Complice una forzata immobilità, in questi ultimi giorni ho letto alcuni libri; per lo più sono state metaletture, libri cioè talmente ricchi di riferimenti ad altri libri che anziché spegnere la voglia di leggere l’hanno ulteriormente alimentata. È un circolo – virtuoso o vizioso che sia – che alle volte porta sorprendentemente, per vie del tutto diverse, a ripercorrere tratti già familiari: mi è capitato più di una volta di ritrovare, in autori distanti per nazionalità, epoca e visione del mondo riflessioni analoghe su altri autori o libri. In particolar numero, chissà poi perché, su Poe e Simenon.
Dal mio ultimo post ho terminato Deserto di ghiaccio di Fergus Fleming. E’ il più bel libro, tra quelli che abbia letto sinora, sulla storia dell’esplorazione artica. Tutte le altre raccolte erano parziali e poco organiche: per lo più il metodo seguito dagli altri autori che hanno affrontato l’argomento è stato quello di soffermarsi su alcuni dei viaggi principali, in alcuni casi inframmezzando al resoconto citazioni dei diari dei protagonisti. Noto, tra l’altro, che tale è il metodo seguito anche da Franco Brevini nel suo recente La sfinge dei ghiacci, pubblicato sul finire dell’anno scorso da Hoepli; quel saggio comunque riguarda solo l’esplorazione italiana dell’Artico. Nel libro di Fleming la storia invece non è a comparti stagni; si seguono lo sviluppo delle teorie scientifiche e quello delle tecniche di sopravvivenza e di trasporto, sono messe in luce le personalità, spesso bizzarre e quasi sempre eroiche dei protagonisti; e nonostante l’autore sia un anglosassone ha una discreta conoscenza anche delle esplorazioni europee, compresa quella del Duca degli Abruzzi.
Ho continuato ad alimentare l’interesse per il Nord con Alla ricerca dei naufraghi dell’«Italia» di G. Albertini: l’«Italia» è il dirigibile di Nobile che si schiantò sulla banchisa polare nel ’28. Albertini era un ufficiale degli Alpini incaricato delle ricerche nelle Spitzbergen orientali. Percorse un lungo itinerario su sci e slitte trainate da cani con un piccolo gruppo di uomini, e scattò diverse belle fotografie che vennero poi inserite nel volume. La vicenda in se stessa non ha molto di straordinario, ma è narrata in modo piacevole.
Dopo la mia consueta pausa con un Maigret (Il ladro di Maigret) le vere e proprie metaletture sono iniziate con L’angelo e il capodoglio di Simon Leys. Un libro curioso, che come recita il sottotitolo verte “sulla calligrafia, la letteratura e l’arte della traduzione”. La maggior parte degli scritti eterogenei che costituiscono il volume verte su cose cinesi (l’autore è un celebre sinologo, traduttore di Confucio), ma anche su Balzac, Simenon, Dana, Stevenson, Chesterton e Lawrence. Leys è un uomo intelligente, e nelle sue frasi non manca mai un’osservazione meritevole di interesse.
Lo stesso si può dire per Borges. Ho letto in questi ultimi giorni i suoi Prologhi (Adelphi), scritti nell’arco di un cinquantennio, pubblicati in apertura di libri assai diversi; il numero maggiore riguarda la letteratura argentina classica, che ignoro completamente. Poiché anche in Borges non mancano mai osservazioni intelligenti e una nutrita documentazione, mi hanno stupito non poco la superficialità e persino l’ottusità con cui Borges liquida il fascismo e il nazismo, che a suo dire sarebbero null’altro che il truce e deprecabile risultato delle idee di Carlyle. Neanche i migliori autori si possono accogliere senza riserve.
Un lettura importante è stata La capanna nella vigna di Ernst Jünger, pubblicato recentemente da Guanda. Anche se questa casa editrice pubblica i libri con le copertine più orribili dell’intero panorama editoriale europeo alcuni testi sono di grande interesse. Il diario jüngeriano degli anni dell’occupazione conferma entrambe le cose. La prima e più banale considerazione che si può trarre è che quell’occupazione non è ancora cessata; il sigillo con cui Jünger aveva chiuso il precedente diario Irradiazioni, “Terra vinta ci dona le stelle”, non si è lontanamente realizzato. Ma nelle pagine di questo libro si precisano le posizioni di Jünger nei confronti del Reich e di tanti suoi protagonisti, e persino il giudizio su alcuni protagonisti – Hitler e Goebbels in particolare – si fa più articolato e assai meno banale di quanto non apparisse dai diari del tempo di guerra.
Ho letto anche Il Duca dell’avventura di Reinhold Messner (in realtà la maggior parte dei testi è di Roberto Mantovani). Avevo già accennato a quel libro poco prima che uscisse, in Alla fine è arrivato Messner. E’ davvero una bella biografia per immagini del Duca degli Abruzzi, che restituisce un ritratto completo di quell’uomo coraggioso e dalle grandi capacità. Sono particolarmente suggestive, oltre alle immagini relative alla spedizione polare, quelle scattate nel 1909 da Vittorio Sella nel Karakorum.
Da una decina di giorni ho iniziato la lettura di un libro straordinario di cui mi ero messo alla caccia da circa un anno, e che finalmente sono riuscito a procurarmi a un prezzo ragionevole. E’ un libro in tre volumi pubblicato nel 1897, Fra ghiacci e tenebre di Fridtjof Nansen, Otto Sverdrup, Hjalmar Johansen e B. Nordhal, e costituisce il resoconto della celebre spedizione polare norvegese del 1893-1896. Mi rendo conto di come possa suonare strano che un testo su un argomento così insolito desti un interesse tanto vivo; io stesso sino a qualche anno fa probabilmente avrei ignorato questo libro se lo avessi scovato su una bancarella o in una libreria antiquaria. Però le passioni sono difficilmente giustificabili; in definitiva, credo che quella per i viaggi polari risponda a una nostalgia delle origini e al desiderio di leggere avventure reali.