Ma se le testimonianze e gli articoli raccolti costituiscono un apparato filologico di sicuro interesse, sono in verità le interviste a risultare veramente sorprendenti. Interviste di cui si può trovare peraltro il corrispettivo filmato spulciando su YouTube, godendosi quindi lo spettacolo di questa vecchia canaglia che incalza l’intervistatore, lo spiazza, lo prende in giro con i suoi balbettamenti, le sue iperboli, la sua inimitabile presenza scenica. Gli si chiede di autodefinirsi e lui prende il largo con una digressione dal sapore fenomenologico: «Io lavoro – dice Céline – e non me ne frega nulla. Ecco esattamente quello che penso. La questione è che noi siamo i colpevoli della pubblicità. Perché è l’orrore del mondo moderno che produce la pubblicità. Dunque, io sto dalla parte della modestia. Quello che conta è l’oggetto». Sull’ostracismo abbattutosi su di lui nel dopoguerra, lo scrittore dice: «Sono riuscito a passare attraverso la più grande battuta di caccia mai organizzata nella storia, è già mica male». E ancora: «”Il nemico del genere umano”. È il mio nuovo appellativo. Sono il nemico del genere umano. Sono un genocidio platonico, verbale. Ma non importa. Sono le miserie umane che un po’ di sabbia cancella. Cito la sorella di Marat. La cosa davvero importante è pagare il droghiere».
E nella massa di aneddoti, critiche, racconti, analisi, recensioni, Lombardi non manca di dar battaglia contro critici avventati, malevoli, disinformati. E’ il caso degli accenti lombrosiani di un Antonio Moresco, che può chiedersi basito come mai «uno dei più grandi scrittori del Novecento ha questa faccia da uomo losco, corrotto, cattivo, da brutta persona, da malavitoso che è meglio tenere alla larga». C’è poi la squisita sensibilità sociale di un Alessandro Piperno, che rispetto all’ultimo Céline ridotto in miseria si mette a criticare «i leziosi foulard con cui i barboni si danno un tono». Complimenti. Rispetto a queste e altre accuse, Lombardi fa giustizia in modo puntuale e documentato, non mancando di affrontare anche i punti più controversi e sulfurei della produzione céliniana con doverosi chiarimenti e messe a punto. Insomma: scrittore visionario, eccessivo, maledetto, provocatore sì. Penna di partito o di regime no, mai. E oltre alla leggende nere sullo scrittore e sul “collaborazionista”, pian piano vanno dissolvendosi sotto il peso dei fatti anche le maldicenze sull’uomo, che quando non recitava il ruolo nichilista e un po’ scontroso che si era ritagliato per sé appariva come una persona nobile e lontana dallo stereotipo facile del belzebù misantropo.
Lo spiega bene Marcel Aymé, che scrive: «Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo. Si è detto molto, anche da vivo e perfino tra i suoi ammiratori, che era avaro. Questo è un errore che egli denunciò giustamente per tutta la vita. Alla fine dei suoi studi medici, sposò la figlia unica di un medico facoltoso. Normalmente, un tale matrimonio avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una carriera facile e di un’attività redditizia, ma il denaro lo annoiava; il denaro gli sembrava una tara. Divorzierà, per condurre a modo suo un’esistenza bisognosa. Procacciarsi una clientela non gli interessava, poiché quest’uomo, che doveva dimostrarsi tirannico con i suoi editori, era incapace di incassare i soldi dei consulti medici, soprattutto se si trattava di quelli della povera gente». Un demone dal volto umano? Forse. O forse no, ma che importa? Quello che conta non è l’uomo, è l’oggetto. Ancora una volta, aveva ragione Céline.
Tratto da Il Secolo d’Italia del 7 maggio 2009.
Lascia un commento