Trjapicyn in Siberia orientale: breve la vita felice di un “bandito” anarchico

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 4 del 12 febbraio 1989 (anno 69) del settimanale anarchico “Umanità Nova”, giornale fondato da Errico Malatesta; e viene ora riproposto con alcuni ampliamenti.

Vi si narra una vicenda pressoché sconosciuta in Occidente: la breve epopea di una “comune” anarchica instaurata a Nikolaevsk, sulla costa dell’Estremo Oriente sovietico di fronte all’isola di Sakhalin, nel 1920. Il suo capo era un partigiano di nome Trjapicyn, che combatteva sia contro le truppe “bianche” sia contro gli invasori Giapponesi ma che alla fine, dichiarato fuori legge dal governo bolscevico, venne catturato e fucilato dall’Armata Rossa.

Vogliamo rievocare un episodio poco noto della guerra civile scatenatasi in Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Esso ebbe luogo nelle remote regioni dell’Estremo Oriente, nel 1920, giusto un anno prima della rivolta dei marinai di Kronstadt – rivolta che mostrò a tutti, definitivamente, il volto oppressivo e brutale del potere bolscevico, e che obbligò lo stesso Lenin a varare la N. E. P., ossia una politica economica che fu l’esatta negazione di tutto quanto egli aveva sino allora sostenuto.

Questo episodio della guerra civile russa è, a nostro giudizio, significativo perché mette in risalto il ruolo di molti rivoluzionari che, pur non aderendo esplicitamente al programma anarchico, come invece fece Nestor Makhno in Ucraina, ebbero tuttavia della lotta sociale una visione libertaria, ancorché confusa e talvolta inquinata da violenza incontrollata – non diciamo gratuita, perché sarebbe un’espressione incongrua (da un punto di vista etico, la violenza è sempre “gratuita”; da un punto di vista politico, può esserlo oppure no). La guerra fra rivoluzionari e reazionari, dal 1917 al 1922, fu combattuta con ferocia belluina: si videro i soldati di Kolciak gettare i prigionieri “rossi” nelle caldaie delle locomotive, o i “regolari” sovietici impalare vivi gli ufficiali polacchi “bianchi” (esistono anche documentazioni fotografiche al riguardo). Quando la medioevale oppressione dello zarismo crollò, vi fu una ebollizione incontenibile di energie sociali ch’erano rimaste compresse per secoli: la società russa dovette compiere un balzo dal dispotismo orientale al comunismo marxista, bruciando in pochi anni le tappe di un’intera evoluzione storica.

L’episodio che ci accingiamo a narrare è, poi, interessante perché illustra in maniera significativa l’atteggiamento ufficiale del potere sovietico (diciamo meglio: bolscevico) nei confronti di quegli elementi ch’esso considerava “incontrollabili” e che, se ritenne utili ai suoi fini in una prima fase della lotta contro la reazione “bianca”, colpì in seguito con una offensiva pianificata, bollandoli di “anarchici”, quando si rese conto che non sarebbe riuscito a strumentalizzarli in senso burocratico e autoritario.

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Alla fine dell’inverno 1919-20, le province siberiane orientali erano precipitate in una situazione quanto mai critica. A Irkutsk, dopo la dissoluzione dell’esercito dell’ammiraglio Kolciak, capo supremo delle armate “bianche” controrivoluzionarie (consegnato dai Ceco-Slovacchi ai Sovietici, e fucilato il 7 febbraio 1920), si era formato un Centro politico di sinistra, che aveva avviato trattative con il governo di Mosca, finché un colpo di Stato bolscevico lo aveva abbattuto. Uno dei capi più influenti, Krasnoscekov, si era trasferito allora a Verchne-Udinsk, e il 6 aprile vi aveva riunito una Assemblea Costituente che proclamò una Repubblica dell’Estremo Oriente indipendente e democratica. Essa avrebbe dovuto costituire uno Stato-cuscinetto fra la Russia sovietica e il Giappone militarista e imperialista, che fin dal 1918 aveva iniziato l’invasione della Siberia Orientale con un’armata di 70.000 uomini (contemporaneamente a un più limitato intervento di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia).

Qua e là, scorrazzavano ancora hetman cosacchi come Semënov (a Čita), generali “bianchi” come Boldyrev (a Vladivostok), gruppi sbandati ma ancora temibili (come i Kappelevcy, seguaci del defunto Kappel, leggendario ufficiale della “guardia bianca” di Kolciak), e perfino figure da grand Guignol come il barone von Ungern-Sternberg (a Urga), pazzo e sadico, che credendosi una reincarnazione di Gengis Khan e Tamerlano, era tutto impegnato a costituirsi un regno personale in Mongolia, simile all’allucinato Marlon Brando di Apocalypse now.

Ha scritto uno storico americano: “Kalmykov, Semënov e Ungern-Sternberg erano solo i più famigerati di un agghiacciante gruppo di uomini del tutto privi di princìpi morali che nell’Estremo Oriente russo, durante gli oscuri tempi del 1918 e 1919, violarono in piena impunità le leggi di Dio, dell’uomo e della natura” (W. Bruce Lincoln, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, Milano, Mondadori, 1994, p. 226). Tutti costoro correvano il Paese, seminando violenze indescrivibili e favorendo la nascita, per reazione, di bande rosse di partigiani della taigà, la sconfinata foresta siberiana di abeti, ove si aggiravano lupi, orsi e tigri della Manciuria. (È l’ambiente rappresentato nel bellissimo film di Akira Kurosawa Dersu Uzala).

Nikolayevsk-on-Amur intorno al 1900.
Nikolayevsk-na-Amure intorno al 1900.

Una di queste era quella guidata da un certo Trjapicyn, che agiva nella parte settentrionale delle Province Marittime, a nord della catena montuosa di Sikhote Alin. A quelle latitudini sub-artiche, nel freddissimo inverno siberiano, i partigiani raggiunsero – verso la fine di febbraio 1920 – la cittadina di Nikolaevsk (grafia esatta odierna: Nikolajevs-na-Amure), situata sulla foce del grande fiume Amur, sullo Stretto dei Tatari, di fronte all’isola di Sakhalin (tristemente celebre, sotto lo zarismo, per essere stata luogo di deportazione: ne parla anche lo scrittore Anton Cechov che visitò personalmente la colonia penale, ai primi del Novecento). Esistevano colà sia una colonia di immigrati nipponici, sia una guarnigione militare giapponese, stabilitavisi – dopo il 1918 – come in tutti gli altri centri più importanti delle Province Marittime.

Chi era, esattamente, questo Trjapicyn? Le fonti sovietiche, dopo la sua avventura e la sua tragica fine, ce lo presentano ora come un bolscevico, ora come un avventuriero e un “anarchico”. Di fatto era un giovane audace, che a soli ventitre anni possedeva le doti fisiche e intellettuali per essere riconosciuto dai suoi rudi seguaci come un capo indiscusso. Il suo principale luogotenente (o piuttosto “complice”, come si dirà al processo) era la sua compagna, una ragazza di soli ventun anni. Le loro idee libertarie possono esser desunte dal fatto che a Nikolaevsk, dopo esser giunti a una sorta di modus vivendi con la guarnigione giapponese, instaurarono una vera e propria “comune”, con tutte le regole.

Vorremmo saperne di più, su questa comune, ma ne parlano soltanto alcuni vecchi giornali sovietici dell’epoca, difficilmente reperibili (e non troppo attendibili). Fra essi, si segnala un articolo di Proletarskaja Revoljucija del 1924, n. 5 (dunque, scritto alcuni anni dopo la conclusione della vicenda).

Comunque, la vita della comune era messa costantemente in pericolo dalla presenza delle forze armate giapponesi, i cui ufficiali erano fanaticamente anti-comunisti ed avevano ricevuto istruzioni di tutelare ovunque il principio della proprietà privata, non solo fra i residenti giapponesi, ma anche fra i cittadini russi. Logico, dunque, che essi vedessero la comune di Trjapicyn come il fumo negli occhi e che la sua sola esistenza apparisse loro come una sorta d’intollerabile provocazione permanente. I partigiani, da parte loro, vedevano nei Giapponesi un doppio nemico: di classe e di nazionalità (in quanto invasori armati di un territorio russo, nei cui confronti nutrivamo ambizioni annessionistiche che non si sforzavano troppo di nascondere, e che ostentavano uno sprezzante atteggiamento di superiorità razziale, in quanto si consideravano “figli del Cielo” in mezzo a un popolo di barbari, gli odiati “diavoli bianchi” contro cui avevano già combattuto, e vinto, la sanguinosa guerra del 1904-05).

I due poteri non potevano convivere a lungo, e infatti il 12 marzo 1920, dopo appena un paio di settimane, si giunse alla resa dei conti. Chi abbia sferrato l’attacco per primo, non è mai stato possibile determinarlo con certezza, anche perché il grave incidente diplomatico verificatosi in quella circostanza fra Unione Sovietica e Giappone fece sì che, in seguito, le due parti si sforzassero di far passare due versioni dei fatti totalmente contrapposte. Anche all’interno delle fonti sovietiche, però, esiste qualche contraddizione, poiché – alla luce degli eventi successivi – gli autori sovietici non sanno bene come regolarsi. Infatti essi appaiono combattuti e incerti fra il desiderio di condannare Trjapicyn fin dall’inizio, attribuendogli la responsabilità del conflitto, e quello di difenderlo perché, alla metà di marzo, poteva ancora considerarsi un “legittimo” partigiano sovietico. In tal caso, è chiaro che gli storici di Mosca tendono a rigettare interamente la responsabilità del conflitto scatenatosi a Nikolaevsk sulle forze armate giapponesi. È pur vero che, dato l’alto livello di efficienza dimostrato complessivamente dall’esercito del Sol Levante e dato il clima di forte tensione esistente in loco, si stenta a credere che quel distaccamento si sia lasciato sorprendere nel modo più banale, come se fosse stato composto da reclute inesperte e da ufficiali dilettanti.

Qualunque sia la verità, nella lotta che si accese fra i rossi e gli occupanti stranieri, i primi ebbero facilmente la meglio e catturarono l’intera guarnigione nipponica. Durante gli scontri erano rimasti uccisi anche dei civili. Rimasto padrone del campo, Trjapicyn occupò Nikolaevsk per gran parte della primavera, protetto da eventuali contrattacchi del nemico dal fango e dalla neve dal lato di terra, e dal mare ghiacciato dal lato dell’estuario dell’Amur. A Nikolaevsk egli potè quindi rimanere sino alla fine di maggio, cioè sino al disgelo, allorché le navi da guerra salpate dal Giappone poterono avvicinarsi alla terraferma navigando in acque libere, per sloggiarlo dalla cittadina. Quando le truppe del Sol Levante presero terra, i partigiani della comune non rimasero ad attenderli, ma evacuarono Nikolaevsk e si ritirarono verso l’interno, dove – protetti dall’immensità della foresta siberiana – non dovevano temere, per il momento, di essere inseguiti.

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Litografia di propaganda giapponese che mostra l'occupazione di Khabarovsk durante la guerra civile russa.
Litografia di propaganda giapponese che mostra l’occupazione di Khabarovsk durante la guerra civile russa.

Intanto, nei giorni e nelle settimane seguenti al colpo di mano dei partigiani contro la loro guarnigione, i Giapponesi non erano rimasti inattivi. Impossibilitati a vendicarsi direttamente su Trjapicyn – almeno per il momento – i Giapponesi avevano studiato una contromossa in grande stile e avevano effettuato uno sbarco in forze a Vladivostok, il maggior porto della Repubblica dell’Estremo Oriente, fra il 4 e il 6 aprile. Avevano occupato inoltre molte località delle Province Costiere, macchiandosi di violenze selvagge e scatenando una serie di assassinii politici ai danni di chiunque fosse sospettato di nutrire simpatie di sinistra. “Una serie di azioni punitive giapponesi nelle Province Marittime dimostrò fin troppo chiaramente agli abitanti chi fossero i loro veri padroni. Ai fatti del 4-5 aprile in Vladivostok , alla selvaggia soppressione di partigiani e sospetti politici, si accompagnarono assassinii in Nikolsk, Chabarovsk e altre città” (John Erickson, Storia dello Stato Maggiore sovietico, Milano, Feltrinelli, 1963, p.228). Infine i Giapponesi avevano imposto al generale Boldyrev, “uomo forte” della Repubblica (ma considerato nel complesso un politico moderato, anche perché di umili origini), la firma di un trattato militare estremamente umiliante, il 29 aprile.

Si può perfino supporre che “l’incidente” di Nikolaevsk non sia giunto del tutto sgradito agli alti comandi di Tokyo, dal momento che veniva ad offrir loro, su un piatto d’argento, quel casus belli che desideravano, sia per rafforzare ulteriormente – senza troppo allarmare le altre grandi potenze presenti in Siberia – la loro occupazione delle Province Marittime, sia per imporre al governo di Verchne-Udinsk una serie di clausole commerciali e militari sempre più onerose. Mentre le altre potenze dell’Intesa non avevano che poche migliaia di soldati, il Giappone vi disponeva ormai di una intera armata.

“Grazie a questa situazione di vantaggio – ha scritto uno storico italiano -, il Giappone condusse su larga scala una graduale infiltrazione economica, confiscando navi russe, acquistando terreni da cittadini russi, ed assicurando ampi privilegi economici a compagnie commerciali giapponesi fino quasi nella Transbajkalia” (da. Gabriele Pesce, Russia e Cina. Quattro secoli tra guerra e pace, Milano, Bompiani, 1971, p.103).

Frattanto, come abbiamo visto, era nata la repubblica dell’Estremo Oriente (che avrà vita travagliata fino al 19 novembre 1922, quando si scioglierà per fondersi con l’Unione Sovietica, in seguito alla partenza dei Giapponesi). Essa aveva stabilito la propria capitale a Čita, dopo averne cacciato i Cosacchi di Semënov, ed era stata riconosciuta dal governo di Lenin, al quale aveva ceduto la Penisola di Kamčatka i cui giacimenti minerari (come quelli petroliferi di Sakhalin) vennero concessi ai capitalisti americani, insieme ai diritti di sfruttamento forestale. La regione dell’Amur veniva a far parte della Repubblica Estremo-Orientale. A questo punto, sotto il profilo giuridico, Trjapicyn non poteva più considerarsi un comandante bolscevico, perché il governo di Čita si stava impegnando a non consentire la presenza di truppe sovietiche sul proprio territorio; né tanto meno poteva considerarsi un combattente della neonata Repubblica, la quale era costretta a cercar di mantenere rapporti amichevoli coi pericolosi vicini giapponesi. Il suo isolamento, pertanto, era non solo militare ma anche e soprattutto politico.

Si stabilì una convenzione militare fra il governo sovietico e quello di Čita, che ovviamente prevedeva anche il rastrellamento delle forze partigiane “irregolari”, come quelle di Nikolaevsk.

“Nei primi mesi della sua esistenza la Repubblica Estremo-Orientale rimase uno Stato politicamente debole; molto dipendeva dalla formazione di efficienti forze militari, perché l’ataman Semënov, appoggiato dai Giapponesi, continuava ad essere un nemico temibile. La Repubblica Estremo-Orientale ricavò il proprio esercito dall’Armata sovietica della Siberia Orientale, ribattezzata nel febbraio 1920 Armata Rivoluzionaria Popolare (N.R.A.) e composta di 11.000 uomini, più 2.000 soldati di cavalleria, oltre 100 mitragliatrici, sei cannoni leggeri e quattro pesanti e persino quattro aeroplani” (J. Erickson, op. cit., p. 227).

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Quando, col disgelo, la flotta giapponese potè avvicinarsi a Nikolaevsk, Trjapycyn – come si è detto – decise di evacuarla senza combattere. Ciò avvenne il 27 maggio 1920. Prima di ritirarsi, tuttavia, i partigiani commisero un atto che si sarebbe rivelato disastroso: dapprima massacrarono l’intera popolazione giapponese, compresa la guarnigione che avevano fatto prigioniera il 12 marzo, quindi saccheggiarono la cittadina e la diedero alle fiamme. È difficile stabilire il numero esatto delle vittime di questa azione sconsiderata, ma una fonte parla di 700 cittadini giapponesi, compreso il console del Sole Levante, ciò che fornì al governo nipponico il pretesto per l’occupazione della metà settentrionale dell’isola di Sakhalin (quella meridionale essendo già in mani giapponesi dal 1905, con la pace di Portsmouth): vedi Louis Fischer, I Sovieti nella politica mondiale, Firenze, Vallecchi (2 voll.), vol. 1, p.352.

Per quanto riguarda l’incendio, è possibile che gli uomini di Trjapicyn, in realtà, si siano limitati a bruciare i depositi di materiale che, altrimenti, sarebbero caduti nelle mani del nemico; così come è possibile che abbiano sfogato sulla sventurata Nikolaevsk e sui suoi abitanti la loro rabbia impotente per la brusca fine dell’esperimento della “comune”. Il massacro dei Giapponesi, invece, è documentato senza possibilità di dubbio, tanto che in seguito Joffe accettò di esprimere il “profondo rammarico” del governo sovietico a quello di Tokyo. Tale episodio, comunque, si può comprendere – ma non giustificare – solo inquadrandolo nel clima di belluina violenza che regnava allora in quelle regioni. Può essere che le notizie delle atrocità giapponesi del mese di aprile, in vari luoghi della Provincia Costiera, fossero giunte alla banda di Trjapicyn, e che essa abbia creduto semplicemente di applicare la legge del taglione.

In ogni modo, dopo la strage dei Giapponesi e l’abbandono di Nikolaevsk in preda alle fiamme, Trjapicyn venne dichiarato fuori legge dai Sovietici. Reparti dell’esercito rosso gli diedero la caccia per tutto il mese di giugno (mentre non mossero un dito contro i Giapponesi che spadroneggiavano su tutto il territorio) e, ai primi di luglio, riuscirono a catturarlo.

Fu subito costituito un tribunale militare che emise un verdetto di morte sia contro di lui che contro i suoi principali seguaci. La sentenza venne eseguita immediatamente, mediante fucilazione, con gran soddisfazione del governo di Tokyo e dei suoi satelliti, oltre che del governo della Repubblica dell’Estremo Oriente. Si conserva ancora la sentenza contro Trjapicyn e i suoi, che è stata pubblicata da P. S. Parfenov in Bor’ba za Dal’nyj Vostok nel 1928 (pagine 197-200), riprendendola da giornali dell’epoca.

Così Mosca aveva ristabilito l'”ordine” in Estremo Oriente, anzi, aveva fatto le funzioni di poliziotto per il governo repubblicano di Čita e per i militaristi invasori giapponesi. Certo, i bolscevichi dovevano mantenersi in buone relazioni con questi due Stati, in nome di un cinismo e di una realpolitik estremamente abile e spregiudicata, che li avrebbe messi in grado di ristabilire – entro il 1922 – la loro autorità su tutti i territori dell’ex Impero zarista, fino alla costa del Pacifico. (Pare, anzi, che i piani bolscevichi fossero ancor più machiavellici. “Lenin – scrive ancora John Erickson – giustificò la creazione dello Stato-cuscinetto con motivi estremamente pratici, e inoltre ammettendo francamente di essere convinto che presto sarebbe scoppiata una guerra fra il Giappone e gli Stati Uniti d’America”). Ma più ancora del gioco diplomatico con la Repubblica dell’Estremo Oriente e col Giappone, forse, nella determinazione dei bolscevichi di eliminare Trjapicyn pesò la congenita, insopprimibile diffidenza del potere (di qualunque potere, “rosso” non meno che “bianco”) nei confronti di un esperimento politico-sociale libertario, quello della comune di Nikolaevsk, che avrebbe potuto costituire un esempio contagioso per altri gruppi e altre realtà.

Così Nestor Makhno, quando riuscì ad occupare per alcuni mesi delle città importanti dell’Ucraina, come Ekaterinoslav e Aleksandrovsk, per prima cosa fece affiggere dei manifesti che informavano la popolazione della decadenza di qualsiasi potere istituzionale, e la invitavano ad organizzarsi come meglio credesse. “Come quasi tutti i capi-banda contadini – osserva un insigne storico inglese – Makhno aveva qualcosa del brigante; però non si può giudicarlo sommariamente – come fanno scrittori rossi e bianchi – un bandito puro e semplice. Egli vide nei proprietari terrieri e nelle ‘spalline d’oro’ i vessilliferi di un’antica servitù, nei commissari comunisti e nei funzionari delle requisizioni gli araldi di una schiavitù nuova per quei contadini, cui era legato da stretti vincoli di sangue e di stirpe. Combattè gli uni e gli altri in una guerriglia selvaggia e spitetata, da vero contadino, con tutta la turbinosa energia della sua natura, scrivendo il suo nome a grandi lettere nella tremenda cronaca del sanguinoso caos ucraino” (W. H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Milano, Mondadori, 1955, vol. 3, pp. 94-95).

Era questo l’esempio che faceva paura a Lenin, a Trotzkij e a Zinoviev; era questo l’esempio che andava combattuto con la massima energia. Per questo o soprattutto per questo, crediamo, Trjapicyn venne fucilato; e, come lui, chissà quanti altri partigiani che non avevano concepito la rivoluzione come una nuova forma di potere autoritario e burocratico.

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Per saperne di più

Oltre alle opere citate nel testo, si veda H. K. Norton, The Far Eastern Republic of Siberia, Londra, 1923.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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