Tracciare il solco

In principio erano Romolo e Remo. I due gemelli della leggenda – figli di Marte, protettore della virtus romana, e di una vestale, ovvero di una sacerdotessa custode del mos maiorum – si contendono il compito di fondare la nuova città. È però a Romolo che gli dei manifestano il proprio favore.

Egli – rex e augur nello stesso tempo – in-augura la città solo dopo aver ricercato il “cenno d’assenso divino”. Dopodiché traccia due assi ideali rappresentanti il cardo ed il decumano e procede con la limitatio: traccia, cioè, il perimetro della città scavando il solco primigenio. Tale solco recinge lo spazio che il rito inaugurale ha trasformato da terra informe in luogo sacro, da Caos in Cosmos. Ma Remo non accetta il nuovo ordine e scavalca il solco in un titanico affronto all’opera fondatrice del fratello. La sua uccisione è quindi inevitabile.

Sacri-ficium

Il sacri-ficium (azione violenta istituente il sacro) operato da Romolo implica il ripudio di un’esistenza meramente ferina, naturalistica, informe, in vista dell’assunzione di un’identità propriamente umana. L’uomo, infatti, non è solo natura. Egli è anche un essere di cultura, può costruirsi da sé. Di fronte a Romolo, quindi, si dischiude “l’ora della decisione”.

Egli prende in mano il proprio destino. Si getta nella storia cercando la “gloria che non muore” come vuole ogni etica aristocratica. Tramite la sua creazione, il suo nome riecheggerà nella storia per sempre. In questo modo, Romolo accede all’eternità. Egli, però, agisce solo dopo aver ascoltato gli dei. La sua azione è libera, ma nel senso di una libertà che è in ordine con il volere divino. Gli dei sono accanto a lui, sono in lui. Ma allo stesso tempo è il suo gesto che dischiude la possibilità del divino, in una sorta di circolo virtuoso. Gli dei consentono la libertà umana perché essi stessi si abbeverano alla sua fonte. È nella potenza umana che si riflette la gloria divina, è tramite l’uomo che il dio si afferma nel mondo.

La libertà storica

Romolo rappresenta quindi la libertà storica dell’uomo. Quella libertà che non si trova nell’assenza di forma, di limite, di legge, ma al contrario consiste proprio nella capacità di dare a se stessi e al mondo, una forma, un limite, una legge, passando da un’anonima humanitas alla vera e propria virilitas. L’uomo è libero poiché, non essendo destinato a rimanere totalmente condizionato dalla natura, può dare egli stesso un senso alla sua esistenza.

Non così nella Bibbia. Qui l’uomo è concepito come già determinato, quantomeno nell’essenziale. Egli è infatti null’altro che lo schiavo di YHVH (1) (Levitico: 25, 55). Ogni tentativo di acquisire autonomia è quindi blasfemo. È, in fin dei conti, un volersi ribellare al padrone, un voler essere padroni di sé stessi. Men che mai è possibile progettare il proprio essere-nel-mondo attraverso l’azione politica, giacché qui l’empietà tocca l’apice: si vuole affiancare all’autorità di YHVH un’altra autorità puramente umana. Ma YHVH è un “dio geloso” (Esodo: 34, 14) e mal sopporta “competitori”. È così che, nell’ottica biblica, ogni forma di “dominio dell’uomo sull’uomo” è maledetta, da sempre e per sempre.

Caino

Si veda a questo proposito un episodio tra i molti che si potrebbero citare, quello dell’uccisione di Abele da parte di Caino, particolarmente significativo per via dell’evidente analogia con il mito di Romolo e Remo. Si consideri innanzitutto che Caino è un agricoltore sedentario mentre Abele è un pastore nomade (Genesi: 4, 2). Il primo è radicato, costruisce il suo mondo; il secondo è sradicato ed “è” semplicemente nel mondo.

Ora, “l’attaccamento ad una data terra, il radicamento, porta in sé stesso i prodromi di tutto ciò che la Bibbia stigmatizza come ‘idolatra’: le singole città, il patriottismo, lo Stato e la sua giustificazione, la frontiera che distingue il cittadino dallo straniero, il mestiere delle armi, la politica etc.” (2). Offrendo a YHWH le sue primizie, Caino chiede al suo Dio di sacralizzare uno stile di vita incentrato sulla libertà e sul farsi carico del proprio destino che Egli aborrisce. L’uccisione di Abele rappresenta quindi un sacri-ficium analogo a quello compiuto da Romolo. Il quadro etico e teologico di fondo totalmente diverso, però, fa sì che in questo caso Caino appaia come un eroe titanico, un ribelle solitario destinato alla condanna del suo Dio. Condanna, si badi bene, al nomadismo (Genesi: 4, 12). Ma anche dopo la condanna divina, Caino non abbandona il suo caratteristico orgoglio: egli fonda infatti una città cui dà il nome di suo figlio, Enoch (Genesi: 4, 17). La radice di “Enoch”, in ebraico, indica propriamente un “inizio”. Caino, udite udite, oppone all’inizio divino della creazione un inizio puramente umano. C’è qualcosa di immensamente tragico, di eroico, di europeo in questo.

È lo spirito del “fondatore di città”, di colui che “vuole farsi un nome” come recita la formula che per la spiritualità indo-europea rappresenta lo scopo di ogni vita nobile mentre per la mentalità biblica è il colmo della blasfemia. E non a caso, in tutta la Bibbia, la città (3) – da Babilonia a Ninive, da Damasco a Tiro, da Gaza a Sodoma e Gomorra – non cessa di essere maledetta.

Marx

L’ombra della condanna biblica si proietterà in tutto il pensiero occidentale, sino ai giorni nostri. Si pensi solo a Marx. Nella filosofia marxiana è il proletariato a incarnare in sé la fine di ogni rapporto di “dominio dell’uomo sull’uomo”. La “dittatura rivoluzionaria del proletariato” sarà solo un momento transitorio, causato dalle contingenze storiche, in cui i proletari dovranno adottare i mezzi coercitivi tipici delle altre classi. Mezzi adottati in modo passeggero e strumentale, in quanto il proletariato è visto come una sorta di “anti-classe”, metafisicamente estraneo al dominio. E infatti, la fase dittatoriale non sarà che l’avvio di un processo sociale che porterà alla scomparsa delle classi, dello Stato e della politica. Soppressi gli antagonismi di classe, non ci sarà più bisogno di un istituzione statale che ne garantisca la perpetuazione.

Certo, l’uomo è pur sempre un animale sociale, e quindi il filosofo di Treviri – bontà sua – mantiene un minimo abbozzo di funzione pubblica. Ma si tratterà di funzioni de-politicizzate: una volta soppresso lo Stato “1) non esisteranno più funzioni governative; 2) la distribuzione delle funzioni generali diventerà una questione di affari e non darà luogo a nessun dominio; 3) l’elezione non avrà nulla dell’odierno carattere politico” (4). Sorte non diversa toccherà alla divisione del lavoro. Scrive Marx, in una delle sue pagine meno felici, che nella società comunista la produzione sarà regolata in modo tale da permettermi “di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico” (5).

Il quadro generale è quello di una sorta di paradiso post-storico, egualitario ed omologato, in cui non succede mai nulla e si è “liberi” dalla preoccupazione di avere un destino. E soprattutto: guai a darsi una forma, a tracciare dei limiti, ad imporsi di incarnare questo modello anziché quello. No, tutto questo rappresenterebbe una violenza intollerabile al nostro diritto di poter esser qualsiasi cosa, “così come ci vien voglia”.

Il liberalismo

Messo alle strette dalla storia, il marxismo si è però visto temporaneamente costretto a passare il testimone al liberalismo, nel quale del resto è corsa ad intrupparsi la gran parte del clero comunista occidentale. Il liberalismo – riducendo lo Stato ad un immenso mercato – rappresenta un tentativo ben più raffinato di eliminazione della politica come momento di autoaffermazione di una comunità umana dotata di un progetto storico. La società si fa meccanismo senz’anima, la politica diviene gestione aziendale.

È il trionfo della libertà come emancipazione, come liberazione “da…”, ed al tempo stesso è la morte della libertà fondativa, creativa, progettuale. Il dogma principale del liberalismo è la difesa dei “diritti dell’individuo” dall’intromissione della comunità, mentre la suprema blasfemia rimane ogni tipo di “decisionismo”, ogni visione di grande politica, ogni volontà storica o idea di bene comune. Ridotto a garantire sicurezza dai ladri e dal fuoco, come diceva Nietzsche, lo Stato liberale diventa poco più che il consiglio di amministrazione di un impresa destinata a null’altro che a far “quadrare i conti” – senza peraltro riuscire troppo bene nemmeno in questo. In poche parole, per riprendere l’illustre ipse dixit di prima, nel liberalismo realizzato non esistono più funzioni governative; la distribuzione delle funzioni generali diventa una questione di affari e non dà luogo a nessun dominio; l’elezione non ha nulla del carattere politico. Dal paradiso dei filosofi, Marx ci osserva con non poca soddisfazione.

Derive postmoderne

Le più recenti avanguardie del pensiero occidentale – pur nel loro incessante sforzo di pensarsi come “rivoluzionarie” – non sfuggono al medesimo orizzonte. Gli studi sul potere di Foucault, la filosofia postmodernista di Lyotard, il razionalismo logorroico di Habermas, il pensiero debole di Vattimo, l’heideggerismo rabbinico di Derrida non hanno altro scopo che quello di perpetuare la maledizione biblica contro ogni forma di “dominio dell’uomo sull’uomo”. Particolarmente istruttivo è il caso della cosiddetta Scuola di Francoforte, l’ultimo e più significativo avatar del marxismo.

Giovani intellettuali provenienti dalla ricca borghesia ebraica tedesca, i “francofortesi” (Wiesengrund-Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Pollock etc.) furono tra quelli che sentirono più di tutti il problema del dominio, non di rado sull’onda emotiva di un senso di colpa causato dalla loro appartenenza ad una classe decisamente più sfruttatrice che sfruttata. Dal che deriva una paranoica lettura filosofica della storia occidentale in cui il dominio – inteso come ratio calcolante – risulta essere il vero ed unico protagonista (6). Ad esso si contrappone un programma allucinato in cui sarà l’edonismo a salvarci dal potere, sottraendo le pulsioni alla loro sublimazione. Dalla Forma all’informe, dalla virilitas all’humanitas, il percorso di Romolo è ormai completamente ripercorso a ritroso.

Il nichilismo compiuto

Dalle infuocate maledizioni bibliche agli ultimi sussulti della filosofia moderna, insomma, l’Egualitarismo (7) non ha mai cessato di denunciare la violenza dell’uomo che si scaglia contro il proprio fratello. Mai più violenza, mai più dominio, sembra essere la parola d’ordine dei corifei dell’emancipazione universale. Il che ovviamente ci ha portato – con uno di quei tipici paradossi che solo chi è della genia dei massacratori umanitari sa donarci – alla perdita di ogni libertà reale. In che modo? Semplice: dichiarando empia ogni forma di volontà storica e politica in senso forte, si è posta l’umanità sotto il giogo di quel meccanismo impersonale che i più chiamano Sistema.

Quest’ultimo è ben diverso da una qualsiasi spengleriana Zivilisation, la quale, per quanto decadente, conserva ancora un’anima. Il Sistema, invece, è totalmente inanimato, inorganico, gira a vuoto, replica se stesso al di fuori di ogni intenzione o controllo, non ha altro scopo che il proprio meccanico riprodursi. È d’altra parte vero che il vuoto di sovranità determinato dall’imporsi del Sistema viene repentinamente riempito dalle oligarchie. La forma oligarchica è in effetti l’unico tipo di sovranità (parziale) oggi possibile. Ma se le oligarchie dominano il Sistema, non per questo lo dirigono. Ci sono solo mille volontà criminali che tiranneggiano dalle loro roccaforti, ma non c’è un progetto di lunga durata, una volontà storica. E soprattutto: non c’è più un senso. Il meccanismo totalizzante che ci ingloba ci ha privato di ogni motivo per vivere o morire. È il nichilismo compiuto.

Martin Heidegger ci ha a suo tempo mostrato con eccezionale profondità la natura “inautentica” del nostro vivere quotidiano, in cui fuggiamo da noi stessi, dalla nostra originaria libertà e capacità di pro-gettarci nella storia per rifugiarci presso il rassicurante tepore dell’alienazione (8). Siamo “emancipati” ed abbiamo la nostra porzione singola di diritti individuali, ma non possediamo più la capacità e la possibilità di influire in alcun modo sulle nostre esistenze. Andiamo dritti dritti verso la “fine della storia” sognata da tutti gli “emancipatori”, da tutti i “liberatori” che non hanno mai cessato, negli ultimi tremila anni, di odiare l’uomo e la sua autoaffermazione. Ma la storia, fortunatamente, è pur sempre il territorio del possibile, e come tale è sempre soggetta alla propria rigenerazione. Occorre solo la volontà di riappropriarsi di nuovi spazi di libertà, fuori e dentro di noi. Tracciare il solco: nel cuore della modernità e delle sue contraddizioni; ma, prima ancora, nel centro rovente delle nostre anime.

* * *

Note

1) Come nomi del “Dio” della Bibbia, Yahvé o Jehovah sono solo delle forme derivate da YHVH, il tetragramma sacro che l’ebreo pio non può mai pronunciare. Ricordiamo che tale Essere Supremo non è, a rigor di logica, “Dio”. Per gli indoeuropei “dio” è *deyw-ó- , cioè “quello del cielo diurno” e, per estensione, “essere luminoso”. Gli dei così nominati trascendono la condizione umana ma non trascendono il mondo, come è logico che sia in una “religione cosmica” come è quella indoeuropea. Al contrario YHVH – formula sacra che riassume in sé tutte le forme modali attive del verbo essere – è un’entità totalmente separata dal mondo. L’attribuzione del termine di origine greca “Dio” a YHVH è quindi assolutamente arbitraria. (Cfr. http://www.alaindebenoist.com/pdf/un_mot_en_quatre_lettres.pdf).

2) Alain De Benoist [alias], Come si può essere pagani?, Basaia Editore, Roma 1984.

3) Si badi: qui la città è il simbolo della creatività e della libertà umana. Nulla a che vedere, quindi, con la megalopoli decadente e cosmopolita di tipo americanomorfo.

4) Karl Marx, Appunti sul libro di Bakunin ‘Stato e Anarchia’, in Marx-Engels, Critica dell’anarchismo, Torino 1972.

5) Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2000.

6) Cfr. Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.

7) Uso il termine “egualitarismo” nel senso in cui lo usava Giorgio Locchi (cfr. Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982 [versione Web]). La filosofia locchiana è del resto implicita in tutto il resto dell’articolo.

8) Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi & C., Milano 1971.

Condividi:
Segui Adriano Scianca:
Adriano Scianca, nato nel 1980 a Orvieto (TR), è laureato in filosofia presso l'Università La Sapienza di Roma. Si occupa di attualità culturale, dinamiche sociologiche e pensiero postmoderno in varie testate web o cartacee. Cura una rubrica settimanale sul quotidiano Il Secolo d’Italia. Ha recentemente curato presso Settimo Sigillo il libro-intervista a Stefano Vaj intitolato Dove va la biopolitica?. Scrive o ha scritto articoli per riviste come Charta Minuta, Divenire, Orion, Letteratura-Tradizione, Eurasia, Italicum, Margini, Occidentale, L'Officina. Suoi articoli sono stati tradotti in spagnolo e pubblicati su riviste come Tierra y Pueblo e Disidencias. E’ redattore della rivista web Il Fondo, diretta da Miro Renzaglia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *