Virgilio e le Georgiche, capolavoro ispirato alle api

Virgilio illustra a Mecenate l'apicoltura. Da Verg., Opera, Lugduni 1529 (in Typographaria Officina Ioannis Crespini); da Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica "F. Datini".
Virgilio illustra a Mecenate l’apicoltura. Da Verg., Opera, Lugduni 1529 (in Typographaria Officina Ioannis Crespini); da Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”.

Ha circa trenta anni, Publio Virgilio Marone, quando si accinge, verso il 37 a. C., alla composizione delle Georgiche, essendo nato ad Andes presso Mantova nel 70. Figlio di contadini (la notizia è di Macrobio Teodosio), non è affatto il cantore dei destini fatali di Roma, non pensa ancora all’Eneide né al mondo della storia, anzi ne rifugge, convinto com’è (in quanto seguace della scuola epicurea) che storia e politica sono i luoghi sventurati dell’umana ambizione, della violenza cieca e insensata.

E la sua vicenda personale e familiare ha confermato tale concezione pessimistica, in modo tanto più duro quanto più mite e sensibile è il suo animo di poeta: tre anni prima, nel 40 a.C., una nuova distribuzione di terre, nella Gallia Cisalpina, ai veterani di Ottaviano, ha espropriato da un giorno all’altro il suo podere avito. Si dice, ma forse è solo una leggenda, che dopo aver perso ogni cosa, a stento ha salvato la vita, gettandosi a nuoto nel Mincio, per sfuggire alla furia di un soldato presentatosi per scacciarlo a mano armata dalla sua casa e dai suoi campi. Se n’è perciò tornato a Napoli, dove aveva studiato alla scuola del filosofo Sirone, ed è poi entrato nella cerchia esclusiva di Mecenate e dello stesso Ottaviano Augusto, che lo hanno “risarcito” con una villa a Roma, sull’Esquilino, e con un’altra a Napoli, ch’egli predilige poiché non ama il chiasso della capitale.

Animo semplice, contemplativo, solitario, ripensa colmo di nostalgia alla sua campagna mantovana, ove il Mincio scorre pigro in mezzo al verde delle tenere canne, ove ha lasciato i ricordi più cari dell’infanzia e della prima giovinezza: ma non vi ritornerà mai più.

Al suo attivo, oltre un certo numero di composizioni minori (che saranno raccolte poi nell’Appendix Vergiliana: ma è una dura fatica filologica sceverare i carmi autentici da quelli spuri), un autentico gioiello di poesia pastorale, sul modello del greco Teocrito: le dieci ecloghe delle Bucoliche (da boukoloi, i pastori di buoi), composte in circa tre anni, fra il 42 e il 39, ancora palpitanti per il drammatico addio alla terra natale.

Le Georgiche sono, per usare l’espressione del grande latinista Concetto Marchesi, “il capolavoro della letteratura latina per la solida unità di concezione e di espressione e per l’indissolubile bellezza di suono, di parola e d’immagini.” Concetto ribadito dal filologo classico Paolo Frassinetti che afferma: “dove Virgilio ha nettamente superato ogni modello, creando anzi un unicum di perfezione nella letteratura latina tutta, è nel linguaggio modernamente lirico. In quella perfetta similazione (e cioè fusione di immagine suono e significato) che traduce ed evidenzia miracolosamente nel verso il mondo lirico dell’autore”.

Nel volo di un airone teso oltre le nuvole; nel folle galoppo delle cavalle fecondate dal vento; nel lamento disperato dell’usignolo cui sono stati rapiti i nidiacei; nella descrizione di una nevicata sulle lontane pianure della Scizia: sempre la musicalità impareggiabile del verso traduce suoni, immagini, azioni, paesaggi in una dimensione atemporale che è, al tempo stesso, realistica e affettuosamente partecipativa. Sì, perché Virgilio come nessun altro, prima e dopo di lui, ha “sentito” con profonda empatia le vicende degli animali e perfino delle piante: come quell’albero che, dopo l’innesto, pare meravigliato esso stesso dei rami fioriti che spuntano dal suo tronco.

Dal punto di vista strutturale, le Georgiche appartengono (secondo il grande modello del De rerum natura di Lucrezio) al genere didascalico: vogliono, cioè, trasmettere degli insegnamenti; ma la perfetta padronanza della tecnica neoterica e, soprattutto, l’autenticità e la freschezza sublime del pathos virgiliano permettono di evitare i rischi di una precettistica arida e, magari, un tantino petulante.

No: tutto è vita, tutto è movimento, tutto è immedesimazione affettiva nei quattro libri delle Georgiche: il primo dedicato propriamente all’agricoltura; il secondo alla viticoltura e, in genere, agli alberi da frutto; il terzo all’allevamento del bestiame e il quarto all’apicoltura. E se pagine squisite vi sono nei primi tre, specialmente dove Virgilio descrive, umanizzandolo, il mondo dei miti animali della campagna ed esalta la santità del lavoro (labor omnia vincit), visto non come lotta contro la Natura ma, anzi, come forma di devozione agli dei agrestes, è nel quarto libro che la poesia di Virgilio tocca le vette più alte. Anche qui la materia è didascalica: quale è il luogo adatto all’allevamento delle api; come si costruiscono gli alveari; come si trattano i fuchi; perché è opportuno collocare l’alveare in un giardino ricco d’ombra; come riconoscere e curare le malattie degli sciami. Poi descrive l’istinto sociale degli insetti, il loro coraggio in guerra, la loro obbedienza al re (regina).

“Se uno scienziato – ha scritto Teresa Cupaiuolo – cercasse nel libro di Virgilio un preciso studio sulle api e sulla loro vita rimarrebbe disorientato e turbato, subito, sin dai primi versi: il miele piove dal cielo e la cera è nel cuore dei fiori; sono dei re, quelle che invece sono delle regine, le madri delle api; affilano i rostri le api battagliere, quando attendono, invece, alle più elementari cure della loro toletta personale. E c’ è stato, invero, chi ha studiato e quasi cercato… gli errori di Virgilio , in un libro che è la negazione di quella poesia, di cui vuole essere quasi la spiegazione e il commento” (introduzione al Liber Quartus del Georgicon, Milano, 1951; il riferimento polemico è a Thomas Fletcher Royds, The beasts, birds and becs of Virgil, Oxford, 1930).

No, non scrive con animo di scienziato, Virgilio, il suo libro ( e del resto, quella era la scienza del tempo suo, e non altra); bensì con animo religioso e commosso, e vede ovunque presente, sulla scorta delle dottrine orfico-pitagoriche che saranno, poi, evidentissime nel libro VI dell’Eneide (quello della discesa nell’Averno), nell’umile fiore di campo come nel piccolo, laborioso insetto, una vera e propria Anima universale o Anima mundi. Un’anima è dappertutto, nelle cose e negli esseri, perché Dio è dappertutto, “per le terre, pei mari, e pel cielo profondo: His quidam signis atque haec exempla secuti esse apibus partem divinae mentis et haustus aetherius dixere… (Georg., IV, 219-221).

Anche le api, dunque, sono parte della mente divina: e non è soltanto trasporto affettivo quello che spinge Virgilio a chiamarle “piccoli Quiriti”, quasi minuscoli uomini che lottano e soffrono e lavorano eroicamente, ma profonda consapevolezza che esse incarnano, nella santa natura, un mistero non del tutto svelato, e che proprio per questo lo attira e lo commuove. Il mistero della loro concordia, il mistero della loro intelligenza, il mistero del loro coraggio spinto fino all’eroismo e al sacrificio di sé.

Il quarto libro delle Georgiche, che si chiude con la grandiosa favola di Aristeo (il figlio della ninfa Cirene, che si rivolge al dio Proteo per sapere perché muoiono le sue api: episodio che permette a Virgilio di cantare con arte insuperata il dramma di Orfeo ed Euridice) ci presenta pure, nel vecchio di Corico, una figura indimenticabile di saggezza e di serenità campestre, che riassume tutto il valore morale del ritorno alla campagna dopo il dramma delle guerre civili. “Il vecchio Coricio sembra quasi l’immortale custode di quella felicità, la più pura e la più facile – scrive ancora la Cupaiuolo – che ci viene dalla tacita mollezza di un giorno di primavera, dalla bellezza delicata e fragile di una rosa purpurea…. Non è solo un giardino quello che ci si apre dinanzi nella pompa armoniosa dei suoi toni e dei suoi colori, ma è quel giardino che il vecchio operoso si è visto crescere intorno, a poco a poco, per l’opera dura e infaticata delle sue mani callose: ogni albero, ogni cespo, ogni fiore è una vittoria, e dalla vittoria piove sul vecchio una felicità nuova che lo rende orgoglioso e pago”.

Proprio così: ritorno alla terra, gioia semplice e pura del contatto con la natura, condivisione della fatica e della soddisfazione con i miti amici e compagni del lavoro umano: gli animali; e, prime fra tutti, le mellifere piccole api.

* * *

Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, da Apitalia. Apicoltura, agricoltura, ambiente, n.548, settembre 2005; poi nel sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Nuccio D'Anna
    | Rispondi

    Mi permetta di rilevare che molti aspetti della vita e della personalità di Virgilio di tipo "bucolico-pastorale" che l'Autore cerca di evidenziare sulla scia di molti biografi, sono sempolicemente NON veri. La recente storiografia italiana e straniera ha mostrato l'importanza simbolica di quello che il dott. Lamendola riporta come semplice "amore dei campi e dei pastori". Anzi, spesso si tratta di allusioni a forme di iniziazione e ad un tipo particolare di confraternita che si celava dietro quel simbolismo. Se l'autore vuole conoscere questa realtà rituale e religiosa di Virgilio mi permetto di segnalare in italiano il libro di Nuccio D'Anna, Mistero e Profezia. La IV egloga di Virgilio e il rinnovamento del mondo, Lionerllo Giordano, Cosenza 2007.

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