Impermanenza e distacco nello stoicismo romano e nel buddhismo delle origini – 2

(continua).

Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana 3. – La concezione del dukkha nel buddhismo, comprendendo le più svariate sfumature della sofferenza, designa complessivamente la condizione di limitazione in cui l’uomo inconsapevolmente si rinchiude, immiserendo la sua interiorità e rendendo infelice la sua vita. La “sete” quale causa karmica del dolore, è conosciuta come un conato – incoercibile per l’uomo ordinario – che concerne tanto l’esistenza quanto la non-esistenza, tant’è che lo stesso desiderio di estinzione della vita, ossia la tendenza al suicidio, è spiegata dal Buddha come “non conoscenza della vera estinzione”, ossia appunto l’estinzione della sete, il “bruciare” gli attaccamenti (Majjhimanikayo,1,1).

Nel Dhammapada – raccolta di insegnamenti del Buddha che costituisce uno dei testi più antichi della letteratura delle origini – il XXIV capitolo è dedicato al tema della “sete” ed in esso è esposto il nesso causale col dolore. Particolarmente significativi sono i passi 334, 342 e 343.

Genevienne Pecunia (cur.), Dhammapada. La via del Buddha XXIV, 334. Nell’uomo che vive con mente distratta la sete cresce come una liana: egli guizza di vita in vita, come la scimmia che desidera un frutto (salta di albero in albero).
XXIV, 342. Dominati alla sete, gli uomini balzano qua e là come lepri incappate nella rete. Soggetti a vincoli e legami, continuamente ed a lungo vanno verso il dolore.
XXIV, 343. Dominati dalla sete, gli uomini balzano qua e là come lepri incappate nella rete. Di conseguenza cacci lontani da sé il monaco la sete, col volere il distacco interiore.

La sete, generatrice del dolore, alligna nella mente distratta, nell’uomo che non ha vigilanza interiore, che non ha più il ricordo di se stesso. E’ un tema, quello dell’essere svegli, presente in molteplici tradizioni spirituali e sapienziali sia orientali che occidentali, tant’è che lo si ritrova anche nei Vangeli canonici, ove permangono tracce di una dottrina esoterica. Questo rapporto sete-dolore si incontra anche nello Stoicismo romano. Nel capitolo IV delle Diatribe, Epitteto illustra un insegnamento filosofico di grande interesse. Ciò che peggiora l’uomo, ciò che lo rende basso non è il mondo esterno ma il desiderio che non è solo quello delle cariche, degli onori e del potere ma anche il desiderio di quiete, di tempo libero, di viaggi, di cultura. Quale che sia l’oggetto esterno – il potere o l’assenza di potere – ciò che schiavizza l’uomo e lo limita costituendo causa di infelicità è il fatto stesso di conferire un valore a quell’oggetto. Dice Epitteto “ Che differenza passa tra desiderare di essere senatore e desiderare di non esserlo?” In Diatribe IV, 8, 33 il filosofo ammonisce a rimuovere completamente il desiderio e dirigere l’avversione ai soli oggetti che dipendono dalla prohàiresis, la scelta morale di fondo, abbandonando il desiderio anche verso l’assenza di cariche pubbliche, di poteri, onori e ricchezza. Il desiderio è dunque la radice dell’infelicità quale che sia il suo oggetto, fosse anche un oggetto lontano da prospettive mondane.

Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio Questo tema della semplificazione della vita e della essenzialità dei bisogni, limitati a ciò che è necessario secondo natura, è presente in modo spiccato in Seneca, comparendo frequentemente nelle sue Lettere a Lucilio ed unendosi al biasimo verso coloro che sono schiavi di desideri smodati, di appetiti insaziabili, siano essi diretti al potere, alla fama o al piacere di trastullarsi nei propri vizi. L’invito alla semplicità della Lettera 5, la distinzione fra beni veri e falsi dell’uomo nella Lettera 8, il monito della Lettera 49 a non sprecare la nostra vita in cose vane, sono solo alcuni degli esempi più salienti di questa impostazione filosofico-morale. In Epitteto la rimozione del desiderio sembra assumere un carattere più radicale, mentre in Seneca sembra prevalere, complessivamente, il monito a temperare i desideri. La linea di tendenza è comunque identica, seppure con diversità di gradazioni.

Il desiderio incontrollato, come fonte dei mali dell’uomo è dunque un tema comune a buddhismo e stoicismo romano, il che non esime dal cogliere le diversità che pure emergono fra le due correnti. Nel buddhismo la conoscenza causale del rapporto desiderio-dolore si colloca nel quadro di una disciplina ascetica, di una denudazione e semplificazione del principio cosciente che deve portare l’uomo al risveglio, attraverso la pratica della concentrazione, della meditazione e della contemplazione; rispetto a tale indirizzo spirituale la condotta morale non è fine a sé stessa ma propedeutica per l’elevazione spirituale dell’uomo, avendo quindi la sua giustificazione in una finalità ascetico-spirituale.

Marco Aurelio, Ricordi. Testo greco a fronte Negli Stoici romani non si riscontra un riferimento ad una disciplina spirituale di tipo ascetico articolantesi in vari tipi e gradi di pratiche meditative; la dottrina morale trova in se stessa la sua giustificazione, che consiste nell’offrire all’uomo la chiave per trovare la strada di una vita vissuta in modo virtuoso, ossia secondo natura, concentrandosi sull’essenziale, abbondonando smanie smodate ed integrando il concetto di vita virtuosa con la lezione sulla cultura dei doveri che il saggio deve adempiere con forza d’animo in famiglia, nella società e verso lo Stato. Certo, in Seneca è presente il tema dell’otium inteso come vita contemplativa, ma esso assume una sfumatura diversa, relativa al vivere in modo appartato e tranquillo, alla vita degli studi; una contemplazione intesa insomma come disposizione d’animo, ma nulla che possa far pensare a discipline specifiche di meditazione, di dominio della mente. La Lettera 19 sulla vita tranquilla e sui suoi vantaggi è, al riguardo, molto eloquente del modo in cui lo stoicismo romano concepiva la “vita contemplativa”. In Epitteto (Diatribe, I, 6,21) la vita contemplativa viene concepita come sbocco e completamento della natura dell’uomo; la contemplazione consiste nella “comprensione delle cose ed in una condotta di vita in armonia con la natura”, in ciò riprendendo una lezione del filosofo greco Crisippo secondo il quale “L’uomo è nato per contemplare e per imitare il mondo”. I richiami di Marco Aurelio su una disposizione contemplativa nell’osservare il mondo e la vita sono stati già citati e non sono certo i soli presenti nella sua opera, che è tutta pervasa da questa particolare disposizione d’animo nel porsi di fronte al mondo. La diversità di questa concezione della contemplazione rispetto a quella più spiccatamente ascetica e “tecnica” del buddhismo delle origini risulta evidente; eppure, sul piano dello stile di vita, le conclusioni sono affini, soprattutto se il messaggio buddhista si rivolge non al monaco ma al laico che voglia integrare la sua vita quotidiana con un indirizzo etico dai saldi princìpi. Per il laico, per l’uomo che non ha scelto una via di consacrazione sacerdotale, in entrambi i casi la felicità – o almeno la serenità – viene ritrovata in una semplificazione dei bisogni, in un’essenzialità di condotta e nella moderazione degli appetiti.

Questo stile di vita richiede, però, la realizzazione di uno stato interiore, quello del distacco, senza il quale tutto l’insegnamento sul rapporto sete-desiderio-dolore rischia di divenire una mera astrazione concettuale.

Pio Filippani Ronconi, Canone buddhista. Discorsi brevi 4. – La conoscenza del rapporto causale attaccamenti-dolore è presente, come si è già visto, nell’insegnamento del Buddhismo delle origini quale insegnamento centrale. Il distacco, inteso come “distruzione dei vincoli” è presente in Dhammapada XIX, ove il Buddha insegna le caratteristiche dell’uomo giusto, invitando a non lasciarsi ingannare dai tratti esteriori di coloro che dicono di seguire il Dharma (la Legge) ma non la applicano veramente. Il distacco è la via del saggio che procede sempre più profondamente verso la “cessazione dell’agitazione” (nirvana) mentre la via dei vincoli è descritta come la via dello stolto, verso cui il Buddha mostra un atteggiamento di aristocratica compassione (karuna), altro aspetto molto importante della sua dottrina. Negli Stoici romani il tema del distacco ha, analogamente, un rilievo centrale. La preghiera che Marco Aurelio rivolge agli dèi in Ricordi IX, 40 è una bellissima e nobile lezione di aristocratico distacco:

“Un tale prega così:… “Oh! come mi vorrei liberare di quest’uomo!” E tu “Come potrei non sentire il bisogno di liberarmi di lui!” Un altro:” Oh! se non perdessi questo mio figlioletto!” Tu “Oh! se potessi non temere di perderlo!” Conclusione: rivolgi in questo modo le tue preghiere mutandole nel loro contenuto: osserva poi le conseguenze”.

In Seneca, Lettera 96 (sulla serena sopportazione delle sventure) e in Lettera 116 (sull’abbandono delle passioni) incontriamo la lezione del non coinvolgimento nel vortice delle passioni e del dolore, della fermezza d’animo nel fronteggiare le difficoltà della vita ed anche della capacità di cogliere gli aspetti positivi e formativi delle difficoltà che la vita ci pone. Il desiderio di evitare il dolore e le difficoltà è abbandonato, il saggio affermandosi con una capacità di virile distacco.

In Epitteto sono frequenti sia il tema della apàtheia che quello dell’ataraxìa, ossia l’impassibilità e l’imperturbabilità del saggio, in stretta connessione all’ideale della vita tranquilla, del vivere in riposo nel senso di raccoglimento creativo. Comune ai due sistemi è la posizione interiore che scaturisce dalla lezione dell’abbandono dei desideri fino a forme inconcepibili per l’uomo comune, mentre diverso è il contesto spirituale in cui la lezione sul distacco viene situata. Nel buddhismo essa si colloca nel quadro di una disciplina ascetica in cui il monaco non ha appigli in divinità da pregare, il mondo degli stessi dèi rientrando nell’ambito del samsara, il ciclo delle rinascite. La lezione stoica si situa in un quadro che, nel II secolo, è quello del politeismo greco-romano tradizionale, anche se – è bene sottolinearlo – quest’ultimo si risolveva nella concezione del Deus absconditus, al di là di tutti gli dèi con le loro varie competenze e specializzazioni.

Philippe Cornu, Dizionario del Buddhismo 5. – Il buddhismo delle origini, nel suo nucleo centrale, si configura come una disciplina interiore rigorosamente sperimentale ed ascetica, fondata cioè sull’esperienza diretta che il praticante compie delle pratiche meditative e delle proprie potenzialità di auto-superamento delle impurità. Partendo da tale nucleo centrale, esso è anche una filosofia nonché una dottrina morale ed è anche – a livello popolare – una religione con tratti fideistici e devozionali. Lo Stoicismo romano si configura essenzialmente come una filosofia morale, con alcuni richiami ad una prospettiva religiosa che è quella romana tradizionale, come si evince da alcune Lettere a Lucilio di Seneca, nonché da tutto l’insieme dell’opera di Epitteto e dagli aforismi di Marco Aurelio. L’uomo al quale si rivolge è tutto calato nella realtà terrena, nella rete dei doveri familiari, sociali, civici. Il saggio di Seneca che si allontana dalla vita pubblica è comunque un uomo che si è calato nella vita dello Stato ed ha adempiuto ai suoi doveri di civis. Il saggio delineato da Marco Aurelio è comunque un uomo che vive con virile distacco i suoi compiti verso il mondo. Il principe–filosofo scriveva i suoi pensieri sotto una tenda, fra una battaglia ed un’altra, fra una marcia ed un’altra delle legioni che guidava contro i barbari invasori. L’uomo occidentale, nella sua radice romana, è più legato alla storia, il macrocosmo per lui si risolve nel microcosmo che fu prima civitas, respublica e poi Impero. In questa tendenza a calarsi nella storia sta la peculiarità dell’Occidente.

Il saggio delineato nei sermoni del Buddha supera i confini della storia, si colloca in una dimensione di vastità cosmica ove tutti i fenomeni – compresi gli dèi e gli Stati – rientrano nella maya, il velo dell’illusione, lezione di risalenza indiano-brahmanica, la cultura in cui il Saskyamuni comunque aveva avuto la sua formazione.

Eppure, nel leggere gli Stoici e, soprattutto, i Ricordi di Marco Aurelio, certi aforismi, certe riflessioni, suscitano – sul piano della risonanza interiore – l’impressione di un’affinità così spiccata con certi contenuti del buddhismo da non poter escludere l’ipotesi che gli Stoici conoscessero la lezione del Buddha e ne fossero stati influenzati, rielaborandola nelle forme e nei limiti adatti alla psicologia ed alla forma mentis dell’uomo romano. Si veda, ad esempio, il passo IX,10, ove Marco Aurelio espone il concetto del frutto, inteso come una legge naturale, poiché “ciascuna cosa, al momento giusto, porta il suo frutto”, che ricorda, in modo impressionante, la dottrina orientale del karma come legge di causa-effetto, così importante per una “filosofia della responsabilità” sul piano della condotta morale. Oltre questa cauta ipotesi, per il momento non si può andare. Il primo autore occidentale che citi il Buddha è soltanto Clemente Alessandrino.

Le ricerche archeologiche più recenti in India e la relativa letteratura in materia sui contatti fra India e mondo classico e sulla presenza di empori romani fin sulla costa orientale dell’India, stanno ampliando le nostre conoscenze, ben oltre quel che si pensava fino a qualche decennio fa. La documentazione storico-artistica sui reciproci influssi nel campo degli stili artistici, in conseguenza sia delle conquiste di Alessandro Magno che si era spinto fino all’Indo, sia dei traffici marittimi e commerciali fino a tutta l’età imperiale romana (si pensi all’arte indiana del Gandhara che risente di canoni estetici greci o a certi busti rinvenuti a Pompei che sembrano modellati sull’iconografia del Buddha), consentono di non escludere l’eventualità di un contatto fra mondo greco-romano e buddhismo nei primi secoli dell’Impero romano. E’ un terreno di ricerca tutto da approfondire che potrebbe, forse, aprire orizzonti nuovi su un’inedita comunanza culturale fra Oriente ed Occidente.

BIBLIOGRAFIA

FONTI E LETTERATURA SULLO STOICISMO

Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, 2 voll., ed. Mondadori, Milano, 1995. (IBS) (BOL)
Marco Aurelio Antonino, Ricordi (con introduzione di Max Pohlenz e commenti di Marcello Zanatta, traduzione di Enrico Turolla), ed. Rizzoli, Milano, 1997. (IBS) (BOL)
Epitteto, Diatribe Manuale Frammenti (introduzione, prefazioni e parafrasi di Giovanni Reale, tr. it. e note di Cesare Cassanmagnago), Ed. Rusconi, Milano, 1982.
Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, I-II, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1959. (IBS) (BOL)

FONTI E LETTERATURA SUL BUDDHISMO

Canone Buddhista. Discorsi brevi (a cura e con introduzione di Pio Filippani Ronconi), Ed. Utet, Torino, rist. 1986. (IBS) (BOL)
Nagarjuna, Madhyamaka Karika, a cura di R. Gnoli, ed.Boringhieri, Torino, 1961.
Nagarjuna, Lo sterminio degli errori (a cura di Attilia Sironi, introduzione di Raniero Gnoli), Ed. Rizzoli, 1992.
Pio Filippani Ronconi, Le Vie del Buddhismo, Ed. Basaia, Roma, 1986.
J. Evola, La dottrina del risveglio. Saggio sull’ascesi buddista, Ed. Vanni Scheiwiller, Milano, 3^, 1973(ora Ed. Mediterranee, Roma, 1999). (IBS) (BOL)
J. Evola, Il cammino del cinabro, Ed. Vanni Scheiwiller, Milano, 2^, 1972.
J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Ed. Mediterranee, Roma, 1974.
S. Consolato, J. Evola e il buddhismo, Ed. Sear, Borzano, 1995.
G. Tucci, Storia della filosofia indiana, I-II, Ed. Laterza, Bari, 1977.
Dalai Lama, L’arte di essere pazienti. Il potere della pazienza in una prospettiva buddhista (a cura di Geshe Thupten Jinpa), Ed. Neri Pozza, Vicenza, 1998 (con un commento alla Guida al modo di vivere del bodhisattva di Shantideva).
Dalai Lama, La Via del Buddhismo tibetano, Ed. Mondadori, Milano, 1996 (con particolare riferimento ai primi due capitoli sul primo e sul secondo giro della ruota del Dharma, ossia le Quattro Nobili Verità e la dottrina della vacuità).
Namkhai Norbu, Un’introduzione allo Dzogh-Chen (a cura di Adriano Clemente), Ed. Shang Shung, Arcidosso, 1988.
Namkhai Norbu, Il cristallo e la via della luce. Sutra, tantra e Dzogh-Cchen, Ed. Ubaldini, Roima, 1987.

LETTERATURA SUL RAPPORTO FRA INDIA E MONDO CLASSICO

S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, Ed. Biblioteca Universale Laterza, Bari, 1983 (con particolare attenzione all’iscrizione bilingue dell’imperatore Asoka, pp. 232-243 e bibl. ivi).
P. Daffinà, Le relazioni tra Roma e l’India alla luce delle più recenti indagini, Roma, 1995.

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Tratto, per gentile concessione dell’Autore, dal n° 13 de La Cittadella (gennaio-marzo 2004).

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