Unità e molteplicità del divino nel Rg-Veda

Ancora ai nostri giorni si mostra assai radicata l’idea (meglio sarebbe dire: il pregiudizio) che le prime forme di religione abbiano saputo esprimere solo un rozzo e ingenuo politeismo antropomorfico, dal quale furono esenti solo gli Ebrei, l’unico popolo monoteista fin dalle sue origini, secondo un abusato luogo comune. Ora, simili affermazioni provocano a dir poco il sorriso, per la loro ridicola assurdità.

Già da tempo studiosi non legati a superstizioni storiciste e a una pedissequa adesione alla particolare forma religiosa oggi predominante in occidente, hanno mostrato come alle origini di ogni vera tradizione vi sia stata chiara l’idea, anzi la “percezione”, dell’Unità del Divino. Volendo citare alcuni di questi studiosi basterebbe ricordare tra gli iniziatori di questo punto di vista, sia pure con tutti i loro limiti, Andrew Lang e padre Wilhelm Schmidt e – più vicini a noi oltre che più conosciuti – René Guénon, Frithjof Schuon, Julius Evola e Ananda Coomaraswamy.

Questa unità del Divino fu dapprima definita dagli storici delle religioni in modo imperfetto, sotto la forma cioè di un Dio personale unico; poi ci si orientò più rigorosamente verso l’Unità intesa come entità e forza impersonale, principio di tutto. Il modo migliore per verificare l’esattezza di tale interpretazione sta nell’esaminare l’espressione della spiritualità primordiale di un popolo. A nostro parere, il Rg-Veda, la più antica raccolta di inni sacri degli Indiani, racchiude in nuce tutta la metafisica e la religione di quel popolo. Un interesse ancora maggiore deriva dal fatto che esso è il primo testo sacro ario, e quindi presenta un legame con la spiritualità di tutte le stirpi indoeuropee.

Una lontana polemica aveva opposto uno storico delle religioni, il Müller, ad uno studioso di sanscrito, il Bergoigne, sulla “primordialità” del Rg-Veda: il Müller lo riteneva l’espressione della prima ingenua fase della religione dell’India arianizzata, il Bergoigne in base ad un esame più attento degli inni, dimostrò, che si trattava invece di un testo molto elaborato, opera di una casta di sacerdoti assai colti e raffinatissimi. In realtà l’analisi del Bergoigne aveva dimostrato solo il livello estremamente sofisticato del testo, cioè della forma, il che di per sé non può far negare l’antichità, o “primordialità” del contenuto, cioè della dottrina metafisico-religiosa.

Un errore da eliminare subito è la pretesa di dover riscontrare, a qualunque costo, “ingenuità”, “incoerenza”, “contraddizioni”, “semplicismo”, “naturalismo”, alle origini del pensiero metafisico-religioso di un popolo. Secondo questo pregiudizio, nel caso in cui si trovi una dottrina organica e coerente, essa non può essere “primordiale”, “originaria”, poiché questo contraddirebbe i principi storicistici ed evoluzionisti, secondo i quali il “più” deriva sempre dal “meno” e il pensiero religioso deve essere solo frutto della fantasia o della intelligenza umana.

Si può dimostrare piuttosto che le divinità presenti nel Rg-Veda sono assai antiche, di molto precedenti l’invasione indoeuropea dell’India, avvenuta intorno al 1200 a.C. Quindi gli inni scritti derivano dall’elaborazione raffinata di componimenti poetici tramandati oralmente per secoli (la tradizione orale precede sempre quella scritta) tra le popolazioni che poi avrebbero invaso quel paese. Ciò viene provato da un trattato di alleanza, del 1376 a.C., scritto su tavolette cuneiformi, trovate a Boghaz-Koi (Cappadocia), stipulato fra i re Subliluliuma e Mattiuaza, signori di due popoli indoeuropei, Ittiti e Mitanni. Questi ultimi giuravano sulle divinità “Mitrashil”, “Arunashshil”, “Indara”, equivalenti a Mitra, Varuna e Indra presenti nel Rg-Veda. L’importanza e il rango di questi déi dimostra che essi dovevano da tempo rappresentare il centro del culto di quelle popolazioni. Una prova indiretta della loro antichità deriva poi dagli studi di G. Dumézil sulla tripartizione del mondo soprannaturale tra gli indoeuropei. Tale struttura, di triadi divine, la si ritrova infatti tra i Germani, i Romani, gli Irani, gli Indiani ecc., cioè in tutti i popoli ari.

Il Dumézil ha notato, cioè, che il sacro in questi popoli si esprimeva per mezzo di tre funzioni fondamentali: quella regale-sacerdotale, quella guerriera, quella produttiva (fecondità e ricchezza), simbolizzate da terne di divinità (tra i Romani: Juppiter, Mars, Quirinus; tra i Germani : Odino, Thor, Freyr; tra gli indiani : Mitra-Varuna, Indra, Nasatya). Quindi la visione generale del Sacro nelle forme da noi conosciute, doveva già essere presente prima che iniziasse la dispersione degli indoeuropei dalle loro sedi originarie, nell’Europa centro-settentrionale, tra la Vistola e il Weser, i Sudeti e il Mare del Nord. Tale limite ci riporta ad un periodo anteriore al 2500 a.C., data di inizio delle migrazioni ariane.

Ritornando al Rg-Veda (da Veda: sapere – Rg: versi di lode), esso consta di 1028 inni agli déi, raggruppati in dieci cicli. Si pensa sia stato scritto verso l’800 a.C., fissando cosi una tradizione orale che veniva da lontano. Dire che “si rispecchia nel Rg-Veda… la religione delle classi elevate, dei preti e dei principi”(1) in opposizione alle credenze delle classi subalterne, che venivano escluse, si presta ad un grossolano equivoco, poiché induce a pensare che la religione vedica sia un prodotto “intellettualizzato” degli strati sociali ricchi e colti di un popolo: ciò è falso e deriva dall’ignorare l’esistenza di profonde differenze etniche.

Nella India antica, infatti, le classi, anzi le caste, cosiddette “superiori” non erano formate da elementi provenienti dal popolo minuto, in seguito a un processo di mobilità sociale. Erano, invece, costituite dagli arii, i conquistatori, di stirpe diversa da quella che formava la casta degli shudra, dedita ai lavori manuali, in cui troviamo per lo più le popolazioni autoctone, dravidiche e proto-australoidi, assoggettate dopo la conquista, ma di cui fu rispettata la cultura e l’identità nella grande società multietnica indù. Di queste ultime sappiamo che erano spesso dedite a culti ctonii, appartenenti al ciclo della fecondità, diversi dai culti solari degli indoeuropei.

La fondamentale importanza dei Veda (oltre al Rg-Veda, vi sono, anche se meno importanti, il Sama-Veda, lo Yajur-Veda, l’Atharva-Veda) deriva dal fatto che essi, secondo la tradizione indù, furono emanati dalla divinità insieme alla creazione dell’universo: “Da questo sacrificio completamente offerto nacquero le rc e i sáman, da questo nacquero i chándas, da questo il yájus” (X, 90, 9). Si afferma poi che la philosophia perennis espressa nel Rg-Veda fin dalle origini del mondo fu “vista” dai sapienti (rsi) per mezzo delle loro capacità soprannaturali, e quindi trasmessa ai fedeli.

Si potrebbe pensare ad un Rg-Veda celeste e a un Rg-Veda terreno, in analogia al Corano celeste e al Corano terreno di cui parla la tradizione islamica. Il Rg-Veda, quindi, è shruti, cioè, Rivelazione divina, Verità eterna ed indiscutibile. Dai vari inni di lode agli déi si ricava una immagine sufficientemente precisa della struttura del soprannaturale.

Chi ha voluto vedere nelle Upanishad e nella Bhagavad-Gita una “evoluzione” della primitiva dottrina vedica nel senso di una “aggiunta” di idee più profonde, “moderne”, complesse, non ha compreso che tutto ciò che è in accordo con la Tradizione deriva solo dallo sviluppo o dal chiarimento di idee già contenute nei Veda, e nel Rg-Veda in particolare, nel quale esiste in nuce tutta la successiva metafisica indù. Gli stessi déi non devono essere considerati per il loro nome, che col passare del tempo può scomparire o essere relegato a ruoli diversi dai precedenti, ma devono essere valutati come aspetti e funzioni del soprannaturale, rispetto ai quali si riscontra una effettiva continuità, in quanto si ritrovano nelle successive fasi dell’induismo (Mitra -> Brahman superiore, Varuna -> Brahman inferiore, Indra -> Vishnu, Rudra -> Shiva, Vayu -> Atman).

Con questo abbiamo un modulo interpretativo che vale non solo nel caso in esame, ma anche per tutte le altre forme tradizionali di religione. Le principali divinità che appaiono nel Rg-Veda sono Mitra, Varuna, Indra, Agni, Aditi, Rudra, accanto alle quali troviamo molte altre deità, oltre che demoni e geni.

Poiché non è nostro intento procedere in una analisi delle varie figure divine, ma piuttosto ci interessa sottolineare i punti in cui viene affermata la loro fondamentale unità, al di là e oltre le differenziazioni, tralasciamo l’esame delle singole figure, alcune delle quali meriterebbero uno studio a sé. Innanzitutto bisogna smentire l’affermazione che “nella mitologia vedica non esiste una gerarchia divina” (Papesso). L’apparente assolutizzazione di ciascuna divinità negli inni a lei riservati viene ridimensionata se si pensa che ciascun essere soprannaturale ha un suo ruolo, per cui, in base a tale ruolo, più o meno importante, si forma una gerarchia tra gli déi. Per coloro i quali rivestono funzioni interscambievoli è necessario analizzare i motivi, mai casuali, di questa che potrebbe apparire, ad un’analisi superficiale, come una “confusione” partorita da menti ancora “infantili”, poco avvezze alle sistematizzazioni rigorose. Ma quest’ultimo punto è bene affrontarlo insieme all’argomento principale del nostro scritto.

Analizziamo quindi i brani più significativi del Rg-Veda. L’Inno cosmogonico (X libro) ci presenta le fasi della creazione, o meglio della manifestazione. Nessuna composizione del Rg-Veda risulta più esplicita di questa:

“Allora non c’era il non-essere, non c’era
l’essere; non c’era l’atmosfera, né il cielo, (che è)
al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? sotto la
protezione di chi? che cosa era l’acqua (del mare)
inscandagliabile, profonda?
Allora non c’era la morte, né l’immortalità;
non c’era il contrassegno della notte e del giorno.
Senza (produrre) vento respirava per propria forza
quell’Uno [tad ékam: genere neutro]; oltre di lui non
c’era niente altro.
Tenebra ricoperta da tenebra era in principio:
tutto questo (universo) era un ondeggiamento
indistinto. Quel principio vitale che era
serrato dal vuoto, generò se stesso (come l’Uno)
mediante la potenza del proprio calore.
Il desiderio nel principio sopravvenne
a lui, il che fu il primo seme (manifestazione)
della mente. I saggi trovarono la connessione
dell’essere nel non-essere cercando con riflessione
nel loro cuore (2).
Trasversale fu tesa la loro corda: vi fu un
sopra, vi fu un sotto? vi erano fecondatori, vi
erano potenze: sotto lo stimolo, sopra l’appagamento.
Chi veramente sa, chi può qui spiegare donde
è originata, donde questa creazione? Gli déi sono
al di qua (posteriori) della creazione di questo
(mondo); perciò chi sa donde essa è avvenuta?
donde è avvenuta questa creazione, se l’ha
prodotta o se no, colui, che di questo (mondo) è il
sorvegliatore [il divino in forma personale, n.d.r.] nel cielo supremo.
egli certo lo sa se pur non lo sa”.

Abbiamo voluto trascrivere l’intero inno poiché nulla viene lasciato al marginale, al poetico, ma ogni parte ha un preciso valore dottrinario. Prima di procedere ad una analisi dei brani, è bene precisare che non siamo di fronte all’unico canto in cui vengono enunciati principi decisamente non politeisti. Infatti nel Rg-Veda, mentre troviamo una continua enumerazione di déi, vediamo sempre riaffermata la loro natura comune, riconducibile ad un unico Principio.

Ad esempio, nel III ciclo – 55 – si legge : “La grande divinità degli déi è unica”, o nel X, 40, 3: “Colui che è il padre di tutti noi… Egli è l’Unico, e tuttavia assume il nome di molti déi”; o ancora: “Ciò che è Uno i cantori nominano in vari modi, (lo) chiamano Agni. Yama, Matarisvan” ( I, 164, 46) e (I, 89, 10), parlando di Aditi, simbolo dell’Infinito : “Aditi è il cielo, Aditi è l’atmosfera, Aditi è la madre, il padre, il figlio. Aditi è tutti gli déi. Aditi è ciò che è nato e ciò che ha da nascere”, l’Eterno, cioè, con altre parole, “L’Uno in figura del Non-Nato” (I,164, 6).

Nell’Inno Cosmogonico, poc’anzi trascritto, troviamo subito affermata l’unicità della Causa Prima di tutto il manifestato e il non manifestato (ossia ciò che è potenziale, virtuale). L’Uno precede metafisicamente ogni polarità e separazione, e proprio per questa assoluta mancanza di dualità viene definito col genere neutro (ékam), piuttosto che col maschile. Parlando degli attributi del Principio metafisico, sarebbe forse più opportuno esprimersi in termini di “non-dualità”, piuttosto che di “Unità”, secondo quanto osservato da René Guénon, seguendo gli insegnamenti della scuola Advaita. Infatti tenendo presente che ci riferiamo a ciò che illimitato, ogni definizione gli si pone in contrasto, poiché ogni definizione è anche una limitazione, quindi una negazione dell’infinito. Usando invece una negazione di una definizione (“non-Dualità”), abbiamo due negazioni : “non” e “Dualità”, quest’ultima in quanto definizione, come detto sopra. Quindi si ottiene una negazione di una negazione, cioè un’affermazione. Questo potrà apparire una sottigliezza inutile, ma la precisione del linguaggio è di essenziale importanza per la comprensione effettiva di tale ordine di cose.

L’Uno quindi contiene in sé tutto poiché “oltre di lui non c’era nient’altro”. Lo Spirito “è tutto questo [universo], ciò che fu e ciò che sarà… un quarto di lui sono tutti gli esseri, tre quarti di lui è l’immortale” (X, 90, 2). Frasi come queste hanno spinto alcuni commentatori a parlare di panteismo. Nulla di più falso. Qui non vi è immedesimazione totale, reciproca ed esclusiva di Dio nel mondo. Piuttosto, poiché è riconosciuto da tutti, compresi i suddetti commentatori, l’alto livello metafisico della dottrina indù, si dovrebbe ricordare che si cade in errore parlando di panteismo in quanto, trattandosi di una forma di naturalismo, risulta incompatibile con una metafisica degna di questo nome.

Come inizia il processo che porta alla manifestazione? L’Inno Cosmogonico insegna che prima si ebbe il non-essere, che non è il nulla ma l’insieme delle virtualità, il non-determinato, e da questo nacque l’essere, come si legge anche in X, 72, 2. Apparve quindi la polarità per separazione (la corda): sopra e sotto, fecondatori e potenze, stimolo e appagamento. Sono i due archetipi opposti, ma anche complementari, il maschile e il femminile, la cui unione dà come frutto la manifestazione del cosmo. In analogia potremmo ricordare i due principi della successiva speculazione del sistema Samkhya, purusha e prakrti, o della metafisica cinese, yin e yang.

Gli déi, poi, vengono espressamente indicati come “posteriori” alla creazione: ciò va notato. Le divinità vediche, infatti, non esistono da sempre, ma sono nate, mentre eterno è solamente l’Uno, principio di tutto. Gli déi quindi sono espressioni, manifestazioni di aspetti diversi dello Spirito. Hanno un loro profondo significato, ben diverso da un preteso “politeismo”. Nelle Enneadi (II, 9, 9) Plotino, fermo assertore dell’unità del Principio, scriveva: “Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa stessa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità [l’Uno], capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di déi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa”. È questa conoscenza della molteplicità degli aspetti del soprannaturale che spinse quindi a raffigurarli in vari modi, sotto le sembianze antropomorfiche di déi e dee. Una conoscenza che – bisogna notarlo – non si ritrova nel cristianesimo, a causa del suo insofferente monoteismo teista che, rovesciando un luogo comune, lungi dall’essere un aspetto positivo, costituisce un notevole limite.

Talvolta nel Rg-Veda la nascita di alcuni déi o le loro funzioni vengono raffigurate in modo contraddittorio, tale da far pensare, come abbiamo già accennato, alla solita ingenuità ed incoerenza delle menti primitive. Naturalmente per chi aderisce ad una visione tradizionale, il problema non si pone nemmeno, ben sapendo che ogni Tradizione promana, nella sua essenza, direttamente dal soprannaturale e quindi ha i caratteri della perfezione. Al massimo si può pensare, in certi casi, ad errori dovuti alla limitatezza umana nel saper esprimere ciò che per sua natura risulta inesprimibile. Non è però questo il caso. La presunta confusione a cui ci riferiamo ha un suo preciso significato. Ci riallacciamo così all’argomento lasciato in sospeso precedentemente. Volendo portare qualche esempio: negli inni V, 3, 1-2 e II, 1, 7-11 Agni (il fuoco sacro) viene identificato con diverse divinità, di volta in volta ai vari déi vengono attribuite le stesse azioni, quali la creazione del sole o della terra, le divinità vengono chiamate indifferentemente devas o asuras, ma quest’ultimo termine va poi ad identificare i soli demoni, da Purusha viene fatto nascere Viraj (il principio creatore femminile) e da questo ultimo Purusha (X, 9. 5), ecc. Come spiegare queste incongruenze? Sui devas e gli asuras ha scritto Mircea Eliade: “…sebbene come realtà immediata e nel modo in cui il mondo appare ai nostri occhi i devas e gli asuras non siano conciliabili, diversi per natura e destinati a combattersi, nei primi tempi, d’altra parte, cioè prima della creazione o prima che il mondo assumesse la sua forma attuale, essi erano consustanziali. Inoltre gli déi sono o sono stati o sono capaci di divenire asuras, cioè non-déi. Abbiamo qui da un lato una audace formula dell’ambivalenza divina, un’ambivalenza espressa ugualmente dagli aspetti contraddittori dei grandi déi vedici, come Agni e Varuna. Ma avvertiamo anche il tentativo del pensiero indiano di giungere ad un unico Urgrund [fondamento originario] del mondo, della vita e dello spirito” (3).

Quindi solo partendo dalla coincidenza degli opposti, coincidenza che si realizza ad un livello superiore rispetto a quello della “opposizione”, si può risolvere il problema. Ad esempio, Indra e la Serpe, suo nemico per eccellenza, sono figli di Tvastar, cioè derivano da un identico principio, preminente e superiore rispetto ad essi. La cosiddetta “confusione”, talora rilevata dai critici moderni, è, quindi, voluta. Costituisce un mezzo efficace per indicare, ancora una volta, che unica è la natura degli déi, che essi non sono realtà separate, ma manifestazioni di uno stesso Ente, che poco conta il loro nome poiché l’elemento essenziale risiede nella funzione.

Pensiamo che questa profonda intuizione, espressa anche in forme simboliche non sempre immediatamente comprensibili e spesso paradossali, sia uno degli elementi più interessanti del pensiero tradizionale. Volgersi ad essa, studiarla, comprenderla, non è solo opera di chiarificazione dottrinale, ma è anche, e soprattutto, una conoscenza del mondo soprannaturale, che si riflette nella nostra interiorità e che può illuminarne alcuni aspetti oscuri. Non bisogna, infatti, dimenticare che, secondo tutte le tradizioni, esiste un fondamentale principio analogico che unisce microcosmo, cioè l’uomo, e macrocosmo, e quindi pone un profondo nesso tra quanto avviene sul piano spirituale in noi e quanto si manifesta allo stesso livello dietro le quinte del grande scenario del mondo.

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Note

1 – Inni del Rg-Veda, a cura di V. Papesso, ed. Zanichelli, Bologna, 1929, p. 30 (nuova edizione: Ubaldini, Roma 1979).

2 – Il cuore nella tradizione indù non è il centro simbolico dei sentimenti, ma è il luogo ove risiede il Sé (Atman) nell’essere individuale. Il “Sé, che è dentro il mio cuore, è più grande del cielo, più grande di tutti i mondi” (Chandogya Upanishad).

3 – M. Eliade, La nostalgia delle origini, ed. Morcelliana, Brescia, 1972, p. 184.

Bibliografia essenziale:

– Jeanine Miller, I Veda, armonia, meditazione e realizzazione, Ubaldini, Roma 1976.
– Anonimo, Glossario sanscrito, Asram Vidya, Roma 1988.
– Georges Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Il Cerchio, Rimini 1988.
– René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi, Milano 1989.
– Alain Danielou, Storia dell’India, Ubaldini, Roma 1993.
– Ananda Kentish Coomaraswamy, Une nouvelle approche des Védas, Archè, Milano 1994.
– Alain Danielou, Miti e déi dell’India, red, Como 1996.
– Alain Danielou, I quattro sensi della vita, Neri Pozza, Vicenza 1998.

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Originariamente pubblicato su “Vie dalla Tradizione”, n. 10, 1980.

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  1. Paganitas
    | Rispondi

    Articolo fondamentale che merita di essere, a mio parere, discusso nel forum. Questa importante analisi dell'inno cosmogonico Induista pone due fondamentali punti fermi:

    1)la fine delle calunnie monoteiste sul fatto che il paganesimo e il modo di sentire IndoArio neghi l'unità del divino. Nessun modo di sentire nato nell'orbita IndoAria lo ha mai fatto. Aggiungerei che nessuna spiritualità al mondo ha mai negato il Logos perchè è insita nell'uomo la percezione dell'unità, è una nozione intuitiva. Ed è qui il punto FONDAMENTALE, cioè sono in realtà gli accusatori monoteisti a negare un aspetto fondamentale del creato cioè la sua MOLTEPLICITA' e DIFFERENZA. Insomma con il solito atteggiamento aggressivo-passivo, vogliono far passare i pagani come negatori dell'unità per poi negare loro la molteplicità. Rendendosi presunte vittime creano i presupposti morali per perpetrare meglio i loro crimini. Dalla negazione della molteplicità nasce poi l'egalitarismo.

    2)la sostanziale, concreta ed evidente differenza fra l'Induismo, religione Darmica, e le religione abraminiche. Nonostante i numerosi tentativi di definire l'Induismo una religione monoteista nulla è più lontano dalla realtà. L'Induismo non nega il concetto di Uno-Ordinatore, d'altronde nemmeno negato da qualsiasi religione IndoAria, ricordiamo per esempio il Demiurgo platonico. Nega l'identificazione del divino con un solo dio, nega lo tzim tzum, la creazione dal nulla. Quindi i fondamenti della cosmogonia abraminica. Il concetto espresso nei Rg Veda non è quello di un nulla riempito da un creatore, ma del caos ordinato da un Dio-Sole ispiratore di Ordine e Vita. Se si legge per esempio la cosmogonia di Ovidio la descrizione della nascita dell'universo dal caos primordiale è molto simile a quella dei Rg Veda. Viene posto l'accento sulla FONDAMENTALE diversità del caos, concetto IndoArio, rispetto al nulla, concetto abraminico.

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