“Sud” di Ernest Shackleton, capolavoro di prosa scientifica e avventurosa

L’Endurance nei ghiacci antartici

Ernest Shackleton è uno dei massimi esploratori antartici dei tempi moderni: la sua figura è degna di stare accanto a quelle di Scott e Amundsen. Nato a Kilkee, in Irlanda, il 15 febbraio 1874, muore nella Georgia Australe – ove tuttora riposa il suo corpo – il 5 gennaio 1922. Il suo nome è legato a quattro spedizioni nel continente antartico. La prima, del 1900-01, lo vede come compagno di Robert Falcon Scott che, con la nave Discovery, si reca in Antartide e poi, in slitta, si spinge verso sud, fino a raggiungere latitudini mai prima toccate dall’uomo. La seconda spedizione, da lui organizzata e capeggiata, si svolge nel 1907-09 e si propone di raggiungere il Polo Sud, mediante slitte trainate da cani e da cavalli siberiani.

L’epica impresa, dopo una traversata a bordo della nave Nimrod, deve interrompersi il 9 gennaio 1909, quando gli ardimentosi esploratori sono giunti ad appena 170 chilometri dal Polo Sud. L’assoluta mancanza di viveri non consente loro di procedere oltre; anche i piccoli cavalli siberiani sono periti, l’uno dopo l’altro, per sfinimento o precipitando nelle fenditure del ghiaccio; ed è stato necessario finirli. Shackleton, sempre sobrio e misurato nel suo diario quotidiano, annota i fatti e le impressioni di quei giorni.

“25 dicembre. Giorno di Natale. Da -40° a -42°. Turbini di neve; un vento mordente da Sud. Questo lo stato meteorologico di oggi. Abbiamo marciato dalle sette del mattino alle sei di sera, sopra una delle salite più ripide finora incontrate, rotta da precipizi.”

“1° gennaio 1909. Il capo mi duole troppo e non mi permette di scrivere a lungo. Camminiamo sempre faticosamente in ascesa sopra neve molto soffice. Ciascuno di noi è esausto per insufficienza di cibo.

“9 gennaio. Ultima giornata di avanzata a Sud. Abbiamo chiamato a raccolta le nostre ultime forze con i seguenti risultati: 88°, 23′ di latitudine Sud e 162° di longitudine Est. Abbiamo alzato la bandiera di Sua Maestà e quella nazionale, prendendo possesso dell’Altopiano in nome del re. Domani riprendiamo la via del ritorno. Il nostro rincrescimento è molto vivo, ma abbiamo la coscienza di aver fatto quanto era in nostro potere” (1).

La terza spedizione ha luogo nel 1914-16 e si propone di ritentare l’impresa, traversando tutto il continente antartico dal mare di Weddell al Mare di Ross. Con la nave Endurance Shackleton e i suoi compagni si portano dapprima in Sud America, dopo che lo scoppio della prima guerra mondiale ha rischiato di far saltare tutto il programma. Shackleton ha offerto all’Ammiragliato di mettersi a disposizione della marina con la nave e tutto l’equipaggio; ma la risposta è stata laconica e liberatoria: “Proseguite”.

“L’8 agosto l’Endurance salpò per Buenos Aires, da dove raggiunse la Georgia Australe, ripartendone il 5 dicembre per l’Antartide. Dopo poche miglia di navigazione, la nave incontrò i primi ghiacci galleggianti che in quell’anno, contrariamente alle previsioni dei balenieri, si erano spinti molto al Nord, e la navigazione divenne sempre più difficile. L’Endurance si aprì faticosamente la via attraverso i canali, ma ormai l’estate antartica era finita e bisognava prepararsi allo sverno. Il 24 febbraio 1915 la nave venne definitivamente stretta dai ghiacci e andò alla deriva con essi verso il Nord, anche se molto lentamente. La pressione era fortissima, ma la nave resistette magnificamente per alcuni mesi. Poi, il 27 ottore, si sentì un tremendo scricchiolìo e in poco tempo dell’Endurance non rimase che un relitto informe. Gli uomini fecero in tempo a sbarcare sui ghiacci con molti viveri e si costruirono capanne di ghiaccio dove vissero per qualche tempo.

“La terra più vicina era a 1.300 chilometri e non c’era altra possibilità che quella di farsi trasportare alla deriva insieme con i ghiacci.

“Per dieci mesi il lastrone su cui erano i relitti della nave e il campo dei naufraghi (battezzato Ocean Camp) andò alla deriva e gli uomini poterono salvare a più riprese viveri e vestiario dalla nave e uccidere foche e pinguini che servivano magnificamente a variare la dieta giornaliera. Il 24 novembre l’Endurance si inabissò per sempre e, la vigilia di Natale, Shackleton annunciò all’equipaggio che aveva intenzione di iniziare una marcia di avvicinamento all’isola Paulet; tutti furono felici della determinazione del loro capo perché l’inerzia cominciava a pesare ormai troppo sugli animi di tutti. Caricate le slitte, la marcia cominciò sui ghiacci fra ostacoli innumerevoli, specialmente per coloro che dovevano trascinare le pesanti scialuppe. Si pensò di abbandonarle, ma poi il progetto venne accantonato perché senza scialuppe sarebbe stata sicuramente la morte. Quando gli uomini furono sfiniti, Shackleton decise di accamparsi e il nuovo campo venne battezzato Patience Camp. I viveri cominciarono a mancare e il cibo caldo venne distrubuito una sola volta al giorno, fino a quando ci si dovette nutrire esclusivamente di carne di foca e di pochi biscotti. Il tempo intanto andò migliorando e la deriva continuò verso l’isola Clarence, che venne avvistata il 7 aprile, all’alba. Il ghiaccio cominciò a frantumarsi e la minaccia di essere inghiottiti dalle onde si fece incombente per i naufraghi. Agirono con prontezza e decisione e il 9 aprile si imbarcarono sulle scialuppe e remarono disperatamente per oltre 100 ore per allontanarsi dal pericolo. Riuscirono a issarsi su in piccolo icerbeg, ma dovettero ripartire quasi subito e tesero con ogni sforzo all’isola Elefante che raggiunsero dopo una furiosa tempesta. Per giungere alla Georgia Australe mancavano ancora 1.400 chilometri! Shackleton studiò con i suoi uomini il da farsi e furono tutti d’accordo nel decidere di tentare la traversata su una sola scialuppa. Aggiustarono la migliore, la James Caird, e Shackleton scelse gli uomini che dovevano accompagnarlo nel disperato tentativo. Gli altri li avrebbero attesi nell’isola Elefante. Uccisa una foca, la scialuppa fu provvista di viveri per un mese, a razioni ridottissime, di un albero e una piccola vela di fortuna.

“Il 18 maggio (erano partiti il 23 aprile), gli uomini della James Caird riuscirono ad approdare in una piccola spiaggia deserta della Georgia Australe e otto giorni dopo, dall’alto di una collina, scorsero un raggruppamento di pescatori ai quali Shackleton chiese aiuto per i compagni. L’avventura parve incredibile e impossibile ai pescatori che, comunque, partirono subito con la baleniera Southern Sky. Ma a pochissima distanza dall’isola Elefante, le pessime condizioni dei ghiacci consigliarono il comandante a invertire la rotta. Allora Shackleton si recò nelle Falkland e il 10 giugno ne partì col peschereccio uruguaiano Insitituto de Pesca, ma anche questa volta venne fermato dai ghiacci a 20 miglia dall’isola. Il Cile offrì il suo rimorchiatore Yelcho che poté raggiungere i naufraghi il 30 agosto. Da molti mesi erano in condizioni disperate e soffrivano la fame; furono, almeno moralmente, ricompensati dalle accoglienze trionfali che ricevettero ovunque giunsero” (2).

Nei due anni successivi Shackleton partecipa, come del resto tutti i suoi uomini, alla prima guerra mondiale; ma non ha rinunziato ai suoi sogni di esplorazione antartica e, a guerra finita, si adopera per organizzare una nuova spedizione verso il Polo Sud. La quarta spedizione di Shackleton, tuttavia, si conclude tragicamente quasi prima di incominciare. Salpato dall’Europa nel 1921, a bordo della nave Quest, l’esploratore chiude gli occhi per sempre mentre fa tappa nella Georgia Australe, teatro della sua memorable traversata di cinque anni prima, per un attacco di angina pectoris. È il 4 gennaio del 1922: il suo cuore affaticato non ha retto agli strapazzi di una traversata orribile, con mare agitato. La sua salma viene riportata in Sud America; ma la vedova, donna forte e coraggiosa, la fa riportare nella Georgia Australe, là dove lui avrebbe desiderato riposare, e viene sepolta nel piccolo cimitero dell’isola. I suoi uomini e quanti l’hanno conosciuto non possono fare a meno di rimpiangerlo: egli aveva in grado eminente le doti del capo. Tenacia, perseveranza, coraggio, ottimismo ma anche sollecitudine verso tutti i suoi compagni; ambizione e senso patriottico, ma senza esagerazioni; e una vena di romanticismo che lo caratterizza come l’ultimo, probabilmente, degli eroi della stagione epica delle esplorazioni polari. Le sue grandi doti umane emergono proprio nelle circostanze più sfavorevoli, come è proprio dei veri leader (3).

Ma diamo la parola direttamente a Shackleton. Come scrittore, le sue doti sono, in fondo, le stesse che ha dimostrato come uomo e come esploratore: semplicità, schiettezza, realismo, buon senso; il lettore non deve aspettarsi da lui voli lirici o effusioni sentimentali. Ciò nonostante affiora, qua e là, una timida vena di commozione, quando egli deve narrare i momenti più sofferti e drammatici della sua vicenda. Ecco, ad esempio, come descrive la perdita finale della nave Endurance, rimasta stritolata fra i ghiacci verso la fine di novembre del 1915:

“È difficile scrivere quello che sento. Per un marinaio la propria nave è qualcosa di più di una casa galleggiante – e sull’Endurance io avevo concentrato ambizioni, speranze e desideri. Affaticata e gemente, con le ossa spezzate e le ferite aperte, ora che la sua storia è appena cominciata, essa sta lentamente rinunciando alla sua vita senziente. Dopo essere andata alla deriva per più di 570 miglia in direzione nord-ovest, nel corso dei 281 giorni, durante i quali è rimasta intrappolata nel pack, ora l’Endurance è annientata e abbandonata.” […]

“Questa mattina – la nostra ultima mattina sulla nave – il tempo era limpido, con una leggera brezza che spirava da sud-sud-est a sud-sud-ovest. Dalla coffa non s’intravedeva alcun segno di terra, di nessun tipo. La pressione stava lentamente aumentando, e il trascorrere delle ore non arrecò alla nave nessun sollievo né le concedette tregua. L’attacco sferratole dal pack raggiunse l’apice alle 16. La pressione sollevò la poppa della nave, il banco di ghiaccio che premeva, muovendosi lateralmente a poppa, spezzò il timone e strappò il dritto di poppa e il dritto di poppa ausiliario. Poi, sotto i nostri occhi, il ghiaccio aumentò la stretta e l’Endurance si abbassò un poco. I ponti stavano esplodendo aprendosi verso l’alto e l’acqua si riversava all’interno. La pressione ricominciò, e alle 17 ordinai a tutti gli uomini di scendere sul pack. I ghiacci che si deformavano stridendo per la tensione avevano infine imposto la loro volontà alla nave. Faceva star male sentire i ponti schiantarsi sotto i piedi, quando i grandi bagli si piegavano e infine cedevano spezzandosi con un rumore che faceva pensare a un colpo artiglieria. L’acqua stava sopraffacendo le pompe e quindi, per evitare un’esplosione quando avesse raggiunto le caldaie, dovetti dar ordine di spegnere i fuochi e far sfogare il vapore. I piani per abbandonare la nave in caso d’emergenza erano stati fatti con molto anticipo; uomini e cani scesero sul ghiaccio e si guadagnarono la relativa sicurezza offerta da un banco di pack integro, senza che avesse luogo un solo incidente. Proprio prima di lasciare la nave, mentre stavo sul ponte che sussultava, guardai nel lucernario della sala macchine e vidi i motori rovesciarsi di lato mentre i sostegni ed i basamenti cedevano. Non posso descrivere la sensazione di implacabile distruzione che mi prese quando mi guardai intorno. Il pack, premuto da milioni di tonnellate di ghiaccio, stava annientando la nave” (4).

La traversata dall’isola Elefante alla Georgia Australe, sulla scialuppa scoperta James Caird, è un’impresa nautica veramente eccezionale e trova in Shackleton, il suo protagonista, un narratore sobrio e sincero, un testimone che lascia parlare i fatti nella loro nuda, terribile evidenza; sono pagine che meriterebbero un posto nelle antologie epiche.

“Confinati in quello spazio angusto, schiaffeggiati senza sosta dagli spruzzi, soffrivamo terribilmente il freddo. Dovevamo lottare contro i vento e le onde e cercare di restare in vita. E di pericoli ne incontrammo molti. Ci sosteneva la consapevolezza di avvicinarci alla terraferma, ma c’erano giorni e notti in cui bisognava deporre ogni speranza e lasciarsi andare alla deriva, contemplando con occhi più interessati che impauriti le ruggenti masse d’acqua. Infinitamente profonde sembravano le valli che si spalancavano fra un’onda e l’altra; altissime le creste spumeggianti su cui ci trovavamo momentaneamente appollaiati. Tanto piccola era la nostra barca e tanto potente il mare, che spesso le nostre vele pendevano inerti nella quiete che si instaurava fra due marosi, ma subito dopo tornavamo ad arrampicarci su una cresta, esposti alla furia della bufera e circondati di spuma bianca. Ci succedeva perfino di ridere – di rado, certo, ma in quei momenti ridevamo di cuore, e anche se spesso labbra screpolate e bocche gonfie impedivano le manifestazioni esteriori del divertimento, non mancavamo di cogliere gli aspetti comici della situazione. È soprattutto lo spettacolo delle piccole sfortune altrui a risvegliare negli uomini il senso dell’umorismo, e personalmente non scorderò mai i comici sforzi di Worsley che cercava di rimettere la casseruola sulla lampada Primus da cui era scivolata. La prendeva con le dite irrigidite dal freddo, la lasciava cadere, tornava a raccoglierla, maneggiandola quasi fosse un fragile articolo destinato alla toilette d’una signora. Noi ridemmo, o meglio, gorgogliammo una risata.

“Il terzo giorno il vento cominciò a soffiare più forte, tramutandosi in una vera e propria tormenta. La crescente forza del mare evidenziò la debolezza del rivestimento del ponte, i continui urti finirono per spostare le casse e le rotaie, e i teli cedettero e si riempirono d’acqua. Oltre agli spruzzi, ora anche rivoli ghiacciati si riversavano all’interno da prua e da poppa. I chiodi che il carpentiere aveva estratto dalle casse e usato per fissare le assi, erano troppo corti e rendevano instabile il rivestimento. Cercammo di rimediare in qualche modo, ma disponevamo di pochissimi attrezzi e l’acqua continuò a entrare da una dozzina di punti diversi.

“Bisognava sgottare di continuo, e non potemmo evitare che le nostre cose si infradiciassero. Rigagnoli che precipitavano dai teli erano di gran lunga più spiacevoli degli spruzzi e durante le ore di veglia ci sdraiavamo sotto i sedili per evitarli. Sulla scialuppa non c’era quasi più un angolo asciutto e alla fine non potemmo far altro che coprirci la testa con i Burberry e sopportare. Le operazioni di svuotamento erano di competenza della vedetta, ma non c’era riposo per nessuno. Eravamo infreddoliti, sofferenti e pieni di timori. Sotto il rivestimento, nella semioscuriutà del giorno dovevamo muoverci carponi; verso le 18 il buio era completo e non rivedevamo la luce che alle 7 del mattino seguente. Accendevamo i pochi mozziconi di candela rimasti solo all’ora dei pasti. Di fatto, c’era un solo luogo asciutto a bordo, il punto sottostante il rivestimento originale a prua, e lì conservavamo parte delle gallette, ma credo che nessuno riuscisse mai a liberarsi del tutto dal gusto del sale.

“La difficoltà di muoversi a bordo avrebbe avuto un lato umoristico se non l’avessero accompagnata tanta sofferenza e tanto disagio. Dovevamo strisciare sotto i sedili e le nostre ginocchia ne risentivano non poco. Al cambio dei turni di guardia, ero costretto a dirigere gli uomini chiamandoli per nome e segnalando loro gli ostacoli; muovendoci tutti contemporaneamente, avremmo provocato una gran confusione e ci saremmo riempiti di lividi. I turni di guardia duravano quattro ore ciascuno e vedevano impegnati tre uomini alla volta. Uno badava ai fornelli, il secondo era addetto alle vele e il terzo svuotava il fondo della barca.” […]

“Lasciando le vedette a tremare di freddo, gli altri si affrettavano a infilarsi nei sacchi a pelo ancora tiepidi, ma non sempre potevamo offrirci quel conforto. Bisognava spostare in continuazione i sassi che fungevano da zavorra per garantire l’accesso alla pompa, spesso otturata dalla peluria che la pelle di renna dei sacchi a pelo perdeva senza sosta. Spostare i sassi era un compito estenuante; col tempo eravamo arrivati a conoscerli uno per uno, e per distinguerli ci bastava saggiarli con le dita. Ancora oggi ne ricordo perfettamente le forme e gli angoli. In condizioni meno disagiate, uno scienziato li avrebbe trovati interessanti dal punto di vista geologico, e come zavorra erano sicuramente efficaci. Ma come pesi da spostare in quel poco spazio erano terrificanti. Non risparmiavano neppure un angolino dei nostri poveri corpi. Un altro disagio che vale la pena menzionare era lo sfregamento sulle gambe degli indumenti bagnati che non cambiavamo ormai da sette mesi. Avevamo l’interno delle coscie piagato e il tubetto di crema Hazeline che avevamo a disposizione poteva ben poco contro il dolore, ulteriormente accresciuto dall’acqua salata. Ci sembrava di non dormire mai, ma la verità era che ci appisolavamo solo a tratti, e solo per essere svegliati di continuo da nuovi disagi o dalle incombenze consuete. Io, poi, soffrivo a causa della sciatica che aveva cominciato a tormentarmi mesi addietro sul ghiaccio” (5).

Il drammatico realismo di questa narrazione è temperato e per così dire alleggerito da fini osservazioni psicologiche, come quella che sono le piccole sfortune altrui a destare principalmente il nostro senso dell’umorismo; osservazione degna di un osservatore pensoso dell’animo umano, più che di un semplice uomo d’azione (6). Ma le pagine più avvincenti del libro sono quelle in cui Shackleton racconta l’epica marcia attraverso le montagne della Georgia Australe, un’impresa ritenuta irrealizzabile dagli stessi balenieri di Grytviken che pure erano i migliori conoscitori di quell’isola selvaggia e lontanissima da ogni altra terra del mondo abitato. Si è trattato, in effetti, di un’impresa pressoché disperata, che solo la coscienza di costituire l’ultima possibilità di salvezza per i compagni rimasti all’isola Elefante (e anche per quelli lasciati sul versante opposto della Georgia, e incapaci di proseguire a piedi) ha dato loro la forza di compiere, contro tutti i pronostici. Un’impresa che, da sola, meriterebbe di essere ricordata negli annali dell’alpinismo e che invece, nel corso di quella drammatica spedizione antartica, non è stata che un singolo episodio, per quanto luminoso, di una serie di altre imprese non meno spettacolari, compresa la traversata su una barca scoperta attraverso uno dei mari più infidi e tempestosi del globo (7).

“La giornata si preannunciava bella, e la marcia sulla neve soffice ci aiutò a scaldarci. Davanti a noi si estendevano i crinali e gli speroni di una catena montuosa, la catena trasversale che avevamo individuato dalla baia.” […]

“Un gradino dopo l’altro, ci spostammo lateralmente intorno alle pendici di una dolomia che bloccava la visuale a nord. Ci trovammo davanti lo stesso precipizio. In lontananza a nord-ovest sembrava esserci un declivio innevato che forse ci avrebbe condotto più in basso. Ridiscendemmo quindi la pendenza che avevamo impiegato tre ore a risalire, e benché nel giro di un’ora fossimo in fondo, a quel punto cominciavamo a sentire la fatica. Da gennaio non avevamo quasi più camminato, ed eravamo fuori allenamento” […]

“Ci dirigemmo nuovamente verso la cresta e un’altra faticosa arrampicata ci portò in cima. Lo strato di neve era sottile sul ghiaccio bluastro e nelle ultime 50 iarde dovemmo praticare dei gradini. Invano i miei occhi scandagliarono le profondità del precipizio in cerca di un passaggio che ci portasse in fondo. Il sole aveva sciolto la neve, costringendoci a procedere con molta cautela. Alle nostre spalle la nebbia andava di nuovo infittendosi, per incontrarsi nella valle con quella proveniente da est. Il grigiore del cielo ci disse che dovevamo scendere al più presto, se volevamo evitarla.

“Il crinale era tempestato di picchi che ci impedirono di vedere con chiarezza su entrambi i lati; non potevamo far altro che proseguire nella stessa direzione. Il pomeriggio era alla fine e la nebbia si avvicinava minacciosa da est. Eravamo a 4.500 piedi di altezza, e la notte sarebbe stata fredda. Non avevamo tende né sacchi a pelo e le traversie di quei mesi avevano logorato i nostri abiti. In lontananza, nella vallata che si apriva sotto di noi, scorgemmo chiazze erbose nei pressi della costa. Se fossimo riusciti a scendere, avremmo potuto scavare una buca nella neve e foderarla d’erba per farne un giaciglio di una qualche comodità. Tornammo indietro, e dopo una deviazione raggiungemmo la sommità di un altro crinale. La luce stava sbiadendo e dopo un’occhiata mi girai a chiamare gli uomini che mi guardavamo ansiosi. Mi raggiunsero rapidamente. Davanti a noi, la terra digradava in una ripida pendenza di cui la nebbia e la poca luce impedivano di vedere il fondo, ma proprio a causa della nebbia non potevamo perdere tempo. Iniziammo la discesa, e la neve via via sempre più morbida ci disse che la pendenza si andava addolcendo. Ormai tornare indietro era impensabile, così ci slegammo e scendemmo seduti, come fanno i bambini. Un banco di neve in fondo al pendio ci fermò, e lì scoprimmo di essere scesi di almeno 900 piedi in appena due o tre minuti. Alle nostre spalle, le dita grigie della nebbia spuntarono da dietro il crinale, protese quasi a voler catturare gli intrusi. Ma le eravamo sfuggiti.” […]

“La notte ci fu sopra e per un’ora procedemmo in un’oscurità quasi completa, facendo attenzione ai crepacci. Verso le otto, il chiarore che avevamo scorto dietro le cime irregolari si tramutò in una luna piena che disegnò per noi un sentiero argentato. Potemmo così avanzare con maggior sicurezza, fermandoci di tanto in tanto a riposare su tratti di neve più dura rivelati dalla luce. Verso mezzanotte avevamo nuovamente raggiunto un’altitudine di 4.000 piedi, sempre assistiti dalla luna che ci indicava il percorso. Non avremmo potuto desiderare una guida migliore per i nostri stanchi passi.

“La mezzanotte ci trovò nei pressi dell’orlo di un vasto nevaio, costellato qua e là da nunatak che proiettavano lunghe ombre simili a fiumi neri. Un leggero declivio ci attirò a nord-est, nella speranza che in fondo a esso si stendesse Stromness Bay. Eravamo scesi di circa 300 piedi quando il vento ci aggredì. Ormai eravamo in marcia da più di venti ore, una marcia interrotta solo dalle soste per i pasti. Riccioli di nubi veleggiavano sopra le vette di sud-ovest, segnalandoci l’arrivo imminente di neve e vento. Passata l’una, scavammo una buca e dopo averci impilato intorno neve fresca, accendemmo la Primus. Il cibo caldo ci infuse nuove energie e mentre la stufa scoppiettava allegramente Crean e Worsley intonarono vecchie canzoni. Se non con le labbra, aride e screpolate com’erano, ridevamo certamente col cuore.

“Mezz’ora dopo riprendemmo la discesa verso la costa. Ormai eravamo talmente certi di essere sopra Stromness Bay che identificammo come Mutton Island, al largo di Huvik, una sagoma scura che si profilava ai piedi del pendio. Immagino che fosse il desiderio a mettere le ali alla fantasia, perchè ci indicammo a vicenda vari punti di riferimento svelati dalla luce ormai incostante della luna. Ma le nostre speranze dovevano rivelarsi prive di ogni fondamento. Nuovi crepacci ci fecero capire che eravamo su un altro ghiacciaio e presto ci trovammo a guardare verso il suo orlo esterno. Sapendo che non c’erano ghiacciai a Stromness, non impiegai molto a concludere che quello era il Fortune. La delusione fu immensa. Tornammo indietro, di nuovo su per il ghiacciaio, non ripercorrendo esattamente i nostri passi bensì muovendoci verso sud-ovest. Eravamo stanchissimi.

“Alle 5 del mattino eravamo ai piedi degli speroni rocciosi della catena montuosa. Eravamo esausti, e il vento che soffiava dalle vette ci gelava fin nelle ossa. Decidemmo di ripararci sotto una roccia per riposare un po’. Ci sedemmo uno vicino all’altro, stringendoci il più possibile. Quel po’ di neve trasportata dal vento ci lasciò addosso un candido strato sottile. Pensavo che avremmo potuto concederci una mezz’ora di riposo, e di lì a pochi minuti i miei compagni dormivano già. Mi rendevo conto che sarebbe stato pericolosissimo seguire il loro esempio, perché in simili condizioni il sonno diventa spesso l’anticamera della morte. Di conseguenza, cinque minuti dopo provvidi a svegliarli e dopo aver loro assicurato che avevano dormito mezz’ora, diedi il segnale di partenza. Eravamo così irrigiditi che per le prime 200 o 300 iarde procedemmo con le ginocchia flesse. Davanti a noi, s’innalzava una linea irregolare di vette tra cui si apriva un varco. Era il crinale che da Fortuna Bay si allunga verso sud; la nostra strada vi passava attraverso. Una ripida salita ci portò alla cresta e al vento gelido che soffiava attraverso il passaggio.” […]

“Mentre Fean e Worsley scavavano una buca, io mi arrampicai su un vicino rialzo per dare un’occhiata. Alle 6,30 mi sembrò di sentire il fischio di una sirena a vapore. Non volevo illudermi, ma sapevo che era più o meno a quell’ora che i cacciatori di balene presenti nella stazione si svegliavano. Tornai dagli altri per avvertirli, e pieni di eccitazione aspettammo le 7, ora in cui la stazione entrava in attività. Alle 7 in punto risuonò il fischio, trasportato fino a noi dal vento che soffiava tra le rocce e la neve. Non avevamo mai udito una musica più dolce. Era il primo suono creato dall’uomo che sentivamo dal dicembre del 1914, quando avevamo lasciato Stromness Bay.” […]

“Quando ripenso a quei giorni non dubito che la Provvidenza ci abbia guidati non solo attraverso i nevai, ma anche attraverso il mare irrequieto che separa Elephant Island dal luogo del nostro approdo finale. So che durante quelle lunghe, estenuanti trentasei ore di marcia su montagne e ghiacciai senza nome, mi sembrò spesso che fossimo in quattro, e non in tre. Non ne parlai ai miei compagni, ma in seguito Worsley ebbe a dirmi: ‘Sa, capo, avevo la strana sensazione che ci fosse un altro con noi’, e Crean fece una confessione analoga. Si percepisce ‘la povertà delle parole umane, la rozzezza della favella mortale’ quando si cerca di descrivere realtà intangibili, ma la cronaca del nostro viaggio non sarebbe completa senza un riferimento a un tema tanto caro ai nostri cuori.” (8)

Note

1) Cit. in STOCCHETTI, Francesco, Alla conquista del Polo Sud, Bologna, Malipiero, 1966, pp. 61-63.

2) ZAVATTI, Silvio, L’esplorazione dell’Antartide. Storia di un continente, Milano, Mursia, pp. 129-131.

3) FORBES, Lachlan Maxwell, voce Shackleton in Encyclopedia Britannica, ed. 1961, vol. XX, p. 432.

4) SHACKLETON, Ernest, Ghiaccio, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 100-101.

5) Idem, pp. 191-194.

6) Cfr. LAMENDOLA, Francesco, Sulla natura del riso, in Alla Bottega, Milano, 1988, n. 5, pp. 21-23.

7) Un apparato iconografico relativo alla traversata con la James Caird è contenuto in PETTER, Guido – GARAU, Beatrice, L’esplorazione dell’Antartide, Firenze, Giunti-Marzocco, 1977, pp. 106-111.

8) SHACKLETON, Ernest, Ghiaccio, cit., pp. 217-227.

Vedi anche:

Il viaggio incredibile di Ernest Shackleton.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

3 Responses

  1. […] Endurance di Alfred Lansing, che riguarda però esclusivamente la spedizione antartica di Shackleton più nota) i troppi errori lasciano un dubbio latente su quel che si legge, anche quando è […]

  2. […] anni ‘50, poi il libro di Alfred Lansing sul naufragio dell’Endurance e la vicenda di Shackleton di cui sapevo solo per l’omonima canzone di Battiato, e poi ancora la storia tragica di Scott […]

  3. […] è l’ideale per immergersi nella lettura di una sintesi della sua avventura a questo link (fino alla sezione in grassetto relativa alla sua terza spedizione, quella con la nave […]

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