Il Signore degli Anelli, un romanzo per l’Europa

John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli Chiediamoci: potrebbe un romanzo di puro e semplice intrattenimento, pur ben scritto, ben congegnato, avvincente, produrre tutto quello che Il Signore degli Anelli ha prodotto in tutto il mondo dal 1954 ad oggi, tradotto in 25 lingue e venduto in cento milioni di copie? Io propenderei per il «no». Eppure c’è, per paura delle conseguenze dell’affermazione contraria, chi vorrebbe ridurlo a questo e, di conseguenza, limitarsi ad analizzarlo esclusivamente come un buon romanzo popolare esaminandone stile, trama, personaggi, intreccio, senza andare in profondità. Anzi, indignarsi per chi va oltre, e quasi volerlo proibire.

E quale è questa profondità? È la profondità della fiaba e del mito. Chi dice che così non è in mala fede o non conosce Tolkien. Basterebbe rileggersi integralmente quanto il nostro professore scrisse a Milton Weldman alla fine del 1951 (in La realtà in trasparenza, lettera 131, Bompiani), cioè prima della pubblicazione del romanzo, per far cadere ogni dubbio e capire i reali motivi del «deplorevole culto» (come lo definì in seguito) suo e della sua opera. Nella lettera si parla della sua «passione per il mito (non l’allegoria!) e per le storie fantastiche, e soprattutto, per le leggende eroiche a metà fra la fiaba e la storia». Inoltre, si evidenzia il secondo scopo fondamentale che è alla base del Signore degli Anelli: non solo quello filologico, cioè dare «un necessario retroterra di ‘storia’ alle lingue elfiche» (introduzione all’edizione inglese 1966 del libro, ora nella nuova edizione italiana, Bompiani, 2003), ma anche lo scopo mitico: Tolkien era «costernato dalla povertà della (sua) amata terra (che) non aveva storie veramente sue», sicché aveva «in mente di creare un corpo di leggende più o meno legate, che spaziasse dalla cosmogonia, più ampia, fino alla fiaba romantica, più terrena – da dedicare semplicemente all’Inghilterra, alla (sua) terra». Questa intenzione, nonostante dubbi e incertezze, si concretizzò nel Simarillion, ne Lo Hobbit, ne Il Signore degli Anelli e in tutto quel materiale inedito che il figlio Christopher ha sistematizzato in ben dodici volumi. «Il mito, la fiaba – scrive sempre Tolkien a Waldman – devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi insieme elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma conosciuta del mondo ‘reale’, primario».

Gianfranco de Turris (cur.), 'Albero' di Tolkien Tolkien, dunque, voleva creare un corpus mitico-leggendario-fiabesco per la sua patria, l’Inghilterra. Lo ottenne facendo fermentare «nel terriccio della mente» tutti quei miti dell’antichità nordica che ben conosceva creandone dei nuovi per la Terra di Mezzo, rivisitati alla luce del suo cattolicesimo tradizionale. La sua identificazione con l’anonimo autore del Beowulf, di cui fu esegeta e difensore, che definì un «pagano convertito», chiarisce l’idea: «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica: all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo» (lettera a Robert Murray del 2 dicembre 1953).

Rivisitando i miti dell’antica Europa alla luce del suo particolare cattolicesimo e creando (subcreando) un che di diverso, «nuovo» e unitario, Tolkien ha allora fatto qualcosa di molto di più: non ha dato un corpus leggendario soltanto alla sua nazione, ma all’intero Vecchio Continente, quella Europa che è diventata per noi la nuova nazione, che però è ancora alla ricerca di un sostrato culturale e spirituale che l’unisca veramente nel profondo, al di là della moneta, delle banche e della burocrazia di Bruxelles che in pochi capiscono e accettano. Un mito – ovviamente! – che va al di là, che va oltre, la pura storia avventurosa di Frodo, Aragorn e Gandalf, ma che affonda nel simbolismo della lotta contro un Potere malefico e distruttivo per la restaurazione di un Potere positivo e creatore, nella proposizione di valori eterni ma ormai dimenticati in Europa e in Occidente (amicizia, lealtà, cameratismo, onore, coraggio, disinteresse, dovere, spirito di sacrificio, senso del sacro), nella denuncia degli errori e degli orrori della Modernità sia in Occidente come in Oriente (massificazione, omologazione, tecnocrazia, secolarizzazione, laicismo, assenza di vera libertà, distruzione delle specificità, mancanza del senso del limite, orgoglio della scienza, prevalenza dell’economia, distruzione della Natura), nella riproposta di simboli archetipici (la regalità sacra, il viaggio iniziatico, la trasformazione del sé, il raggiungimento di uno status spirituale superiore, il Male come entità metafisica, l’esaltazione del Bello, il superamento della morte, la persistenza del sacro).

Tutto questo ne Il Signore degli Anelli, un banale romanzotto di avventure irrazionali scritto da un filologo oxoniense, «privo di metodo e tiratardi» (come lo definì il suo amico C. S. Lewis).

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Tratto da Il Tempo del 18 gennaio 2004.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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