Tradizione. Giovanni Sessa e la demitizzazione della modernità

Viviamo ormai da troppo tempo sotto il segno della crisi. E’ passato un secolo dalla pubblicazione del Tramonto dell’Occidente di Spengler, l’Europa usciva disastrata dal primo conflitto mondiale.   Il cuore della storia cominciò a battere sulle coste dell’Atlantico, motore propulsore degli eventi umani divennero gli USA. Per rispondere alla propria decadenza gli europei misero in campo la reazione fascista. Lo stato presente delle cose vede un’accelerazione senza precedenti della crisi. Essa non è più solo economico-sociale, politica, ma investe la dimensione spirituale ed esistenziale di tutti noi. La stessa sopravvivenza della Civiltà è in gioco, ogni forma di identità, perfino di genere, è negata dal diffondersi del mondialismo globalista. Come uscire da una situazione siffatta? Con quali riferimenti ideali e culturali? A tali quesiti cerca di dare una risposta un recente volume di Giovanni Sessa, Tradizione. Demitizzare la modernità, edito da Historica nella collana ‘I libri di Nazione Futura’ (per ordini: info@nazionefutura.it, pp. 129, euro 13,00).

Il libro muove dalla descrittiva del mondo della dismisura e dello sradicamento, mettendo in luce come, paradossalmente, il Deserto nichilista, finora esperito da ampi strati sociali come Dimora, e presentato come tale dalla comunicazione di massa eterodiretta, venga colto come luogo inabitabile, in-umano. Allo scopo, Sessa si avvale della letteratura sociologica di scuola baumaniana, ma sottolinea, altresì, che la sociologia per statuto, si limita a descrivere la crisi della post-modernità liquida, ma non indica uscite di sicurezza per lasciarsela alle spalle. L’autore richiama quanto di recente notato dal filosofo Umberto Galimberti, il quale ha rilevato che per superare il momento di impasse: «Non si tratta di approntare una nuova strada, ma di liberare l’antica» (p. 16). L’unica alternativa valoriale al presente, indispensabile per lasciarsi alle spalle la crisi, è rappresentata, per Sessa, dal pensiero di Tradizione. Prima di discutere i punti salienti della Tradizione, l’autore, richiamando la filosofia di Augusto Del Noce che, non casualmente, di Guénon e di Evola si interessò, ritiene sia oggi obiettivo prioritario ‘demitizzare lo spirito di modernità’. Come gli illuministi misero in atto la demitizzazione della Tradizione, riducendola di fatto a mera superstizione, i pensatori controcorrente devono impegnarsi nel compito inverso: smascherare l’errore moderno.

La costruzione dell’uomo nuovo che il moderno ha perseguito nelle sue due variabili, capitalista e marxista, ha richiesto una cultura centrata sulla menzogna. La ratio calcolante nega il reale, in particolare la dimensione finita dell’umano e così, la mentalità rivoluzionaria, è: «costruita sul rifiuto dell’idea di verità» (p. 22). Ciò ha indotto una disumanizzazione della vita, l’altro, nei rapporti reificati contemporanei, va sempre posseduto, non persuaso, in quanto il paradigma del mondo nuovo, come indicò Del Noce, non è più Diderot, ma De Sade. L’uomo senza Tradizione è un narciso che si sente padrone esclusivo del reale. A differenza di quanto inteso dal filosofo cattolico, Sessa, con la strumentazione teoretica ereditata da Evola e da De Benoist, ritiene, per dirla con Heidegger che, al fine di recuperare un’antropologia metessica, partecipativa dell’uomo alla realtà del cosmo-sacro, sia necessario un recupero della visione classica del mondo  e, quindi, porsi oltre la metafisica di ascendenza cristiana, implicata nella nascita del soggettivismo moderno (l’uomo, in tale contesto teorico, è imago dei e, quindi, legittimato ad agire quale ‘padrone dell’ente’, a mobilitare la natura attraverso la Tecnica).

A questo punto l’autore attraversa e discute la proposta politica e spirituale del milieu tradizionalista del Novecento, muovendo preliminarmente da La crisi del mondo moderno di René Guénon. Merito del volume dell’esoterista francese fu di descrivere la crisi della modernità come possibile fine di un mondo, quello costruito sulla ratio, e non del mondo, utilizzando criteri di giudizio ulteriori rispetto a quelli propri della letteratura della crisi e facendo riferimento alla Tradizione Una. Il volume guénoniano è una descrizione delle progressive tappe storiche: «della caduta che hanno portato all’affermazione della Modernità, attraverso il dominio dell’economico sul politico», del quantitativo sul qualitativo, del materiale sullo spirituale (p. 40). Guénon riteneva però che occorresse unicamente lavorare, in attesa della chiusura del ciclo, alla formazione di un élite intellettuale. Si fermò ad un’asserzione di principio, ancorato al necessitarismo delle leggi cicliche. Dalla Crisi di Guénon, Sessa invita a transitare alla Rivolta contro il moderno, di cui, a partire dal 1934, si fece latore Julius Evola, in quanto, come scrisse, il filosofo romano: «Non è del voltarsi da una parte all’altra in un letto d’agonia, ma è dello svegliarsi e del levarsi in piedi, che dovrebbe trattarsi» (pp. 51-52).

Nei capitoli centrali del volume, vengono presentati, in modo sintetico, gli aspetti più rilevanti del mondo della Tradizione, viene analizzata e discussa criticamente la prima parte di Rivolta.  Si mostra quanto l’idea di Centro sia consustanziale alla Tradizione, e come la regalità ne fosse la rappresentazione terrena: «Aver un centro non era solo uno stato interiore, ma implicava l’essere in possesso di un’energia conseguente, una […] virtù da poter essere trasmessa da un Re a quelli delle generazioni successive» (p. 57). L’Impero era retto dal ‘re dei re’ e sanciva, in ambito politico, la più ampia conquista del principio di luce di contro a quello tenebroso, che doveva essere preservata dalla celebrazione del rito. Patrizio era colui che, attraverso l’iniziazione, avesse rivitalizzato in sé il contatto con gli stati superiori dell’essere. Vengono così presentate, quali alternative radicali al presente, le concezione della vita e della morte in quel mondo, i rapporti tradizionali tra uomo e donna, l’idea di spazio, di tempo, il valore e senso delle arti e il ruolo delle caste.

Nell’ultimo capitolo la Tradizione è esperita quale origine e meta sempre possibile, in quanto l’uomo evoliano, l’uomo ‘differenziato’ di Cavalcare, vive il mito come precedente autorevole: «esempio sul quale costruire nell’azione la nostra presenza nel mondo» (p. 115). La Tradizione è liberata dalla collocazione retroattiva e torna a mostrarsi come origine sempre vigente nel tempo, il cui riproporsi è: «appeso al rischio che ogni scelta umana implica» (p. 116), la riuscita o il fallimento. Questo libro sintetico, lo precisa Sessa, non ha pretese esaustive, ma può essere nella confusione generale del tempo presente, ottimo lavoro per orientarsi e trovare le coordinate necessarie per tornare ad agire.

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  1. Fabio
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    Probabilmente acquisterò il testo di Sessa, trovo l’argomento di primaria importanza. Oggi ogni riferimento alla tradizione appare stonato, questa viene percepita come una dimensione irricevibile e inadatta al discernimento dell’attaualità. La tradizione, invece, costituisce proprio la nostra sostanza, forse la parte più nobile del nostro essere uomini e, nella fattispecie, del nostro essere uomini e donne occidentali. A mio modesto parere, il fatto stesso che l’Europa rigetti il riconoscimento delle nostre radici cristiane la dice lunga su quanto la dimensione storica e, allo stesso tempo, metafisica della tradizione mantenga un suo minaccioso, per l’odierno politicamente corretto, peso specifico nell’attualità. Negare il fatto che la nostra cultura discenda dal felice incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma significa spazzare via, in un colpo solo, i massimi livelli raggiunti dall’homo sapiens in ambito religioso, filosofico e giuridico. Più che altro si tratta del mirabile intreccio delle tre dimensioni, di come l’una si sia nutrita dell’altra prendendone gli spunti migliori. La modernità intesa come dimensione esistenziale a prescindere dalla tradizione, in particolare dalla grandezza di questa, rischia di rivelarsi un ritorno all’età della pietra sostituita, questa, dallo smartphone. Il pensiero che si rifà alla tradizione vive in una dimensione tridimensionale che mette insieme passato, presente e futuro, uniti da un continuo reciproco confronto. Il pensiero incastonato nell’attualità è solo geometria piana: privo di profondità. Tuttavia, è amaro constatare come il progressivo impoverimento culturale promuova e favorisca il pensiero piano, l’eliminazione della tradizione, la rinuncia a doversi misurare con essa, è comoda e non richiede nemmeno un minimo armamentario culturale; tanto, si ritiene, che l’informazione abbia sostituito lo studio. Dovremo convincerci che tutto è nato ieri.

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