Woody Allen

Woody AllenUno con quella faccia lì non può non essere che un genio. No, non parliamo di Eugenio Scalfari il padre di Repubblica, ma di Woody Allen che ultimamente proprio dal giornale scalfariano ora di Ezio Mauro, a causa del suo ultimo libro scritto a quattro mani con Eric Lax (Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani 2008, 21.50 euro), è stato un po’ maltrattato (Sigmund Ginzberg, Woody Allen. Un monumento un po’ troppo ingombrante, 30 settembre 2008).

Un volume che precede di pochi giorni l’uscita dell’ultimo film del regista di Prendi i soldi e scappa (1969): Vicky Cristina Barcelona protagoniste le due super-belle Penelope Cruz e Scarlett Johansson. Un film metà dramma e metà commedia sexy di ambientazione latina.

C’era una volta un intellettuale così intelligente da apparire anche bello, un intellettuale (regista e scrittore) che era l’orgoglio della sinistra chic. Uno che (per dire…) anche quando alzava la tavoletta del gabinetto non poteva non essere di sinistra, perché…. perché era ironico e un po’ fifone, nevrotico, relativista e dissacratore. E aveva due occhi consumati dal dubbio anche in quell’esatto momento.

Uno così non poteva essere di destra mai e poi mai, la destra palestrata (dal naso in giù) e delle certezze assolute, quella del superuomo scotch e nicotina, sesso, mazzate e giubbotto nero. La destra trucida insomma che al più poteva accontentarsi di amoreggiare con Tomas Milian (col poliziotto o col ladruncolo), maestro di simpatia ma diciamolo pure non un principe di Galles per modi e pensiero.

Questa era la destra che “piaceva” alla sinistra a cui a sua volta piaceva Woody Allen col suo umorismo yiddish e le battute al veleno (alle quali il laureato della new left rideva con un fuori-sincrono di 10-15 sec. giusto il tempo per mettere assieme i pezzi del discorso), mica con le parolacce tipiche dell’ispettore Nico o le barzellette di Silvio Berlusconi sciocche e volgari perfino per i telegenici del Grande Fratello.

Adesso però Woody (almeno lui) sta diventando serio. Alla sinistra che sul sedile della trasgressione ci ha messo (oltre il cappello), un grattacielo di spocchia e superbia, il newyorkese dallo sguardo cauto e triste comincia a piacere di meno. Udite udite: quel tipetto anarchico che sta (forse) traversando la sua quarta – ultima – stagione non appaga più il pubblico con occhiali, barbetta e jeans strappato. È pessimista, anzi no è troppo tecnico; si è eclissato dietro un origami di pensieri molesti, non è più il ribaldo di molte primavere fa. Il Woody Allen amico-di-una-vita, dopo quattro decenni di onorata carriera mostra qualche rughina di troppo. E si prepara alla pensione.

Woody Allen - Eric Lax, Conversazioni su di me e tutto il resto
Woody Allen - Eric Lax, Conversazioni su di me e tutto il resto

Si sa però che i mali, se non vengono per nuocere, aiutano a meditare. Così il libro di Allen e Lax denso di ben 600 pagine (quasi una storia del regista per interviste cominciata già nel 1971), è l’occasione giusta per riflettere, così per dire, sul cosmo di trame e soggetti del settantatreenne Woody, e sui perché e sui per come della sua straussiana vita d’artista.

Cominciamo da qui. Ovvio che la destra – se la destra è quella sbrigativa di Accio Benassi il protagonista del Fasciocomunista di Antonio Pennacchi – col grande, grandissimo Allen, di oggi e del passato, non può averci nulla a che fare. Ripetiamo: se la destra è una cosa che ha a che fare più con le botte da orbi e meno con l’intelligenza però. Ma quello del destrino tutto fumo (e fiamma) e poco arrosto è uno stereotipo vecchio, anzi mortizzo, figlio di anni nei quali era impossibile fermarsi a pensare. Tutti si viaggiava sul tram della politica (e sovente qualcuno prendeva anche il numero P38) e chi aveva più voce e furbizia cantava per se e per gli altri.

Eravamo impacciati; ecco sì, eravamo tutti poco liberi. E quelli che liberi lo erano veramente sembravano dei grandissimi tomi. Woody nonostante lo neghi (egli stesso s’intende), è un artista ricco di talento, è un signore dotato di un naturale senso del reale tanto da lasciar credere che dietro gli angoli della sua mente non ci sia alcun “platonico” imbroglio. È un antidoto alle cialtronate politiche e le fregature ideologiche, insomma è un americano che si permette il lusso della libertà o almeno prova ad indossarne i simboli, un giorno sì l’altro pure.

Forse negli ultimi anni ha fallito nel colpo di reni (può darsi), ma a guadagnarci è stato il sentimento classico quasi religioso per il rispetto della morte. Tutti eravamo abituati alle battute di Allen; a quelle del tipo: «Uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina”. E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”. E quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”». Ma col cinema drammatico Woody si è ancor più umanizzato. La tristezza però non è per i tristi o per chi mastica amaro; c’è come un senso di rotonda e leggera vivacità nei suoi film che da anni non sono più una raccolta di spassosissimi sketch o di battute sulla vita, i pazzi e le galline. Tanto basta per produrre la speranza di una misera o allegra normalità, provata ancora una volta, giorno per giorno.

Woody non è più il clown dalla mise luccicante ma non s’è trasformato in un rabbioso buffone di corte. E allora? Uno dei più grandi talenti del cinema americano ha uno spigolo esposto al sole e alla pioggia di una pesante e umana vecchiezza. Lo nascondevamo perfino a noi stessi ma oltre ad essere un genio Woody era – soprattutto – un uomo come gli altri (e pensare che ce lo spiegava da più di trent’anni!). E adesso che lo abbiamo capito e che sappiamo che anche lui ha paura di morire pare ci metta quasi paura.

Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody dunque ma non avete mai osato chiedere: uno “sperimentatore” che esplora l’orizzonte del nuovo ma che convive col più classico e conosciuto dei “conservatori”, ecco chi è Woody Allen. Un uomo che ha in odio le macchine e la tecnologia e che scrive i propri film a mano e poi utilizzando la stessa macchina da scrivere, un aggeggio che ha imparato ad usare alla perfezione solo parecchi anni dopo averlo acquistato.

Leggere il libro (per la verità la comprensione viene di molto agevolata se ci si procura una filmografia magari sul web), significa andare alla scoperta di un regista (e di un uomo) dai mille volti, anarchico appunto. L’artista amante ora delle tecniche nuove, non “convenzionali” quasi alla Andy Warhol, ora dei musical, ora della nostalgie in bianco-nero, ora delle tecniche utilizzate per i documentari, ora come sappiamo dei gialli con finale a sorpresa. Un uomo di cinema che realizza commedie pensando ai film “seri” (genere che peraltro predilige) e che gira film “seri” pensando anche alle commedie.

Woody Allen, Pura anarchia
Woody Allen, Pura anarchia

Nelle Conversazioni si intrecciano momenti molto diversi della vita del raffinato regista. Si passa nel giro di poche pagine dagli anni Settanta, agli Ottanta fino all’ultimo Woody (quello british, quello di Match point). Il narrato sembra dunque possedere una logica progressiva del tutto lineare. Non c’è un prima e non c’è un dopo nella carriera di Woody rispetto ad un film spartiacque (anche se le sue crisi sono note), sia esso Manhattan (1979) o Crimini e misfatti (1989). Forse il discorso del film “pietra miliare” è valido solo per Io e Annie del 1977 che è una pellicola fin troppo ricca di effetti creativi.

Peraltro Woody è il primo a non rendersi conto delle mutazioni, peraltro fisiologiche, occorse alla sua scrittura. Al momento di buttar giù una nuova sceneggiatura sa che deve frugare nel cassettino dei miracoli ove conserva appunti, parti di vecchie sceneggiature, idee precedentemente abortite e “pizzini” con aforismi o comunissimi appunti. Gli esiti delle sue riflessioni data la (eccellente) qualità dei risultati sono già materia per gli storici del Novecento.

Woody ha inserito nel cinema (almeno in quello comico) un’attenzione e per i sentimenti e per gli elementi psicologici dei personaggi pressoché unica, assai diversa peraltro da quella del mito dei miti Chaplin. Quest’ultimo per molti versi, quando non inserisce elementi “seri”, resta il campione del sentimentalismo e della poesia delicatamente comica. Attraverso Allen invece è più facile specchiarsi nelle nevrosi e nelle paure dei “tempi moderni”.

È arduo pensare che nel mondo descritto da Woody alberghino certezze seppure di comodo (tutto è causale, lo sappiamo). E l’arena dei conflitti è in primo luogo quella interiore. È lì che si vince o si perde ed è li che si costruiscono vite, possibilità e posizioni del tutto alternative. A cosa può servire dunque quel tocco di surrealismo che ritroviamo in tante pellicole del nostro regista se non a mostrare al pubblico più realtà o più momenti di una medesima realtà?

Per tacere dei suoi libri precedenti, curiosi ed interessanti, un’occhiatina o su di lì ai film di Woody consiglieremmo di darla eccome, oltre a quelli citati sarebbe bene cominciare dallo strepitoso Zelig (1983), esempio perfino pedagogico di una capacità d’ironia hors catégorie; agilità e stile che si fondono nel prisma di un narrato forte e profondo, un’opera in sé e per sé colossale.

Si passa poi per i precedenti Il Dormiglione (1973), Manhattan (1979) e Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971). Il cui titolo è entrato oramai nel comune linguaggio sfottente. Poi come tutti i grandi registi, il primo nome che viene in mente è Alfred Hitchcock, è possibile scegliere (e valutare, perché no?), molti dei suoi lavori a partire anche dall’interprete femminile (un nome su tutte Mia Farrow).

“Il teatro e la vita non son la stessa cosa” recitava un verso di un’opera italiana del periodo verista (un drammone…). Dei “tipi” che il regista-Woody porta in scena si può dire che siano ben diversi dal personaggio che Allen Stewart Königsberg (questo il suo vero nome), interpreta nella vita di ogni giorno. Insicuri, problematici e disordinati gli uni, disciplinato, modesto, timido, poco socievole, ma negli anni sempre più sicuro di sé e razionale (un razionale che parla spesso di magia però…), il secondo. Pare che anche il suo rapporto con i genitori, soprattutto col padre, non sia mai stato particolarmente burrascoso. Insomma Madame Bovary era Flaubert, ma pare che né il singolare Harry lo scrittore protagonista di Harry a pezzi (1997) né il regista cieco di Hollywood Ending (2002), siano mai stati Woody Allen (incredibile ma vero, o forse falso… chissà).

Anche questa è una lezione però: chiunque s’aspetti di trovare dietro la macchina da presa lo “scemo del villaggio” o un artista sempre in crisi d’idee resterà fortemente deluso. Allen sceneggiatore e regista è un professionista terribilmente serio e a tutto tondo. Tutte le arti compresa la Settima, cioè il cinema, sono un mix preciso di tecnica e ispirazione. Con la prima e senza la seconda si producono documentari freddi e precisi, con la seconda e senza la prima sciocchezze senza forma e con scarso contenuto.

In entrambi i casi siamo lontani dagli standard cui ci ha abituati la lanterna magica di Woody. Fin troppo attento anche se negli anni costretto a inseguire l’attimo, fin troppo studioso ma così onesto e modesto da ringraziare il suo istinto e perfino la dea-fortuna. Peraltro gli otto capitoli (anzi sezioni) del libro scritto con Lax rendono bene l’idea di quanto siano importanti nel cocktail alleniano e i collaboratori del regista e tutte le fasi precedenti alla realizzazione del suo prodotto.

Un buon attore può essere un buon regista, un buon regista non è quasi mai un buon attore. Woody Allen non si è mai sentito un buon attore, in realtà però non si è mai sentito un buon regista né immaginiamo si sia mai sentito un valido scrittore. Ma nessun vero maestro ti dirà mai di essere il tuo “maestro”. All’anarchico Woody concediamo allora ben volentieri l’onore di non sentirsi uno dei più grandi personaggi dei nostri faticosissimi “tempi moderni”.

* * *

Tratto dal Secolo d’Italia del 19 ottobre 2008.

Condividi:
Segui Marco Iacona:
Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

  1. lanterne cinesi
    | Rispondi

    Attendo con impazienza il prossimo articolo. Leopoldo Calabresi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *