Walter Bonatti tra i fiordi della Patagonia

Di Walter Bonatti si è tornato a parlare, e giustamente, per rendere omaggio alla verità e riconoscere il ruolo fondamentale da lui svolto nella famosa spedizione italiana al K2, che, sotto la guida di Ardito Desio, vide nel 1954 la conquista di quella cima ancora inviolata. Così pure, finalmente si è riconosciuto che, in quella circostanza, il comportamento di Compagnoni e Lacedelli, i due alpinisti che giunsero in vetta e vi issarono il tricolore, non fu limpido né sportivo; che, anzi, esso mise in gravissimo pericolo di vita lo stesso Bonatti e il portatore nepalese che avevano portato l’ossigeno preso il penultimo campo, e che furono costretti a trascorrere la notte in condizioni estreme, senza tenda e senza alcuna possibilità di proteggersi dal freddo terribile.

Ma non è di questo che vogliamo parlare, né della straordinaria carriera alpinistica di Bonatti, troppo nota agli appassionati, e anche al più vasto pubblico dei non specialisti, perché sia il caso, qui, di ricordarla, e sia pure sommariamente. Ci limiteremo solo a rammentare che essa ebbe inizio con la scalata della parete est del Grand Capucin, nel 1951 (quand’egli aveva appena vent’anni, essendo nato a Bergamo nel 1930), ed è proseguita con l’arrampicata solitaria sul pilastro sud-ovest del Dru (1955), con la conquista dello Sperone Whymper della parete nord delle Grandes Jorasses (1964), con la direttissima sulla parete nord del Cervino in prima solitaria invernale (1965), e senza dimenticare la partecipazione alla spedizione che portò alla conquista, nel 1958, del Gasherbrum IV, insieme a Carlo Mauri.

Qui vogliamo piuttosto prendere in considerazione l’attività di scrittore di Walter Bonatti, e specialmente gli articoli e i libri che egli ha scritto dopo essersi ritirato dall’alpinismo estremo, nel 1965, all’indomani di un ultimo, strepitoso successo, ossia l’apertura di una nuova via, in solitaria invernale, sulla parete nord del Cervino.

Negli anni Settanta, Bonatti ha girato mezzo mondo come inviato speciale del settimanale «Epoca», sempre alla ricerca degli ultimi paradisi nascosti, delle foreste inesplorate, dei ghiacciai inviolati, delle popolazioni non ancora raggiunte dalla cosiddetta civiltà dell’uomo bianco. A questo periodo appartiene il brano che abbiamo deciso di proporre qui al lettore, inizialmente pubblicato su «Epoca», a corredo di un bellissimo servizio fotografico; e poi raccolto, con altri, in volume, dapprima nel libro Avventura, del 1984 (Rizzoli), e, in seguito, nel più ampio In terre lontane, del 1997 (Baldini e Castoldi).

Di Bonatti piace soprattutto la profonda umanità. Per lui, l’alpinismo non è solamente un fatto tecnico e sportivo, ma anche e soprattutto un fatto umano: un misurarsi con se stesso, uno scoprire nuove regioni dello spirito, mano a mano che si dischiudono nuovi orizzonti geografici, salendo verso la vetta. Da ciò la sua diffidenza e la sua disapprovazione verso un ricorso eccessivo all’ausilio di mezzi tecnici sempre più sofisticati: perché l’importante non è giungere in vetta, con qualunque mezzo e a qualunque costo, ma il modo in cui ci si arriva, confrontandosi lealmente con se stessi e imparando a valutare in maniera equanime le proprie possibilità e le proprie risorse, sia fisiche che psicologiche. Ebbene, la stessa umanità traspare dai libri di viaggio di Bonatti, sia che si tratti di esplorare una regione lontana e poco conosciuta, sia che si tratti di descrivere la flora e la fauna esotiche di un’isola sperduta nell’oceano, oppure di accostare una popolazione primitiva della Nuova Guinea, che ha avuto pochi o nessun contatto con il mondo dell’uomo civilizzato.

Dal libro di Walter Bonatti Avventura (Milano, Rizzoli, 1984, pp. 110-120):

«Poche terre al mondo come la Patagonia fanno sentire al visitatore di trovarsi a confini della Terra. Ne è causa soprattutto la vicinanza relativa dell’Antartide, il continente di ghiaccio, che aiutata dall’incrocio turbolento de due massimi oceani, l’Atlantico e il Pacifico, condiziona notevolmente il clima di questo sottile, solitario allungamento del continente sudamericano. Vi concorre un altro fenomeno naturale, conseguente al primo, ossia l’incontro della corrente atmosferica subtropicale di nord-ovest con quella subpolare di sud-ovest. Umida e temperata la prima, fredda e violenta la seconda, provengono entrambe dal pacifico e cozzano prima fra di loro e poi contro l’alta cordigliera, producendo burrasche quasi persistenti in forma di dense nuvolosità, precipitazioni nevose e venti che spesso raggiungono i 160 chilometri orari.

Le note su questa regione parlano di “calotta glaciale” che riveste la cordigliera su una superficie di 23.000 chilometri quadrati, e occupa quasi per intero una conca di 450 chilometri, ma non è la sola. Questo enorme peso di ghiaccio, che in epoche passate fu molto più consistente, ha provocato gradatamente lo sprofondamento di queste terre, tanto che numerosi monti sulle coste del Pacifico appaiono immersi nel mare, che ha invaso lunghe vallate. Si è venuto così a formare un labirinto di isole, fiordi e canali serpeggianti, unico nel suo genere. In questo scenario desolato ai piedi delle alte vette digradano i ghiacciai, gigantesche cascaste di seracchi che scivolano tortuosi e orridi nelle profonde depressioni delle montagne fino a raggiungere le acque dei fiordi marini, dove si sgretolano i grandi icebergs. Ma ecco la meraviglia di queste coste glaciali, che le distingue da tutte le altre. Sui fianchi scoscesi, sopra i dirupi lambiti dai ghiacci azzurri, verdeggiano le più esuberanti foreste pluviali. Un contrasto veramente straordinario e impressionante.

Era il gennaio 1958 e dai 3.300 metri della vetta appena vinta del Cerro Mariano Moreno, il picco più alto e dominante lo spartiacque, avevo scrutato intensamente l’orizzonte verso l’Oceano Pacifico, sperando di intravvedere i fiordi, o almeno qualche parvenza di quei solitari recessi dove le Ande sprofondano nell’oceano.. Ma la bufera che già mi aveva accompagnato fin lassù era tornata ad avvolgermi dopo una breve pausa, privandomi dell’unica possibilità di adocchiare quel lato misterioso. Vivevo da due mesi tra questi ghiacciai australi e si può dire che ogni giorno avevo osservato il formarsi e l’evolversi delle tempeste patagoniche, le cui nubi tenebrose arrivavano sempre dalla stessa parte, dal lato del Pacifico, e nella loro consistenza quasi solida, le vedevo rotolare, giù dallo spartiacque verso il mio accampamento sullo Hielo Continental. Questa turbolenza arrivava dai fiordi, ossia da quella geografia di coste tanto imperscrutabile che, solo a pensarle, sembrava di sconfinare in un altro mondo separato da invalicabili Colonne d’Ercole.

Eppure, mi ero detto, verrà il giorno che metterò piede da quella parte, soltanto allora saprò cos’è veramente la Patagonia. E quel giorno infatti arriverà, tredici anni più tardi, il 19 gennaio 1971.

Sono a Puerto Aisen, sulla costa cilena, e sto per incominciare il viaggio tanto sognato che mi porterà tra i fiordi della Patagonia, per circa 500 chilometri (tra andata e ritorno) lungo canali e insenature della penisola disabitata di Taitao e giù fino alla laguna San Rafael. La barca su cui sto per imbarcarmi, sgangherata quanto si vuole ma preziosa, se non altro per i tre giorni che ci sono voluti a reperirla, è un caliginoso piccolo peschereccio dal nome luminoso di “Malgarita”. Ha tre uomini di equipaggio, uno dei quali, il comandante, vuole farsi chiamare semplicemente Lucio, Lucio Royas, l’essere forse più unto e annerito di fumo che io abbia mai conosciuto; ma tutto si spiega rapportando l’uomo alla lercia e fumida Malgarita”. “È un po’ scomoda”, ammette riguardosamente Lucio avendo forse intuito un certo mio disagio iniziale. “Purché non affondi fino al nostro ritorno”, aggiungo di buon grado passando subito alla contrattazione della barca. L’affare è presto concluso, anche perché a farlo siamo in due disperati, costretti l’uno a far galleggiare un rudere fumante, l’altro a non poter fare a meno di andarci sopra.

Alle 7,15 di quel mattino piovoso del 19 gennaio, succeduto a una notte di pioggia ancora più torrenziale, la “Malgarita” leva dunque l’ancora dalla riva del rio Aisen e in meno di un’ora guadagna l’omonimo fiordo, via via sempre più ondoso e schiacciato sotto una spessa cappa di nubi che scende a tratti a filo d’acqua. Non si può certo dire un inizio incoraggiante né tantomeno ricco di vedute panoramiche. Soltanto nel pomeriggio si solleva la scura cappa di nubi e qua e là si scoprono torvi speroni che si insinuano nel mare verdastro e ondoso, frangiato di schiume, su cui la “Malgarita” beccheggia quasi con fatica nella sua lenta avanzata. Siamo nei pressi del grande slargo di mare chiamato Paso del Medio e stiamo per infilare lo stretto canale Costa, forse ancora più agitato proprio per la sua angustia.

In compenso però mi avvince, e mi assorbe totalmente, la pesca al traino. Avviene in modo assai rudimentale, tuttavia rende in poco tempo un bottino incredibile se rapportato a quello dei nostri mari; qualcosa come una mezza dozzina di “sierre”, il grande pesce di queste acque che misura oltre un metro. Viaggiamo ininterrottamente tutta la notte, lasciando via via dietro di noi il golfo Tres Cruces il fiordo Elefantes, l’omonimo estuario, e il mattino successivo, a ventiquattro ore dalla partenza, siamo in procinto di passare attraverso la prima strettoia di questa serie di canali denominata Paso Quehsauèn. Devo aggiungere a questo punto che dopo una notte passata nell’angusta stiva della “Malgarita”, esposto ai fumi di nafta e a quelli del lume a petrolio, mi ritrovo in perfetta armonia con l’aspetto del comandante Lucio Royas e del suo sudicio peschereccio.

Ecco ora affacciarsi sul mare, in fondo al canale Gualas, i primi ghiacciai che qui indicano con l’appellativo di “ventisqueros”. Ancora una strettoia determinata dalla Punta Leopardos, e la baia che segue immediatamente procura non pochi sforzi ai mie compagni poiché è necessario scandagliare in continuazione i fondali che non superano mai i 5-7 metri. Le nuvole, seppure costantemente fosche, lasciano adesso intravvedere maggiori dettagli della natura circostante. Le sponde presentano spesso insenature paludose, ma la cosa che più stupisce è la vegetazione rigogliosa delle alte rive orientali. Contrafforti boscosi si ergono, come verdi muraglie, a interrompere la monotonia dell’acqua ormai biancastra e torbida per l’abbondanza di limo. Come impazzita, la “Malgarita” punta decisamente contro la muraglia vegetale della riva, ma è soltanto per accostarsi alla foce di un torrente spumeggiante allo scopo di rifornirsi di acqua dolce.

Ancora uno stretto canale, l’ultimo della serie chiamato rio Tempanos, e finalmente, meraviglia dele meraviglie, la laguna San Rafael si apre davanti a noi come una visione surreale. Pesanti nubi grigie e basse avvolgono sempre le cime; c’è tuttavia intorno a noi una lucentezza quasi spettrale, data forse dal gioco dei contrasti e dei riflessi dovuti al connubio di acqua color salvia, di cupe montagne e di candidi icebergs alla deriva, ossia dei ghiacci galleggianti che qui chiamano “tempanos”.

Ci inoltriamo lentamente nell’acqua lattiginosa e immobile di questo enorme “lago” marino, ampio almeno 120 chilometri quadrati, sfiorandone i grandi “tempanos”, veri castelli di cristallo galleggianti, attenti a non urtare di prua il minimo frammento di ghiaccio, che sospingiamo via all’occorrenza manovrando lunghi pali. Arriviamo così, ma con prudente distacco, fin sotto la testata del ghiacciaio San Rafael, una barriera netta di gelo che in certi punti è alta oltre 100 metri. È un colonnati di ghiacci azzurri che si apre a ventaglio su un fronte di 7 chilometri, e da cui franano in mare i grandi “tempanos” sotto la spinta del ghiacciaio che per ben 50 chilometri scende come un’immensa fiumana dai 4.000 metri del monte San Valentin. L’emozione che ne riporto è grande, ma raggiunge suo massimo sul mezzogiorno, quando sbarcato a terra con una scialuppa – la “Malgarita” se ne va via a pescare e non tornerà a riprendermi che da lì a qualche giorno – entro in stretto rapporto con una solitudine austera e primordiale, come si può provare soltanto in un eden incantato e sperduto come questo.

Mi inoltro nella vicina boscaglia, rada e acquitrinosa, e mi accampo presso i ruderi di una specie di rifugio, edificato ottimisticamente nel 1938 ma subito abbandonato e finito in rovina. Il mattino seguente, e per gli altri tre successivi, muovo nell’entroterra alla scoperta di questo incredibile mondo polare incoronato di abbondante vegetazione subtropicale. Si tratta di un fenomeno atipico, eccezionale ma spiegabilissimo se si considera che le alture che delimitano i fiordi dal lato del Pacifico fanno da barriera protettiva ai forti venti dell’oceano, almeno fino a qualche centinaio di metri di quota; si deve inoltre tenere presente che l’acqua dei canali è già di per sé un conduttore di calore. Ne risulta che mentre alle quote superiori infuriano tormente di neve, anche in piena estate, qui, più o meno al livello del mare, persiste invece, anche in pieno inverno, una temperatura mite che non scende mai sotto i 5 gradi centigradi, e ciò sebbene la massima estiva non superi i 13 gradi.

Nelle mie escursioni mi aggiro dunque un po’ dappertutto, nel raggio d’azione possibile dal sorgere al calare del sole. Dire sole, naturalmente, è un eufemismo in una regione dove si sono registrati limiti di piovosità di circa 7-8.000 millimetri annui. La pioggia è ormai diventata per me una compagna fedele che, ad intermittenza, mi accompagna ovunque. Un giorno però, di pomeriggio, è successo il miracolo proprio mentre mi trovavo a ridosso della testata di ghiacci in riva alla laguna. Ebbene, le grandi formazioni di gelo rimaste opache fino a quel momento, si accesero sotto inaspettati raggi di sole assumendo immediatamente forme sorprendenti, come se prendessero vita. Apparve così ai miei occhi un mondo ben distinto di guglie, arabeschi, speroni e colonne gigantesche, tutto chiaramente profilato e filtrati da luci e ombre di varie tonalità. Fu come trovarmi di colpo davanti a un mondo incantato di giade, opali e alabastri smisurati ed eretti. Ma la smagliante magia del sole durò poco in quest’angolo di terra tanto flagellato dal maltempo, e non appena il cielo tornò a rinchiudersi, i ghiacci ridivennero informi e caddero nuovamente nel mistero, rapiti da un angoscioso grigiore.

L’entroterra è una straordinaria foresta vergine, e da qualunque lato diriga le mie escursioni sempre devo attraversarne una buona porzione, tanto densa e coriacea da stentare a volte a farmi strada a copi di “machete”. Qui sono rappresentate tutte le specie vegetali del mondo patagonico. Vi sono gli alti faggi, i corposi cipressi, le magnolie e altre grandi piante ancora; ma è l’agglomerato densissimo e duro del basso bosco, costituito prevalentemente dalla cosiddetta “mata negra”, che oppone serie difficoltà d’accesso. Questo sottobosco è tuttavia straordinario per i suoi innumerevoli cespuglioni di fiori e di bacche il cui colore prevalente è il rosso. Emergenti dai cespugli vi sono poi le felci e le larghe foglie di “Gunnera chilensis”, che spesso adopero come ombrello quando la pioggia diventa scrosciante. Abbondano infine i cespugli di “calafate” ricolmi di turgidi frutti gustosi che scintillano di gocce di pioggia. Tra le erbe alte delle radure, in cui prolifera il muschio e il terreno melmoso cede a ogni passo, non si potrebbe fare a meno degli alti stivali di gomma; e ancora di gomma è la tuta completa che indosso come uno scafandro. Anche qui, come a Capo Horn, gli uccelli si lasciano avvicinare fino a pochi passi; ignorando l’esistenza e il carattere dell’uomo non lo considerano, per istinto acquisito, una minaccia. Una scena mi colpisce particolarmente quando sbucando dal fogliame, che si congiunge sopra la mia testa, arrivo sul bordo della laguna cosparsa in questo tratto di piccoli “tempanos”. A pochi passi da me sta accovacciata una colonia di forse 200 “caiquenes”, una specie di anitra australe, senza volerlo gli sono piombato praticamente addosso ed essi, sorpresi dalla mia intrusione, per una buona metà si tuffano in acqua mentre i rimanenti se la svignano nel folto facendo crepitare il fogliame.

Forse 100 “caiquenes” adesso stanno lì davanti ai miei occhi a pochi metri dalla riva, fermi nell’acqua costellata di blocchi azzurri, con le penne arruffate dal vento e mi sbirciano incuriositi. Uno stormo di frullanti uccelletti scuri, dal dorso color rosso fiamma, arriva nel contempo a posarsi sulle frasche da cui sono appena uscito; lì rimangono, appollaiati, a guardarmi con aria inquisitiva.

i-miei-ricordi Un’altra immagine indimenticabile è quella del giorno in cui mi inerpico su per lo sperone che fa da sponda e convoglia il grande ghiacciaio. È questo l’impatto della franosa morena con la foresta che cerca di lambirla; poche altre volte avevo visto qualcosa di simile. Anche quel giorno il tempo diventa abbastanza clemente per qualche ora, tanto che si illuminano i lontani orizzonti e si sciolgono le nebbie sulle vette ammantate di neve recente. Con fatica ho dunque guadagnato una discreta quota, dove c’è una radura sul crinale boscoso che mi consente di spaziare all’intorno con lo sguardo. Sotto di me la bianca fiumana scricchiolante del “ventisquero” ostenta i suoi gelidi aculei su una larghezza di almeno 3 chilometri prima di arrivare sull’altra sponda selvosa, coperta da una boscaglia ombrosa di duro e contorto faggio australe. Poco più a sud, ma da qui non si scorge ormai più, si apre un ghiacciaio ancora più grande, il San Quintin, sette volte più esteso di questo che ho di fronte. Laggiù in fondo risplende di tenero azzurro la vasta distesa lagunare, al cui orizzonte si delineano appena, come lunghi incurvamenti, le terre inesplorate della penisola di Taitao. Alle mie spalle, contro un cielo plumbeo, fanno cornice le belle punte innevate digradanti in precipizi boschivi che diventano sempre più scuri nel contrasto con il candore del ghiacciaio. Tutto questo è naturalmente un paesaggio straordinario, ma a dare un tocco di magia alla già incantevole natura appaiono sulle spoglie morene, incredibilmente, i resti dei faggeti inghiottiti un tempo dal ghiacciaio e poi restituiti dallo stesso nell’alternarsi delle sue periodiche escursioni. Impastati contro le sponde rocciose del ghiacciaio, levigate dal suo lento fluire, si ergono come remoti simboli tronchi d’albero enormi, che appaiono letteralmente schiacciati e abrasi dalle immani forze della natura. Guardare quelle ossa d’alberi, scarnificate e pallide, è come osservare il passare del tempo, ma ancora più impressionante, quasi macabro, è il rendersi conto che alcune di esse presentano delle sembianze umane. Penso a un’orrida mostra di cadaveri rinsecchiti, di Cristi crocefissi. Anche la natura che mi sta di fronte, la stessa che ha modellato queste forme, ad un tratto appare ai miei occhi fortemente enigmatica. Adesso tutto è diventato un’armonia assoluta di cose, di sogni, di riflessioni. È difficile definire i limiti della bellezza, ma di fronte a tanta forza e mistero delle cose, e nel silenzio totale che avvolge, già sento dentro di me la ricchezza e l’impalpabilità dell’esperienza che sto vivendo, e che pochi luoghi come questo avevano saputo darmi.

Mentre sto tornando a valle, vedo una radura paludosa, tra le alte erbe agitate dal vento, una macchiolina scura in controluce che muove lenta tra i “tempanos” della laguna. È la “Malgarita” che viene a prelevarmi».

Abbiamo scelto questo brano, relativo a una spedizione solitaria nei fiordi della Patagonia cilena, perché il particolare ambiente naturale, così poeticamente sospeso fra i ghiacci di colore alabastro che ricordano il Polo, e la lussureggiante foresta inzuppata di pioggia, che sembra quella di un’isola subtropicale, dà modo a Bonatti di esprimere al meglio le sue qualità di scrittore, ricco di umanità e sensibilità, e lontanissimo dal tecnicismo esasperato di certi specialisti della montagna, che sembra non abbiano occhi per la bellezza dei luoghi e delle stagioni.

In particolare, qui Bonatti è riuscito a trasportarci, e quasi ad immergerci, in una dimensione indeterminata di sapore quasi leopardiano, il Leopardi de L’infinito, che, dalla cima del colle ove una siepe nasconde il paesaggio sottostante, lascia vagare l’immaginazione nei regni sconfinati e suggestivi, a volte quasi paurosi, che nessun occhio umano riuscirà mai a scorgere, perché essi dimorano non in un luogo fisico, ma nelle profondità dell’anima.

Leggendo le pagine di Bonatti, il lettore si sente trascinato dolcemente in una dimensione che è quasi fuori dello spazio e del tempo, all’ombra della foresta stillante d’acqua piovana e ai piedi del gigantesco ghiacciaio che immerge la sua fronte nell’acqua, mentre un fugace raggio di sole, squarciando la densa coltre cinerea delle nuvole basse, strappa a quel gelido gigante inaspettati riflessi di rosa, d’azzurro e di violetto.

Come pensava Julius Kugy, vi è una profonda poesia nell’amore per la natura alpina; e il fatto che, in quest’angolo remoto della Patagonia, essa si fonde con la natura oceanica, con l’inusuale spettacolo dei ghiacciai che spingono le loro fronti direttamente nel mare, non fa che aumentare la strana e indefinibile suggestione di quelle terre estreme, pervase da una profonda malinconia, e tuttavia circonfuse di uno splendore che nessun pittore è mai stato in grado di rendere efficacemente.

La prosa di Bonatti è relativamente semplice, senza orpelli; e tuttavia intensa, vigorosa, e al tempo stesso sobriamente poetica: è la prosa di un uomo d’azione che è abituato a valutare realisticamente cose e situazioni ed a misurarsi con le difficoltà della natura; ma che, di quest’ultima, sa anche recepire l’incanto e apprezzare gli spettacoli grandiosi e commoventi che essa offre a colui che è in grado di gustarli.

Per chi non ha mai viaggiato in paesi esotici, e preferisce sognarli dalla poltrona di casa; ma anche per chi lo ha fatto, e tuttavia ha imparato che il mistero più affascinante è proprio quello che si cela in fondo all’animo umano, un libro come Avventura di Walter Bonatti costituisce una lettura molto gradevole e coinvolgente.

Ci sentiamo di consigliarla a chiunque, senza riserve: a chiunque abbia un minimo di curiosità umana e di sensibilità per l’incomparabile splendore della natura.

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Edoardoo Ferrario
    | Rispondi

    Mi piacerebbe partecipare ad una serata di proiezione di diapositive o conferenza di Walter Bonatti. Potete farmi sapere se ne ha in programma qualcuna possibilmente nei dintorni di milano o in lombardia ?

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