Sull’Etica della Politica e dello Stato. In ricordo di Paolo Borsellino

“Il nostro scopo nel fondare lo Stato

 non è di rendere felice un unico tipo di cittadini,

ma che sia felice quanto il più possibile

lo stato nella sua totalità.”
(Platone, Repubblica, 420b-c)

 

Nel diciannovesimo anniversario della strage mafiosa (e non solo) di Via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua eroica scorta, è nostra intenzione ricordare tale tragico accadimento, non più sotto un’esclusiva ottica poliziesca o squisitamente giudiziaria, ma rammentando l’impegno civile e civico del magistrato, orgoglioso militante del FUAN in gioventù, che non si batteva esclusivamente contro la mafia, ma per un rinnovamento morale ed etico dell’Italia, dal quale, non può prescindere, qualsivoglia contrasto al malaffare od alle organizzazioni criminose. Ed è proprio sul senso profondo dell’Etica che vuole ampliarsi il nostro discorso, sul significato arcaico e sapienziale che gli è proprio, sul rapporto intimo ed inscindibile con le sfere della Politica e delle Istituzioni, e dell’Istituzione che le ingloba tutte organicamente, cioè lo Stato.

La parola Etica, la cui etimologia deriva dal greco ήθος o dal latino ethos,  da cui il significato di “carattere”, di “comportamento”  non è solo quella categoria della filosofia morale e politica, che, in senso del tutto generale, regola e determina il senso di una comunità, di un’organizzazione giuridica e del rapporto del singolo con essa, ma assume una valenza autentica e più profonda, allorquando diviene dimensione noetica, ove impegnare tutte le proprie energie lungo la via  l’unica via che conduce alla fedeltà nel proprio Essere ed al proprio Demone, alla costruzione dell’Egemonikòn, del governo interiore, come lo definivano gli Stoici.

Tale lotta interna è per la nascita di uomo che tragga da sé la legge da osservare, che sia impassibile ed inattaccabile di fronte alla marea che tutto corrompe, un uomo che con il suo essere sia esempio annulli la divergenza – come vedremo nell’analisi della filosofia platonica – tra etica soggettiva indi individuale ed etica oggettiva indi relazionata al senso comunitario interpretato dalle istituzioni, dallo Stato. E’ d’uopo rammentare come Julius Evola in un saggio degli anni ‘40, Fedeltà alla propria natura (ora ripubblicato nel noto libretto Etica Aria) ponga in essere una specifica dicotomia tra due diverse nature etiche, quella tradizionale e quella moderna. Se il riferimento alla modernità si caratterizza per un’affermazione di un puro relativismo, spesso legato alla dimensione mercantilistica dell’odierna società, l’Etica, intesa secondo una visione del mondo arcaica e tradizionale, è la radice unica e di natura intimamente spirituale che forgia, proprio come ci ricorda Evola, l’esistenza umana nelle sue poliedriche attività: “Da qui procede anche quel senso di dignità, di qualità e di diligenza…quello stile…quasi come dei Signori”. Essa va intesa come Ordine interno, statuale e cosmico e lo si ritrova (o lo si smarrisce) nel Lavoro, nella Famiglia, nella Fede e nell’Amore, tutelando il diritto all’identità, compenetrandosi in una visione organica del mondo e della vita, che ci vede tutte modalità differenziate di una stessa Manifestazione: era il significato del fascio romano e ancor più l’idea dell’Imperium, che riuniva sotto l’Aquila di Roma ed il simbolo iperboreo dell’ascia bipenne le divinità e gli uomini di quasi tutto il mondo allora conosciuto e che si esplicita nella meravigliosa costruzione del Pantheon.

Questa è l’Idea Cosmica che infrange ogni moderno tentativo di omologazione: è il Tutto concepito ordinatamente secondo la volontà degli Dei, e non in una panteistica indifferenziazione, che molto ha in comune col marxista materialismo ateo. In tale ottica la rilevanza da attribuire alla lucidità, alla riflessione nella nostra condotta quotidiana, alla convergenza tra ciò che è eticità e virtù civiche e universali, diviene centrale ed irrinunciabile. A tal punto è importante disquisire sul reale significato della parola Politica, che ovviamente è cosa molto diversa da ciò che comunemente si intende oggi, cioè un movimentismo, un’azione per l’azione, non animato da alcuna Idea superiore, ma solo da slogan e frasi fatte, che nel migliore dei casi non conducono a nulla, se non ad una satanica rincorsa al potere, nel senso più materialista ed antitradizionale del termine, e per fare ciò sarà indispensabile riferirsi principalmente agli insegnamenti di Platone. E’ d’uopo analizzare, in primis, ciò che tradizionalmente intendeva il discepolo di Socrate per Politeia, per rappresentare al meglio un’idea di riferimento, un archetipo primordiale, che ci possa far ben distinguere tra concezioni istituzionali tradizionali e moderne aggregazioni societarie alla Hobbes o alla Rousseau. Si può cominciare ad intuire l’essenza della concezione politica e statuale platonica, che, precisamente verte sue due identità, quella tra Civitas terrena e Civitas Celeste, come ci ricorderà più in là nei secoli S. Agostino, e quella tra la comunità organizzata ed il singolo cittadino della polis. Entrambe ripresentano la diretta corrispondenza della dottrina tradizionale con ciò che abbiamo definito Ordine, rappresentando l’istituzione statuale un elemento, nel primo rapporto (con il Divino), di levatura macrocosmica, e nel secondo rapporto (con il civis), di valenza microcosmica. Si noti, pertanto, la centralità che riveste nel pensiero platonico l’idea di Politeia, tra l’Olimpo Divino e l’interiorità umana.

Per comprendere al meglio ciò che vogliamo intendere per diretta corrispondenza  tra Civitas Celeste e Civitas terrena, riprenderemo dalla tradizione vedica il mito cosmologico della formazione dei diversi varna: nel Rig-Veda l’emanazione delle tre parti del corpo di Purusha, rispettivamente della bocca, delle braccia e delle anche, rappresentavano la gerarchia ontologica dei brahmana, degli kshatriya e dei vaisya. In Platone, parimenti, ritroviamo la divisione dell’organismo sociale nelle tre “caste” dei sapienti, i custodi dello Stato, dei guerrieri e dei produttori. Tale tripartizione è tipica dell’organizzazione istituzionale delle grandi civiltà indoeuropee: oltre alla civiltà indù già citata, si ricordi come nell’Avesta si narri dei tre pishtra – i signori del Fuoco (athreva), i montatori del carro da guerra (rathaesta), gli allevatori-agricoltori (vastriya-fshuyant) –, come tra i Celti ci fosse la separazione tra druidi, nobiltà guerriera ed agricoltori, e come nella stessa Roma le tre funzioni sociali fossero rappresentate dai flamines majores, i sacerdoti della triade capitolina Juppiter, Mars, Quirinus. A questo punto è d’obbligo chiarire il reale rapporto tra la sfera spirituale dell’uomo e la comunità organizzata, anche e soprattutto per comprenderne e “giustificarne” l’esistenza, per esplicitare la nostra definizione di gerarchia ontologica e demolire ogni vana interpretazione economicistica. Il discepolo di Socrate enuncia tre aretè e stabilisce la funzione di ciascuna a seconda dell’elemento che predomina nel microcosmo, determinando, anche nell’interiorità umana, una tripartizione gerarchica: la Sapienza è la virtù che garantisce il dominio del noùs, dell’elemento spirituale, dello Spirito; la Fortezza è la virtù che caratterizza la psyche, l’elemento animico e sublunare che sovrintende le passioni; la Temperanza  è l’aretè del soma, dell’aspetto puramente corporale, che presiede i piacieri. A tali virtù il divin Platone ne affianca un’altra e forse ancor più fondamentale: la Giustizia, cioè il giusto ordine che necessariamente deve esserci tra detti elementi, tra il noùs, la psyche ed il soma. Dopo tali considerazioni, è facile comprendere come la maggiore o la minore aderenza all’aretè della Giustizia determini la differenziazione castale: come al vertice della gerarchia interiore c’è il noùs, in quella delle funzioni ci sono i Filosofi; di seguito, all’elemento animico corrisponde la funzione guerriera ed al soma la funzione dei produttori. La Giustizia così esplicitata è una regola fondamentale in tutte le società tradizionali. La disamina della complessa teologia platonica dello Stato ha portato luce quanto da noi scritto, circa l’identità tra polis e Cosmo, tra polis e cittadino: la Politeia possiamo definirla, senza riserve, una vera e propria palestra spirituale, in cui l’uomo ha la possibilità di “porre giustizia dentro di sé”, di riconoscere il proprio essere, avvicinando sé  e la stessa comunità in cui vive al mondo ordinato degli Dei, “conquistando” l’eudaimonia. L’oblio dell’aretè della Giustizia è, quindi, la causa di tutti gli sconvolgimenti che il percorso ciclico della storia ha determinato: quando non si riconosce più la trascendenza del principio d’autorità, ha inizio quel processo degenerescente che ha determinato la nascita dell’odierna società. Il termine Politica, quindi, va inteso tradizionalmente come l’azione volta a riscoprire l’aretè della Giustizia nella propria interiorità, nella propria comunità e per conformare la stessa al Fas dei Romani, al Rtà indù, alla Verità Divina: “Esiste dunque nei cieli un modello per chiunque intenda vederlo e, vedutolo, fondarlo in sé stesso. Che siffatto esemplare esista o abbia mai a esistere in alcun luogo non importa, giacché questo è l’unico Stato di cui egli sia partecipe”(Resp. 592b, Platone). Come si connette tale inquadramento filosofico con il tema dell’Etica della cittadinanza espressa dal pensiero, dalla vita e dalla condotta di Paolo Borsellino nei vari incontri coi giovani o nei confronti coi giornalisti o con altri colleghi? Ciò è possibile concependo un’opera di moralizzazione civica come un’azione essenzialmente culturale e fondamentalmente interiore e introspettiva. La trasformazione etica è sostanzialmente di qualità profondamente noetica, che concerne le basi radicali della personalità umana, il rapporto con il coraggio, con la paura, con il rispetto ed il riconoscimento civile del prossimo, in un comune contesto comunitario, organicamente inteso, lo Stato come Organo Sovrano. Lo sviluppo massimo della nostra interiorità divina, della sua volontà di potenza, quindi, deve intendersi, non come dominazione o aggressione, ma come reale presa di coscienza di se stessi in un mondo di alterità. Le parole di Borsellino, specie nelle sue ultime interviste, quando la falce della morte era già visibile come i mandanti non mafiosi ben identificabili, rimangono come delle vere perle di saggezza, essenziali, da assumere pienamente in quel processo di rivoluzione conservatrice che la nostra comunità anela vanamente da decenni, ma che, dall’esempio di un coraggioso magistrato anti-mafia, può riattivare la propria e mai doma forza vitale:” “La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Ciò che abbiamo accennato sull’Etica, sulla Politica, sullo Stato, tramite Platone, tramite Julius Evola, in Paolo Borsellino esplicita eroicamente tutta la propria virtuosa valenza civile. L’aretè della Giustizia si incarna in Paolo Borsellino, nell’uomo retto, con una propria esemplare dignità, con la propria abnegazione sul lavoro e la propria liberalità nei rapporti personali. Prima che un magistrato, un Uomo, con la maiuscola, che, anche non ricercandolo, ha tracciato un solco, che la nostra comunità militante non può non perseguire. Non ci sono altre alternative per chi ha scelto la nostra stessa strada, che è quella ideale che configura il cittadino quanto lo Stato che lo rappresenta, lo tutela e lo educa, come degli alberi, con radici profonde che non gelano e con rami che sfidano il vento ed il Sole:“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

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(pubblicato sul periodico d’informazione politica Il Megafono, anno 2011).

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Nato a Taranto nel 1977, è stato l’animatore nei primi anni del 2000 del Centro Studi Tradizionali Cuib Mikis Mantakas, con la correlata fanzine Camelot, a cui hanno offerto la loro preziosa collaborazione numerosi studiosi del tradizionalismo italiano. Attualmente, i suoi interessi, che spaziano dalla metapolitica alla Tradizione, dall’antichità classica alla dottrina ermetico-alchemica, lo coinvolgono in alcune collaborazioni di rilievo con riviste come Vie della Tradizione, Elixir, Arthos, Orientamenti, Orion. Suoi articoli sono apparsi anche su pubblicazioni come Ciaoeuropa, Graal, Hera, Simmetria ed Arketè.

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