Ufo Robot: quel che resta degli Anni ’80

Ci sono cose che possono essere raccontate solo da un ragazzo degli anni ’80. Una di queste è senz’altro l’universo dei cartoni animati giapponesi, vero e proprio fenomeno di culto per la generazione cresciuta in quel decennio. Alessandro Montosi, non a caso classe 1982, è appunto uno di quei ragazzi che, colpiti anni fa da un alabarda spaziale, non si sono più ripresi. Nel sul volume appena uscito in libreria (Ufo Robot Goldrake. Storia di un eroe degli anni ’80, Coniglio Editore, Roma 2007, 212 p., €14,50), Montosi ripercorre con meticolosa precisione le tappe del capostipite dell’invasione delle “anime” – così i giapponesi chiamano i cartoon – in Italia, invasione di cui peraltro si avvicina un trentennale che si appresta ad essere festeggiato con numerose riedizioni dei classici del genere. Intanto viene distribuito nel circuito italiano il dvd con la serie completa degli episodi di Atlas Ufo Robot.

Ma, si chiedono i giovanissimi, chi erano quelle creature mai viste prima venute a turbare le italiche nuove generazioni? Lo sbarco dei tecnomostri nipponici era avvenuto il 4 aprile 1978 quando, su Rai due, era andata in onda la prima puntata di Goldrake. E il nome di Goldrake, con cui poi è passata all’immaginario, era, in realtà, il frutto di un pasticcio tutto italiano: si trattava addirittura dell’inglesizzazione di Goldoràk, nome curiosamente inventato dai… francesi, da cui la Rai aveva comprato la serie, mentre il nome originale del cartone era niente di meno che Ufo Robot Grendizer. Vicissitudini che spiegano bene la superficialità con cui il Belpaese ancora provincialotto si affacciava su una cultura tanto esotica ed ignota. Forse è anche per questo che l’impatto del cartone fu tanto fragoroso. Grazie a Goldrake, infatti, l’Italia scopriva finalmente il mondo eroico del Sol Levante.

ufo-robot-250x300Quei cartoni animati nascevano in Giappone negli anni ’60, anche se il termine originale di “manga” (man = casuale, ga = immagine), risale addirittura al 1814, anno in cui fu coniato dall’artista giapponese Hokusai per passare poi ad indicare il fumetto. Contrariamente a quanto accade o accadeva fino a poco fa da noi, tuttavia, nel paese del Sol Levante il fumetto non rappresenta un sottogenere infantile e privo di dignità artistica. Il manga, (insieme all’anime, la sua trasposizione televisiva o cinematografica) al contrario, dà luogo ad una vera e propria cultura. Forse l’unica cultura eroica possibile per un paese “rieducato” ad un pacifismo ipocrita dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Come ha scritto Alessandro Del Gaudio, si tratta di un fenomeno che «rappresenta le aspettative e le aspirazioni di tutta una nazione».

In effetti, come hanno sottolineato Luciano Lanna e Filippo Rossi in Fascisti Immaginari (Vallecchi 2003), in quei cartoni c’era tutta la tradizione del Giappone eterno: «l’armatura dei robot era quella dei Samurai; il casco multicolore degli eroi era il kabuto con lo stemma del clan di appartenenza; l’uso delle armi era sempre accompagnato dal grido rituale che serviva a liberare il Ki, la potenza». Ma, a ben vedere, suggestioni Zen ed etica bushido appaiono negli anime giapponesi anche dove meno ce li aspettiamo: figure certo meno marziali come Sampei il pescatore, i calciatori in erba Holly e Benji o Mimì Ayuara la pallavolista, richiamano pur sempre un contesto culturale caratterizzato dalla ricerca del “colpo segreto”, dalla debolezza come peccato, dall’illuminazione seguita allo sforzo indefesso, dall’etica del sacrificio, dalla ricerca della perfezione, dall’eroe che ferma da solo forze preponderanti, dall’ammirazione della potenza del nemico che ci sprona all’autosuperamento. Tale matrice tradizionale finiva certo per essere recepita solo inconsciamente dalla gran parte del pubblico, ma non poteva ovviamente sfuggire all’olfatto da segugio dei cacciatori cattocomunisti di eresie culturali. Silverio Corvisieri denunciava ad esempio su Repubblica «l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso”». Nello stesso periodo, più di 600 genitori “democratici” si riunivano ad Imola per denunciare l’intollerabile «uso della scienza e della tecnica, della stessa fantascienza legata alla guerra» così come veniva mostrato negli anime nipponici. Dall’altra parte della barricata si schieravano invece, “da destra”, Gianfranco de Turris e Franco Cardini, pronti a difendere la valenza educativa dell’archetipo eroico celato sotto l’armatura d’acciaio di Mazinga Z e di Capitan Harlock.

Del resto, se i robot futuristici richiamavano pericolosamente Jünger e Marinetti, le cose non andavano certo meglio per quel che riguardava gli anime d’altro genere. Oltre alle serie d’ambientazione robotica va infatti segnalato anche l’altro filone, quello eroico ma non tecnologico in voga a partire dagli anni ’80. I protagonisti di questo tipo di manga fanno affidamento unicamente sulle proprie forze, fisiche e spirituali, per sconfiggere le forze del male.

Il più celebre rappresentante di questo filone è senz’altro Goku, il protagonista di Dragon Ball, uno dei manga più popolari del mondo, ideato da Akira Toriyama nel 1984. La serie TV, suddivisa nei tra capitoli di Dragon Ball, Dragon Ball Z e Dragon Ball GT (quest’ultima non presente nella versione cartacea), viene trasmessa ininterrottamente da anni sulle reti Mediaset, con un riscontro di pubblico davvero impressionante. Sfortunatamente, il cartone è stato da noi oggetto di ripetute censure a causa dei frequenti riferimenti osé, pure estremamente soft. Ma si sa: dopo la violenza, il nemico numero uno dal quale preservare i ragazzi è l’eros. Ad ogni modo, il cartone narra le vicende della stirpe dei Sayan, caratterizzata da un innato istinto di lotta, conquista ed autosuperamento. Popolo nietzscheano, verrebbe da dire. Discorso a parte merita poi Capitan Harlock, il pirata intergalattico taciturno e ribelle, uomo fra le rovine di un’umanità decadente. «Il suo teschio è una bandiera che vuol dire libertà»: con quel motto che sembra ripreso da un canto di Arditi dannunziani, il Capitano non poteva che divenire il simbolo della gioventù non conforme di inizio millennio.

Ma la palma del più micidiale eroe di carta spetta forse al mitico Ken il guerriero, nato nel 1983 dalla matita di Tetsuo Hara e Yoshiyuki Okamura. Un fenomeno di culto assoluto, ancor più sorprendente se si pensa che il cartone non è mai passato sulle principali reti televisive nazionali, ma solo su reti private e locali, prosperando grazie al passaparola di migliaia di appassionati. Ciononostante, a Ken il guerriero spetta l’invidiabile primato di essere l’unico cartone al mondo ad essere stato accusato di… omicidio. Accadrà nel 1996, quando albi del fumetto verranno trovati tra gli effetti personali dei lanciatori di sassi dal cavalcavia di Tortona. Psicologi dilettanti e sociologi da talk show risolveranno il caso in un baleno: la colpa è di Ken il Guerriero. Indagando le vite dei giovani balordi, Fabrizio Ravelli, in una squallida riedizione della campagna diffamatoria di fine anni ’70, narrerà orripilato su Repubblica di «gare di Karate ispirate ad un fumetto giapponese», mentre qualche tempo dopo, questa volta sul Venerdì, Federica Lamberti Zanardi scriverà sollevata: «Dopo anni di produzioni giapponesi violente e terrorizzanti, che hanno causato addirittura tragedie [sic!], finalmente le nuove serie TV per ragazzi sono popolati da personaggi buffi e divertenti». C’è un certo retrogusto orwelliano, in queste parole. Si tratta di un pericoloso buonismo sociologico che, come notava anche Massimo Fini nel suo Elogio della guerra, è destinato per contrappasso ad incrementare, anziché a contrastare, la violenza nichilista che talvolta caratterizza la nostra società.

L’aveva ben visto Céline: «Quando saremo diventati morali esattamente nel senso in cui le nostre civiltà lo intendono, lo desiderano e ben presto lo esigeranno, credo che finiremo per esplodere anche di malvagità. A quel punto, per distrarci, non ci resterà a disposizione che l’istinto di distruzione». Sempre che Goldrake non riesca a salvarci prima, ovviamente.

* * *

Tratto dal Secolo d’Italia del 22 giugno 2007.

Condividi:
Segui Adriano Scianca:
Adriano Scianca, nato nel 1980 a Orvieto (TR), è laureato in filosofia presso l'Università La Sapienza di Roma. Si occupa di attualità culturale, dinamiche sociologiche e pensiero postmoderno in varie testate web o cartacee. Cura una rubrica settimanale sul quotidiano Il Secolo d’Italia. Ha recentemente curato presso Settimo Sigillo il libro-intervista a Stefano Vaj intitolato Dove va la biopolitica?. Scrive o ha scritto articoli per riviste come Charta Minuta, Divenire, Orion, Letteratura-Tradizione, Eurasia, Italicum, Margini, Occidentale, L'Officina. Suoi articoli sono stati tradotti in spagnolo e pubblicati su riviste come Tierra y Pueblo e Disidencias. E’ redattore della rivista web Il Fondo, diretta da Miro Renzaglia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *