoca un corpo estraneo rispetto alla realtà nazionale, anche per ragioni di appartenenza etnica.

Abbiamo quindi, in primo luogo, un nazionalismo tradizionalista e ruralista, antioccidentale e antimoderno, che deriva dalla reazione antiliberale di Titu Liviu Maiorescu (1840 – 1917) e dal magistero conservatore del grande storico Nicolae Iorga (1871 – 1940) ed approda in parte, con Nichifor Crainic (1889 – 1971), a posizioni “etnocratiche” fortemente impegnate di spiritualità ortodossa.

Abbiamo poi un nazionalismo populista (ne è portavoce la rivista “Viata Romanesca”), che, pur riaffermando la priorità dell’interesse nazionale e comunitario rispetto a quelli di classe e ribadendo l’importanza fondamentale dei valori etnici e contadini, nondimeno si dichiara favorevole a tentare la via della democrazia parlamentare.

Infine c’è un nazionalismo dinamico che, tramite il suo più illustre esponente, il critico letterario Eugen Lovinescu (1881 – 1943), preconizza l’attualizzazione delle potenzialità nazionali e la nascita di uno “stile romeno” attraverso la “sincronia” politica ed economica della Romania con il resto dell’Europa.

Un altro indirizzo, infine, il più interessante per noi, si ricollega alla variante nazionalista rappresentata dalla cosiddetta “nuova generazione” o “giovane generazione”. Ed è questa corrente, largamente solidale col Movimento legionario, quella che, sotto diversi riguardi, a mio parere si inscrive a pieno titolo nel più vasto contesto della “rivoluzione conservatrice” europea. La guida spirituale carismatica e indiscussa della “nuova generazione”, il filosofo e teologo ortodosso Nae Ionescu, e i suoi discepoli (Mircea Eliade, Emil Cioran e Constantin Noica sono solo i più celebri) mirano a realizzare una sintesi armonica tra un nazionalismo sottratto alle tendenze reazionarie e una versione della modernità che prescinda da liberalismo e democrazia.

Cercheremo dunque di mettere a fuoco le caratteristiche di questa “giovane generazione” interbellica attraverso la presentazione sintetica dei suoi esponenti di maggior rilievo, esponenti che ebbero uno stretto rapporto col Movimento legionario e che in diverse misure saranno considerati come altrettanti portavoce del Movimento legionario stesso e che comunque hanno contribuito a definire l’identità dottrinale del Movimento legionario.

Nae Ionescu

Il maestro della giovane generazione, Nae Ionescu (1890 – 1940), insegnò logica e metafisica alla Facoltà di Lettere di Bucarest. Decisamente rivoluzionario perché infrangeva il monopolio idealista e neoidealista, l’insegnamento del professor Nae Ionescu si collocava nel solco della migliore linea culturale romena, tanto che il suo allievo più famoso, Mircea Eliade, poté indicare in lui il successore diretto del grande Nicolae Iorga.

Teologo, fautore di un cristianesimo marcatamente teocentrico, Nae Ionescu respingeva come “deviazione occidentale” il cristianesimo umanistico e moralistico che si era diffuso negli ambienti ortodossi della Capitale, al punto che le sue critiche non risparmiarono nemmeno il Patriarca Miron (il quale nel 1938 sarà complice dell’oligarchia nell’assassinio di Corneliu Codreanu). Nae Ionescu, riteneva, cito Mircea Eliade, che “la mentalità secolaristica, laicizzante e protestantica” diffusasi negli ambienti del Patriarcato “costituisse un’intrusione delle concezioni del mondo moderno nel seno della vita spirituale della Chiesa”.

Il veicolo più efficace dell’azione paideutica che Nae Ionescu svolse al di fuori dell’ambiente universitario fu il quotidiano “Cuvântul”. Questo giornale, di cui il filosofo fu il principale animatore, diventò una sorta di organo ufficioso della corte reale nel 1930, quando lo stesso Nae Ionescu fu a un passo dal diventare consigliere del re. Ma, soprattutto a causa dell’ostilità nutrita nei suoi confronti da parte dell’amante di Carol II, Elena Lupescu (che era una sorta di terminale dei circoli finanziari e cosmopoliti negli ambienti di corte), l’influenza esercitata dal professore nel Palazzo reale diminuì in maniera considerevole.

La rottura definitiva tra Nae Ionescu e il Palazzo ebbe luogo nel 1933. Ritornato da un viaggio nel Reich, dove era rimasto positivamente impressionato dalla rivoluzione nazionalsocialista, Nae Ionescu cominciò ad auspicare una soluzione analoga anche per la Romania, accentuando di giorno in giorno la sua opposizione nei confronti della politica del re e dell’oligarchia che la ispirava.

Al momento della campagna elettorale, quando l’azione del governo liberale si concretò in una vera e propria persecuzione terroristica fatta di arresti arbitrari, torture e violenze d’ogni genere e culminò nel decreto di scioglimento del “Gruppo C. Z. Codreanu” e nell’arresto di undicimila legionari, Nae Ionescu mise la propria testata, “Cuvântul”, a disposizione del Movimento legionario, che era rimasto privo dei suoi pochi organi di stampa.

Ben presto però anche “Cuvântul” fu costretto a sospendere le pubblicazioni, mentre il prof. Nae Ionescu venne arrestato e rinchiuso nel carcere di Jilava. Rilasciato dopo le elezioni, Nae Ionescu si avvicinò sempre più al Movimento legionario. A ciò egli era predisposto dal suo orientamento, che il suo allievo Mircea Vulcanescu ha cercato di caratterizzare mettendo innanzitutto in risalto la fondamentale irriducibilità di Nae Ionescu al liberalismo: “Attento alle trasformazioni insensibili dei rivolgimenti del mondo, antiliberale perché gli sembrava che la funzione essenziale dei liberali (…) consistesse nel violentare il corso naturale dello sviluppo della nazione, Nae Ionescu era in attesa di chi riuscisse a dare una risposta alla sua aspettativa di una rivoluzione, una rivoluzione che non doveva essere niente altro se non la manifestazione della realtà romena di sempre”.

D’altronde il teologo ortodosso Nae Ionescu fondava su un passo delle Sacre Scritture la certezza che “quando il re è inetto, Dio suscita dal seno del popolo un Capitano”. Così era avvenuto in passato, nella storia romena, con Michele il Prode, con Tudor Vladimirescu, con Avram Iancu. Così avveniva in quegli stessi anni con Corneliu Codreanu.

Scrive ancora Mircea Vulcanescu: “La sua posizione apertamente antidemocratica (…) faceva di lui un uomo di sinistra nella politica sociale e un uomo d’estrema destra nella tecnica politica”.

Però, se Mircea Vulcanescu attribuisce al suo maestro la simultanea appartenenza alla destra politica e alla sinistra sociale, nel tentativo di definirne la posizione in rapporto alla topografia politica d’origine parlamentare, Nae Ionescu invece rifiuta in maniera formale e recisa tali categorie, in quanto inadeguate, insufficienti e non rispondenti al carattere multiforme della realtà: “Io cerco di pensare sulle realtà politiche, per delimitare problemi e trovare soluzioni di governo. Sono di destra o di sinistra? Non so proprio. Perciò, risparmiatemi domande di questo genere. Non per altro, ma non hanno nessun senso”.

Concetti analoghi venivano contemporaneamente espressi da Vasile Marin, che nell’autunno del 1933 era entrato nella redazione di “Cuvântul”. Secondo Marin, la definizione del Movimento legionario come movimento “di destra” distorce la realtà, perché mira a “presentare l’azione legionaria come un movimento reazionario”. Invece, scrive Marin, “come il fascismo e il nazionalsocialismo, così anche il Movimento legionario lotta per la creazione dello Stato totalitario (…). La concezione totalitaria della riforma dello Stato ci impedisce di accordare una qualunque importanza a queste nozioni (cioè alle nozioni di “destra” e di “sinistra”, n.d.r.), prive per noi di significato. (…) non possiamo essere né a destra né a sinistra, per la buona ragione che il nostro movimento abbraccia tutto quanto il piano della vita nazionale (…) Quando la stessa rivoluzione russa si nazionalizza intensamente (…) e quella fascista si socializza sempre più profondamente, che senso hanno più le etichette desuete di ‘destra’ e di ‘sinistra’, per essere ancora applicate alle azioni e ai regimi politici? Un senso solo: la diversione!…

Tornando a Nae Ionescu, il suo ingresso nel mondo legionario comportò l’assunzione di un vero e proprio impegno militante, che si tradusse in una serie di conferenze su tutto il territorio della Romania. I risultati furono immediati, perché il Movimento legionario incrementò considerevolmente il proprio seguito.

Così il destino personale di Nae Ionescu si legò a quello del Movimento legionario. Nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1938, il professore fu arrestato assieme ai dirigenti legionari e ai militanti di punta del movimento e venne internato nel reclusorio di Miercurea Ciuc, in Transilvania.

Privato della libertà, malato e sofferente per una grave disfunzione cardiaca, colpito nell’attività professionale con la revoca dell’incarico universitario, il prof. Nae Ionescu fu, nel campo di concentramento, un modello vivente di dignità e di forza d’animo. Anzi, grazie a lui il reclusorio diventò una sorta di “università legionaria”. Egli tenne per i compagni di prigionia una serie di conferenze, i cui argomenti andavano dalla metafisica al “fenomeno legionario”.

In tale attività, il professore fu imitato dal suo assistente Mircea Eliade, anche lui internato nel campo, che parlò sulla lotta di liberazione dell’India contro il colonialismo britannico.

Messo in isolamento, Nae Ionescu scrisse, utilizzando un rotolo di carta igienica, un saggio sul Machiavelli. Nella peregrinazione intellettuale del Machiavelli alla ricerca di un Principe, Nae Ionescu vide un tentativo analogo al suo. Egli infatti, dopo avere indirizzato le proprie aspettative prima su Carol II e poi su Iuliu Maniu, ritenne finalmente di aver trovato nel Capitano del Movimento legionario l’uomo del destino romeno.

Dopo una serie di scarcerazioni e di arresti successivi, il 15 marzo 1940 Nae Ionescu morì in circostanze che non sono state ancora chiarite. Si disse che era stato avvelenato.

Mircea Eliade, che tenne il discorso funebre e fu tra coloro che portarono a spalle il feretro, disse che il professore voleva essere seppellito con la foto di Codreanu che egli portava sempre con sé. Ma la foto era stata sequestrata dalla Procura.

Il pensiero di Nae Ionescu, soprattutto dopo la sua adesione al Movimento legionario, si inquadra perfettamente nel più vasto movimento della Rivoluzione Conservatrice europea. Se sul piano religioso, come abbiamo visto, egli contrappone al modernismo la tradizione (predania) come crescita organizzata all’interno della comunità spirituale ortodossa, sul piano filosofico egli combatte il razionalismo occidentale, l’individualismo, il positivismo, lo scientismo, aderendo a una Lebensphilosophie interpretata in senso cristiano. Sul piano politico, respinge la concezione contrattualistica in nome di una concezione organica e si fa sostenitore di una “terza via” nazional-sindacalista al di là del collettivismo marxista e del capitalismo borghese.

Mircea Eliade

Abbiamo visto che Nae Ionescu si accostò al Movimento legionario nel corso del 1933. Risale al medesimo anno quella che gl’intellettuali legionari salutarono come la “conversione di Mircea Eliade al romenismo”. In un articolo redazionale apparso sul periodico “Axa” si poteva leggere infatti: “Sembra che Mircea Eliade, scrittore di talento, saggista famoso e personalità culturale degna di ammirazione, stia compiendo dei passi decisivi in una direzione a noi cara e diversa da quella che aveva presa. Finora la sua carriera di giornalista ha avuto svolte inaspettate e sterzate pittoresche. Mircea Eliade ha giocato con idee e prese di posizione, ha accumulato esperienza, ha girato il mondo, è stato brillante sempre e dappertutto, ma (…) ha rifiutato di ancorarsi definitivamente nella realtà romena. Da qualche tempo, però, Mircea Eliade ha cominciato a cambiare. E, sia detto senza offesa alcuna, dopo avere raggiunto la maturità ha cominciato a diventare serio (…) Mircea Eliade comincia a vedere la realtà romena, a integrarsi in essa, a subordinarsi ad essa”.

Effettivamente nel 1933 Eliade è protagonista di alcuni interventi che esprimono un impegno politico nazionalista. Scrive un articolo sulla “mentalità massonica” in cui, individuando come caratteristica di tale mentalità l’uso di schemi semplicisti e di criteri astratti, crede di poter rintracciare nel marxismo stesso (“combinazione di astrazione e di grossolanità”) un marchio massonico. Sviluppa poi alcune considerazioni sulla “rinascita religiosa” che, per quanto prive di riferimenti politici, non possono non impressionare favorevolmente i seguaci del Movimento legionario. Infine, si richiama ai valori della realtà nazionalpopolare e dichiara di ricollegarsi a quella linea di pensiero che parte da Eminescu e, attraverso Iorga, Pârvan e Nichifor Crainic, arriva fino a Nae Ionescu.

Nel 1934 Eliade si propone di difendere il nazionalismo dalle accuse che ad esso vengono rivolte dall’intellighenzia democratica. In particolare, Eliade respinge l’accusa di antisemitismo e ribadisce, contro le accuse di intolleranza religiosa e di razzismo, che la questione ebraica è una questione politica, sociale ed economica.

“Io sono indignato – scrive – nel vedere ventisei consiglieri stranieri nella città di Sighetul Marmatiei (contro sette romeni), non perché sia uno sciovinista o un antisemita, ma perché un senso di giustizia sociale, per quanto debole, è vivo nel mio cuore”.

È interessante osservare che, prospettando in tali termini la questione ebraica, Eliade cita quegli stessi autori (Eminescu ovviamente in primis, poi Vasile Conta, Bogdan Hasdeu e altri) che vengono evocati da Corneliu Codreanu nel suo libro Pentru Legionari come precursori della posizione legionaria nei confronti della questione ebraica.

Quanto a Corneliu Codreanu, Eliade vede in lui l’erede dei grandi esponenti nel nazionalismo: “Solo Balcescu e Heliade-Radulescu parlavano così”, scrive Eliade allorché Codreanu proclama la necessità di riconciliare la Romania con Dio.

Anzi, ad attrarre decisamente Eliade verso il Movimento legionario è proprio quella sintesi di nazionalismo e di spiritualità che ne costituisce la caratteristica peculiare. Nel dicembre 1935 Eliade scrive, alludendo a Codreanu: “Un capo politico della gioventù ha detto che lo scopo della sua missione è di ‘riconciliare la Romania con Dio’. Questa è una formula messianica (…) perché una ‘riconciliazione della Romania con Dio’ significa, in primo luogo, una rivoluzione dei valori, un netto primato della spiritualità, un invito alla creatività e alla vita spirituale”.

Ma forse, tra tutti gli articoli scritti da Eliade negli anni Trenta, sarà bene citare quello che negli anni Settanta verrà utilizzato, con le opportune aggiunte e manipolazioni allo scopo di impedire l’assegnazione del Premio Nobel al grande storico delle religioni.

Quell’articolo, scritto in un momento in cui Eliade era candidato alla Camera nelle liste elettorali del partito legionario Totul pentru Tara, costituiva la risposta alla domanda Perché credo nella vittoria del movimento legionario? ed apparve sulla rivista legionaria “Buna Vestire”. “Mai prima d’ora – scriveva dunque Eliade – un popolo intero ha sperimentato una rivoluzione con tutto il suo essere, (…) mai prima d’ora un popolo intero ha scelto l’ascetismo come proprio ideale di vita e la morte come propria sposa (…) Credo nel destino del popolo romeno. Ecco perché credo nella vittoria del Movimento legionario. Una nazione che ha dimostrato enormi poteri creativi non può naufragare alla periferia della storia in una democrazia balcanizzata, in una catastrofe civile (…) Credo nel destino della nostra nazione. Credo nella rivoluzione cristiana dell’uomo nuovo. Credo nella libertà, nella personalità e nell’amore. Per questo credo nella vittoria del Movimento legionario”.

Ma ancora più interessanti, per mostrare quale contributo abbia dato Mircea Eliade alla definizione dell’identità del Movimento legionario, sono queste altre considerazioni, contenute nel medesimo articolo: “Oggi il mondo intero si trova sotto il segno della rivoluzione; ma mentre altri popoli vivono questa rivoluzione in nome della lotta di classe e del primato economico (comunismo) o dello Stato (fascismo) o della razza (hitlerismo), il Movimento legionario è nato sotto il segno dell’Arcangelo Michele e vincerà per grazia divina”.

Questa caratterizzazione delle rivoluzioni del Novecento riecheggia nelle pagine in cui Julius Evola ha rievocato il suo incontro con Codreanu, incontro al quale fu presente lo stesso Mircea Eliade. Stando a Evola, infatti, il Capitano gli avrebbe detto: “In ogni essere vivente possono distinguersi tre aspetti (…) quello del corpo come forma, quello delle forze vitali, quello spirituale. Analogamente, (…) nel Fascismo viene soprattutto in risalto l’aspetto ‘forma’, nel senso di potenza formatrice, plasmatrice di Stato e di civiltà, secondo il grande retaggio romano. Nel Nazionalsocialismo spicca di più l’elemento biologico, il mito del sangue e della razza, che è la corrispondenza dell’elemento ‘vitale’ di ogni essere. La Guardia di Ferro vorrebbe invece prendere le mosse dall’aspetto puramente spirituale, religioso, e di là procedere alla sua opera” (vide).

Abbiamo visto che una delle caratteristiche principali della rivoluzione conservatrice intesa come fenomeno europeo è il rifiuto della concezione lineare e progressiva della storia. In altre parole, la concezione ciclica del tempo è fondamentale per tutta la cultura rivoluzionario-conservatrice.

Ebbene, parlando di quei pensatori che, come Nietzsche, Spengler, Guénon o Evola, hanno riproposto nell’Europa contemporanea una concezione ciclica del tempo e della storia e hanno quindi contributo in maniera diversa alla formazione dell’orientamento rivoluzionario-conservatore, non possiamo certamente trascurare Mircea Eliade, il quale non solo ha esaminato, in un’ottica da storico delle religioni, la concezione del tempo tipica delle società “arcaiche”, ma ha anche cercato, sulla base dei dati desunti dalle sue ricerche di studioso, di tracciare le linee essenziali di una filosofia della storia antitetica alle dottrine prodotte dall’ottimismo ottocentesco.

Emil Cioran

L’altro grande esponente della “giovane generazione” romena interbellica che assieme a Mircea Eliade ha conquistato una fama mondiale, Emil Cioran, fu anche lui allievo di Nae Ionescu.

Ora, il linguaggio di Nae Ionescu è ben presente nell’unico libro di Cioran che abbia un contenuto propriamente politico, Schimbarea la fata a României (La Trasfigurazione della Romania), del 1937: una sorta di “discorso alla nazione romena” in cui il tema centrale, la ripulsa del sistema democratico, accomuna Cioran a Codreanu.

Per il capitano della Guardia di Ferro si trattava di “porre fine all’esistenza dello Stato democratico basato sull’ideologia della rivoluzione francese” (Il capo di cuib, p. 100) e di “eliminare le discussioni – sterili e costose – del parlamentarismo democratico, da cui nessuna luce è uscita e da cui soprattutto non può uscire la decisione eroica di fronteggiare il pericolo in queste ore difficili”.

Da parte sua, Cioran non taceva la propria ammirazione per quegli ordinamenti politici che nel periodo interbellico rappresentavano differenti alternative alla democrazia parlamentare: il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco, il bolscevismo sovietico.

Mi limito ad alcune citazioni, tratte da articoli scritti da Cioran fra il 1930 e il 1936 e da libro Schimbarea la fata a României.

Circa Mussolini e il fascismo italiano: “col fascismo, l’Italia si è proposta di diventare una grande potenza. Risultato: è riuscita a interessare seriamente il mondo … senza il fascismo, l’Italia sarebbe stato un paese fallito … il grande merito di Mussolini è di avere inventato per l’Italia la forza … il fascismo è un trauma, senza il quale l’Italia è un compromesso paragonabile alla Romania attuale” (“Vremea”, 31 maggio 1936).

Circa Hitler e il nazionalsocialismo: “Se c’è qualcosa che mi piace nell’hitlerismo, è la cultura dell’irrazionale, l’esaltazione della vitalità in quanto tale, l’espansione virile della forza” (“Vremea”, 18 dicembre 1933). E ancora: “Nel mondo di oggi non esiste uomo politico che mi ispiri una simpatia e un’ammirazione più grande che Hitler. Esiste qualcosa di irresistibile nel destino di quest’uomo, per il quale ogni atto della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione simbolica al destino storico di una nazione … La mistica del Führer in Germania è pienamente giustificata …” (“Vremea”, 15 luglio 1934).

Riguardo al bolscevismo e all’Unione Sovietica, Cioran scriveva: “La Romania ha molto da imparare dalla Russia. Ho l’impressione che, se non mi fossi occupato almeno un poco della rivoluzione russa e del nichilismo russo del secolo scorso, sarei caduto preda di tutte le disgrazie di un nazionalismo ispirato a Daudet e a Maurras”. E proseguiva: “L’hitlerismo mi sembra essere un movimento serio per aver saputo associare direttamente alla coscienza della missione storica di una nazione i problemi inerenti alla giustizia sociale. Quanto al bolscevismo, se è vero che rappresenta una barbarie unica al mondo, nondimeno esso è, per via dell’affermazione assoluta della giustizia sociale, un trionfo etico unico. Non si può fare una rivoluzione nazionale di grande respiro sulla base delle ineguaglianza sociali”.

Ancora nel 1957, rivolgendosi a Costantin Noica, un intellettuale della sua generazione rimasto in Romania, Cioran ricorderà il tempo in cui le “superstizioni alla democrazia” ripugnavano ad entrambi e rievocherà in questi termini il proprio giudizio di condanna del parlamentarismo: “Vergogna della Specie, simbolo di un’umanità esangue, senza passioni né convinzioni, inadatta all’Assoluto, priva d’avvenire, limitata sotto ogni aspetto” (Storia e utopia, p. 13) e così via. Quindi, proseguirà, “i sistemi che lo volevano eliminare [il parlamentarismo democratico, N.d.R.] per sostituirvisi mi sembravano belli senza eccezione, all’unisono col movimento della Vita, la mia Divinità di allora”.

Le pagine di Schimbarea la fata a României dedicate alla questione ebraica riecheggiano sostanzialmente anch’esse le posizioni legionarie. Ne traduco alcuni brani, avvertendo che Cioran stesso li ha soppressi nell’edizione del 1990.

“L’invasione giudaica negli ultimi decenni del divenire romeno ha fatto dell’antisemitismo la caratteristica essenziale del nostro nazionalismo. Inintelligibile altrove, da noi questo fatto trova una sua legittimità, che però non deve essere esagerata (…) Un organismo nazionale sano viene sempre messo alla prova nella lotta contro gli ebrei, specialmente quando, costoro, col loro numero e la loro tracotanza, invadono un popolo. Ma l’antisemitismo non risolve né i problemi nazionali né quelli sociali di una stirpe. Esso rappresenta un’azione di purificazione, niente di più. I vizi costituzionali di quella stirpe rimangono gli stessi. La strettezza di vedute del nazionalismo romeno è dovuta alla sua derivazione dall’antisemitismo. Un problema periferico diventa fonte di movimento e di visione”.

E più avanti, facendosi trascinare dal suo caratteristico lirismo un po’ allucinato: “Ogniqualvolta un popolo prende coscienza di se stesso, entra fatalmente in conflitto con gli ebrei. Il conflitto latente che esiste sempre tra gli ebrei e il popolo rispettivo si attualizza in un momento storico decisivo, a un crocevia essenziale, per collocare gli ebrei al di là della sfera della nazione, di più: esistono momenti storici che fanno degli ebrei in modo fatale, dei traditori (…) Non sentendosi in nessun luogo a casa propria, essi non conoscono in nessuna maniera la tragedia dell’estraniamento. Gli ebrei sono l’unico popolo che non si sente legato al paesaggio. Non esiste angolo della terra che abbia loro modellato l’anima; è per questo che sono sempre gli stessi in qualunque paese o continente. La sensibilità cosmica è loro estranea (…) in ogni cosa gli ebrei sono unici; non hanno pari al mondo, piegati come sono da una maledizione di cui è responsabile soltanto Dio. Se fossi ebreo, mi ucciderei all’istante”.

Quello che è interessante notare, è che l’antigiudaismo di Cioran è ben lungi dal precostituire un alibi che serva a giustificare l’instaurazione di un “capitalismo nazionale” liberato dalla concorrenza ebraica. “In che cosa – scrive Cioran – i capitalisti romeni sono migliori dei capitalisti ebrei? La stessa bestialità negli uni e negli altri. Non posso concepire, e mi rifiuto di credere, che potremmo fare una rivoluzione nazionale la quale distruggesse i capitalisti ebrei e risparmiasse quelli romeni. Una rivoluzione nazionale che volesse salvare i capitalisti romeni mi sembrerebbe qualcosa di orribile”.

Anche a questo proposito, dunque, la posizione di Cioran ricorda quella di Codreanu, il quale aveva scritto: “Ma nemmeno permetteremo che, al riparo di slogan nazionalistici, una classe tirannica e sfruttatrice opprima i lavoratori di tutte le categorie, spellandoli letteralmente e strombazzando di continuo: Patria (che non amano), Dio (in cui non credono), Chiesa (in cui non entrano mai), Esercito (che mandano in guerra a mani vuote). Queste sono realtà che non possono costituire emblemi di truffa politica e nelle mani di usurai immorali”.

Nonostante queste importanti convergenze con gli orientamenti del legionarismo, il vitalismo di Cioran si determina in una serie di prese di posizione che appaiono poco compatibili con la religiosità caratteristica del legionarismo stesso. Emerge infatti, dalle pagine di Schimbarea la fata a României, una sorta di bizantinofobia che nega le radici stesse della spiritualità romena.

La controparte di questo odio per Bisanzio è una vera e propria superstizione della “storia”, intesa come dinamismo cittadino, urbanizzazione, industrializzazione totale. Anche sotto questo riguardo, le posizioni di Cioran sono piuttosto lontane da quelle della Guardia di Ferro, la quale, se non respingeva affatto la prospettiva di un’industrializzazione a misura della realtà romena, nondimeno voleva conservare al paese il suo carattere fondamentalmente contadino. I legionari non misero mai in questione il valore del villaggio (il sat) come cellula vitale dell’organismo comunitario nazionale, mentre Cioran si schiera decisamente dalla parte della città e spara a zero contro i sostenitori della campagna e della cultura del villaggio.

“La nostra disgrazia – scrive Cioran – è dovuta alle condizioni di vita dei popoli contadini. Il loro ritmo lento sarebbe una felicità, se non esistesse l’evoluzione rapida dei paesi industriali. Da una parte il villaggio, dall’altra la città. L’entusiasmo per il villaggio è la nota comune dei nostri intellettuali di sempre, è la loro caratteristica stolta. Perché, se questi intellettuali avessero avuto un minimo di spirito politico, avrebbero capito che il villaggio non rappresenta affatto una funzione dinamica, anzi, costituisce addirittura un ostacolo se si vuole accedere al grande potere. Il villaggio è l’infrastruttura e la base biologica di una nazione; non è però il suo portatore e il suo motore. Un anno di vita di una città moderna è più pieno ed attivo che non un secolo della vita di un villaggio. E non solo a causa del gran numero della popolazione, ma anche del tipo di vita cittadino, che accelera il proprio ritmo grazie alla sua sostanza interna. Città e industrializzazione devono essere due ossessioni per un popolo in ascesa”.

Fatto sta che Codreanu lesse Schimbarea la fata a României (il volume gli era stato inviato in omaggio dall’autore stesso) e il 9 marzo 1937 scrisse a Cioran una lettera in cui dimostrava di avere apprezzato la tensione che era all’origine di quelle pagine, al di là delle espressioni spesso paradossali del loro autore. “Mi congratulo con te dal profondo del cuore – gli scrisse Codreanu – per tutto il tormento che pulsa nel tuo petto e che tu hai manifestato in una forma così elevata. Tu vuoi che questa nazione si scrolli di dosso l’abito di pigmeo che porta da tanto tempo e si vesta di panni regali. Anch’essa lo vuole. Prova ne è il fatto che ti ha plasmato con la sua argilla, affinché tu lo scriva. Perché tutti noi che scriviamo o lottiamo non lo facciamo per nostra iniziativa, ma sospinti dalla lava romena del vulcano che vuole erompere, per innalzarsi verso il cielo”.

Tre anni dopo, nel dicembre 1940, nel breve periodo del governo nazional-legionario, fu Cioran a commemorare alla radio nazionale romena il Capitano della Guardia di Ferro. “Prima di Corneliu Codreanu – disse Cioran in quella trasmissione – la Romania era un Sahara popolato. L’esistenza di coloro che si trovavano tra quel cielo e quella terra non aveva altro contenuto se non l’attesa. Qualcuno doveva venire. (…) Il Capitano ha dato al romeno un senso (…) Vicino al Capitano, nessuno rimaneva tiepido. Sul paese è passato un brivido nuovo (…) A eccezione di Gesù, nessun morto ha continuato ad essere presente tra i vivi … d’ora in poi, il paese sarà guidato da un morto, mi diceva un amico sulle rive della Senna. Questo morto ha diffuso un profumo di eternità sulla nostra minutaglia umana e ha riportato il cielo sopra la Romania”.

Come si vede, il discorso di Cioran riprende con altre parole quel tema della “riconciliazione della Romania con Dio” che aveva tanto impressionato Mircea Eliade.

Certo, a differenza di Eliade, che fu membro del cuib “Axa” e fu candidato alle elezioni del 1937 per il partito legionario Totul pentru Tara, Cioran non fu un militante della Guardia di Ferro nel senso vero e proprio del termine, poiché non fu mai ufficialmente iscritto al Movimento. Però, in base a quanto abbiamo visto, è indiscutibile che Cioran visse il fenomeno legionario con grande intensità.

Nel suo caso abbiamo a che fare con uno di quei tanti intellettuali romeni i quali, pur mantenendo la propria autonomia di pensiero e di azione e senza aderire formalmente al Movimento legionario, nondimeno ne fiancheggiarono e ne sostennero l’azione.

Comunque sia, è evidente che nel vitalismo esasperato di Cioran, nella sua aspirazione alla potenza, nella sua idea della necessità di una “mobilitazione totale” delle masse, nel suo rapporto vagamente “futuristico” con la modernità si manifestano alcuni di quei caratteri fondamentali che abbiamo individuati come tipici della rivoluzione conservatrice.

Costantin Noica

Alla variante nazionalista rappresentata dalla “giovane generazione” interbellica romena si ricollega anche il pensiero del filosofo Constantin Noica, che si caratterizza in maniera particolare per il tentativo di respingere l’aut aut dei conservatori e dei liberaldemocratici: i primi – secondo Noica – condannano il popolo romeno al destino oscuro ed anonimo di un’esistenza etnografica ai margini dell’Europa, mentre i secondi lo espongono al rischio dell’omologazione mondialista e della perdita di identità. Al dilemma tradizione-modernità (ovvero campagna-città, Oriente-Occidente, bizantinismo-latinità, ecc.) Noica si sottrae proponendo una “Romania attuale”.

In una conferenza tenuta a Berlino nel giugno 1943, Constantin Noica diceva: “Noi sappiamo di essere quella che si dice ‘una cultura minore’. Sappiamo anche che ciò non significa affatto inferiorità qualitativa. La nostra cultura popolare, per quanto minore, ha realizzazioni qualitative paragonabili a quelle delle grandi culture. E sappiamo di avere, in questa cultura popolare, una continuità che le grandi culture non hanno (…). Ma è proprio questo che oggi non ci soddisfa: che siamo stati e siamo – per quello che vi è di meglio in noi – gente di villaggio. Noi non vogliamo più essere gli eterni campagnoli della storia. Questa tensione – aggravata non solo dal fatto che ne siamo consapevoli, ma anche dalla convinzione che ‘essere consapevoli’ può rappresentare un segno di sterilità – costituisce il dramma della generazione di oggi. Economicamente e politicamente, culturalmente o spiritualmente, sentiamo che da un pezzo non possiamo più vivere in una Romania patriarcale, contadina, astorica. Non ci soddisfa più la Romania eterna: vogliamo una Romania attuale”.

Ma a questo punto a Noica si presenta un dilemma: se rimanere nell’eternità equivale a restare una cultura anonima e minore, imboccare la strada dell’“attualità”significa entrare in competizione con le grandi culture ed esserne inevitabilmente sopraffatti.

Il dilemma sembra insolubile; tuttavia è un dato di fatto che il popolo romeno sta transitando dall’eternità alla storia.

Però, se entrare nella storia è inevitabile, non è inevitabile aderire ai programmi del modernismo liberale e democratico. Anzi, in alternativa sia all’opzione conservatrice sia a quella liberaldemocratica, Noica indica una terza via, quella terza via che d’altronde è implicita nelle posizioni di altri intellettuali del Novecento romeno, quali ad esempio lo storico Vasile Pârvan, il poeta e filosofo Lucian Blaga e, come abbiamo visto, il Cioran della Trasfigurazione della Romania – tre autori, d’altronde, che Noica cita espressamente a sostegno della propria posizione.

Il rifiuto simultaneo del conservatorismo e del modernismo liberaldemocratico si accompagna, in Noica, ad una critica della modernità che egli continua a sviluppare ben oltre i termini cronologici della seconda guerra mondiale. È possibile farsene un’idea, se non si conosce il romeno, leggendo uno dei pochissimi saggi di questo filosofo che sono stati tradotti in italiano: le Sei malattie dello spirito contemporaneo, un libro pubblicato nel 1978 (in piena epoca Ceausescu) in cui vengono esaminati quegli squilibri dell’essere (“malattie ontiche”) che si riflettono negli uomini, nei popoli e addirittura negli dei.

Tra tali malattie, due sono particolarmente significative in relazione al discorso sulla modernità e alla linee di pensiero della rivoluzione conservatrice: la “acatolia” (rifiuto dell’universale, katholou) e la “atodetia” (rifiuto dell’individuale, tode ti). La “acatolia”, spiega Noica, è “la malattia dello schiavo umano che ha dimenticato ogni padrone, compreso quello interiore”, è la malattia che ha cominciato ad affliggere l’Europa fin dall’età dei Lumi e, per il tramite degli anglosassoni, “ha conquistato il mondo occidentale e quella parte del pianeta Terra che sta sotto la sua influenza”.

Se mi si consente un’osservazione, sono concetti che ricordano quelli espressi da Drieu La Rochelle nel suo Diario sotto la data del 2 settembre 1943: “In mancanza del fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’uomo con le spalle al muro, costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge suprema”.

Tornando a Noica, quell’altra malattia che egli chiama “atodetia” consiste invece nell’asservimento della persona a quella che lo stesso Noica ha chiamata “la tirannide dei poteri anonimi”: Storia, Società, Scienza, ecc. superstiziosamente intese come altrettante divinità del mondo moderno.

Riferendosi a Spengler, Noica vede nella “acatolia” una infermità tipica della Zivilisation, e nella “atodetia” l’infermità della Kultur.

Quanto alla “acatolia” democratica, essa si manifesta in un mondo atomizzato e dominato dall’ansia di avere, dove tutto ha come fine supremo l’incremento del benessere materiale. Questa Zivilisation in cui si esprime l’homo democraticus viene spietatamente caratterizzata da Noica in un altro saggio tradotto in italiano, Pregate per il fratello Alessandro. Ne riferisco solo qualche riga: “’Lasciatemi in pace, voi divinità, voi dottrine filosofiche, voi chiesa o tradizioni. So io meglio di voi quello che mi occorre’. Dal Settecento ad oggi, l’individuo ha conquistato diritti come mai ne aveva avuti nella storia. I totalitarismi che sopravvivono se ne stanno vergognosi per l’ardire che hanno avuto, per un attimo, nei confronti dell’individuo, non soltanto di opprimerlo direttamente, ma anche di trasformarlo in oggetto, come si erano proposti. (…) Il fratello IO ha vinto; (…) L’individuo è riuscito ad essere ed è ancora (fino all’incontro con gli asiatici, privi del senso dell’individualità) colui per il quale si fa tutto. (…) Ed ecco che, alla fine, gli uomini non si sentono felici (…) Pregate per l’uomo moderno che vive nel benessere … Egli ha, nella sua società dei consumi, qualcosa della psicologia della donna che fa vita mondana: ‘Non mi piace questo champagne, fa’ qualcosa per distrarmi …’ (…) Questo individuo accerchiato … per il quale l’esortazione deifica a conoscere se stessi aveva solo un’ombra di senso … ha vinto la partita. Il piccolo imbecille è al volante della sua macchina e parte, dopo la noia di alcuni giorni di lavoro, per la noia di un week-end. Pregate per lui”.

Questo piccolo imbecille è il prototipo di quell’umanità democratica che “è ormai una massa informe”, come dice lo stesso Noica in De dignitate Europae, un libro uscito nel 1988 (un anno dopo la sua morte e un anno prima della caduta di Ceausescu). E questa massa informe sta per “affondare nella zoologia”, perché non si può pensare una sorte diversa per “un mondo che non ha nulla di santo in sé, ma lascia ciascuno in pace”, un mondo privo di ogni autentico legame interiore, nel quale, dice ancora Noica, “l’uomo si allontana rispettosamente dall’uomo”, sicché “bye-bye potrebbe essere forse il suo nome più adatto”.

La società democratica è infatti una “società del bye-bye”, nel senso che l’asservimento della tecnica alla finalità consumistica provoca un aumento continuo delle distanze tra uomo e uomo, tra uomo e mondo. Più che comunicare tra loro, gli homines democratici si rapportano agli strumenti della presunta comunicazione (il giornale, la radio, il televisore, ecc.); la stessa velocità, osserva Noica, “non getta ponti, ma strappa le radici”. L’isolamento dunque non è mai stato così grande come nel “villaggio globale”.

Se la democrazia occidentale è frutto di una malattia dello spirito contemporaneo (la “acatolia”), il totalitarismo, lo abbiamo accennato, è frutto di un’altra malattia (la “atodetia”).

Secondo Noica però non esiste, tra male democratico e male totalitario, un’equivalenza che consenta di metterli sul medesimo piano: quanto meno va tenuta presente la diversità delle origini, essendo il primo un’affezione della Zivilisation, il secondo un’affezione della Kultur.

D’altronde, argomenta Noica, sul piano degli effetti pratici il totalitarismo (anche nella sua variante comunista) è meno pernicioso della democrazia liberale; anzi, esso possiede, indipendentemente dalla sua volontà e dai suoi progetti, delle virtù oggettive. Innanzitutto, tra il conformismo democratico e l’irreggimentazione totalitaria esiste una differenza apprezzabile, che si risolve a vantaggio del totalitarismo, perché in esso il controllo e il dominio sono praticati in maniera dichiarata, senza infingimenti e senza troppa ipocrisia.

Ma c’è dell’altro. Tra gli anni Settanta e Ottanta Noica annotava nel suo diario la riflessione che nel comunismo “ciò che è essenziale all’uomo” sopravvive. “Prima, per l’uomo era facile: si definiva mediante l’avere. Adesso deve definirsi mediante l’essere”. Vale a dire, il totalitarismo comunista avrebbe messo molti uomini davanti alle proprie responsabilità, offrendo loro, paradossalmente, la possibilità di un’esistenza più autentica.

Sempre in relazione al confronto tra democrazia occidentale e “socialismo reale”, c’è un’altra considerazione di Noica che merita di essere riferita: quella secondo cui l’aspetto internazionalista è di gran lunga più accentuato all’Ovest che non all’Est. È vero che la teoria marxista-leninista si è espressa attraverso frasi retoriche del tipo “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, ma la realtà del “vagabondaggio planetario” (altra tipica espressione di Noica) è indiscutibilmente una condizione esistenziale caratteristica dell’Occidente democratico, non dei paesi del socialismo reale.

Comunque sia, la matrice di ogni cosmopolitismo e internazionalismo manifestatosi nel Novecento è quell’”universale generico” al quale Noica contrappone una filosofia del radicamento tradizionale e dell’identità comunitaria.

Una replica, questa, che non poteva non lasciare allibita l’intellighenzia neoilluminista dell’Europa occidentale, la quale ha cominciato qualche anno fa a sottoporre Noica ad un processo postumo (come d’altronde è stato fatto con Eliade e con Cioran), accusandolo di aver ceduto alla “tentazione fascista” quando aderì alla Guardia di Ferro e di avere proseguito la propria crociata antidemocratica collaborando “oggettivamente” col regime nazionalcomunista di Ceausescu.

Conclusioni

Tirando le somme, sembra legittimo concludere che la categoria di “Rivoluzione Conservatrice” può essere estesa anche alla Romania e al Movimento legionario in particolare.

Dal punto di vista cronologico, però, mentre nell’area austro-tedesca i limiti della Konservative Revolution sono il 1918 e il 1932, (poiché l’ascesa al potere della NSDAP segna contemporaneamente il coronamento e la fine della Konservative Revolution), in Romania invece il fenomeno rivoluzionario-conservatore arriva fino agli anni della seconda guerra mondiale.

Non solo: alcuni esponenti della rivoluzione conservatrice romena, dopo aver fiancheggiato il Movimento legionario, proseguono la loro attività negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, alcuni in esilio e altri in patria. Eliade pubblica l’edizione francese del Mito dell’eterno ritorno nel 1949, mentre Constantin Noica svolge un’intensa attività in patria nel periodo nazionalcomunista – cioè dal 1965 fino al 1987 (anno della sua morte) – prima in un’istituzione ufficiale quale il Centro di Logica dell’Accademia Romena e successivamente nel rifugio carpatico di Paltinis, che diventa la meta ininterrotta di numerosi giovani e, se vogliamo citare Cioran, “Il centro spirituale della Romania”.

Possiamo dire che qualcuno ha raccolto la loro eredità? Chi vivrà, vedrà.

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