Restituire l’onore dovuto all’ammiraglio Lütjens, protagonista dell’epopea della «Bismarck»

gunther_lutjensQuando il cinema d’intrattenimento e la letteratura per il pubblico di bocca buona s’impadroniscono di un soggetto storico non troppo conosciuto nei particolari, c’è da pregare Iddio che il regista o lo scrittore siano, ancor prima che delle persone colte, delle persone oneste: perché, altrimenti, c’è il rischio che milioni di uomini e donne in tutto il mondo facciano propria una deformazione della verità dalla quale non si libereranno più – visto che solo una piccolissima minoranza possiede abbastanza senso critico da indursi ad approfondire personalmente le cose, senza accontentarsi di credere di sapere qualcosa solo perché altri l’hanno detta.

Il regista inglese Lewis Gilbert, firmando, nel 1960, il film Affondate la Bismarck – e dunque a quindici anni di distanza dalla conclusione dell’ultimo conflitto mondiale e dalla schiacciante vittoria degli Alleati -, ha spudoratamente falsificato la verità storica, al solo scopo di lusingare il nazionalismo dei suoi compatrioti e di mirare al successo di botteghino; a dispetto del lusinghiero giudizio del critico Morandini, che parla di un film «avvincente, intelligente e convincente» e gli concede un giudizio estremamente lusinghiero di cinque stelle, si tratta in realtà dell’ennesimo peana alla bontà e giustizia della causa britannica nella seconda guerra mondiale e di una deliberata, maligna denigrazione del nemico, in particolare dell’ammiraglio tedesco Lütjens.

Abbiamo già rievocato la vicenda storica che portò alla distruzione, il 27 maggio 1941, di questa splendida e modernissima corazzata – era stata varata neanche due anni prima, nel 1939, ed entrata in servizio da meno di un anno -, per cui non ritorneremo sopra l’aspetto descrittivo di quella vicenda bellica (cfr. il nostro articolo La crociera e la fine della corazzata «Bismarck» (18 – 27 maggio 1941)). Ci preme invece spezzare una lancia per la riabilitazione della figura morale dell’ammiraglio Lütjens, per affermare il principio che i vincitori non hanno il diritto di falsificare sistematicamente la storia, e ciò non certo per inconfessabili simpatie naziste – simpatie che, del resto, l’ammiraglio tedesco non nutriva affatto, e lo dimostrava in pubblico nell’unica maniera consentita a un soldato deciso a servire comunque il proprio Paese: astenendosi dal saluto hitleriano e salutando sempre e solo alla maniera militare.

Il film di Gilbert Lewis (titolo originale: «Sink the Bismarck»), tratto dal romanzo di G. S. Forrester (ma si legga, per un interessante confronto, il racconto di Dino Buzzati «La corazzata Tod») e interpretato da Kenneth Moore, Dana Wynter e Carl Möhner, si svolge sul filo della commistione tra storia d’amore, con la bella segretaria che s’innamora del capitano Shepard, del servizio operazioni navali, colui che segue da Londra lo svolgimento della caccia alla corazzata tedesca, e la classica storia di guerra e d’azione, alternando le scene nelle stanze dell’Ammiragliato con quelle in mare aperto e distribuendo, in queste ultime, gli abituali ingredienti ad alta spettacolarità e drammaticità, anche se il film è stato realizzato – e questo va detto a suo merito – con mezzi relativamente modesti.

Ma già il fatto che, ogni qualvolta si parla della Germania nazista, bisogni premunirsi dichiarando la propria condanna, politica e morale, di quel regime, è una testimonianza di per sé eloquente del ricatto ideologico permanente nel quale viviamo e al quale siamo talmente assuefatti, da non farci più caso. Una tale dichiarazione preliminare di rifiuto e di condanna non si richiede, infatti, quando si parla di altri sistemi politici i quali, pure, furono atroci, alcuni lontani nel tempo, ma altri anche assai vicini: un esempio per tutti: i Khmer rossi della Cambogia di Pol Pot, autori di un genocidio perpetrato fra il 1975 e il 1979 e costato la vita a un numero di persone che varia fra i due e i sei milioni.

Nel film, dunque, l’ammiraglio Lütjens non solo è un nazista convinto e, perciò stesso, alquanto antipatico, ma viene presentato anche come un pallone gonfiato, un vanaglorioso in cerca di medaglie ed encomi, disposto a giocarsi il destino dei 2.200 uomini a lui affidati solo per ottusa fedeltà agli ordini sbagliati del suo Führer e per una specie di “hybris” che gli deriva dall’essere al comando di una nave dalla potenza mai vista fino ad allora, capace di impegnare una intera flotta britannica per averne infine ragione – “hybris” che lo porterà verso l’inevitabile Nemesi.

Inoltre appare come poco perspicace e, in fin dei conti, poco intelligente, proprio perché ottenebrato dal fatale miscuglio di teutonica presunzione militaresca e di cieca dedizione al nazismo e al suo “folle” capo (che sarà stato anche folle, oltre che indubbiamente criminale, però non era uno stupido né un incompetente in fatto di cose militari, se si vuol dire pane al pane e vino al vino), cioè proprio quel che non era e che tutte le fonti, concordemente, negano essere stato; al contrario, sappiamo che era un ufficiale molto preparato e intelligente, uno dei più apprezzati comandanti della Marina germanica e un degno rappresentante della miglior tradizione militare tedesca.

Come se tutto ciò non bastasse, per rendere ancor più negativo il suo personaggio gli sceneggiatori del film hanno voluto contrapporlo a quello positivo del comandante della «Bismarck», Ernst Lindemann, classico stereotipo del tedesco “buono” (anche i Tedeschi hanno un’anima, dopotutto, benché non sembri): pacato, ragionevole, di animo forte, malinconicamente rassegnato a causa dell’obbedienza verso un superiore stupido e incapace. La coppia Lütjens-Lindemann, dunque, viene presentata a bella posta come la classica coppia oppositiva, con una forzatura ideologica deliberata e furbesca: un po’ come fanno quei critici letterari i quali, in buona o in mala fede, non avendo capito assolutamente niente del Don Chisciotte della Mancia, continuano stancamente a ripetere, solo perché lo dicono tutti, che lo scudiero Sancio Panza è tutto l’opposto del suo nobile signore – nonostante che una dei più fini intelligenze spagnole, Miguel De Unamuno, abbia messo in guardia da una simile interpretazione, tanto povera e riduttiva, quanto banale.

Per restituire i suoi veri tratti della personalità dell’ammiraglio Lütjens, sia sotto il profilo umano che professionale, dell’ammiraglio Lütjens, bisogna cedere la parola al saggista scozzese Ludovic Kennedy, autore di una seria e documentata ricostruzione storica di quella vicenda della seconda guerra mondiale (in: L. Kennedy, Caccia alla Bismarck; titolo originale: Pursuit, 1974; traduzione dall’inglese di Franco Lenzi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 26-27):

«Günther Lütjens aveva allora [cioè nel 1941] 51 anni, era alto, magro, allampanato, con i capelli corti come la maggior parte degli ufficiali tedeschi, con un’espressione ferma e severa che qualcuno diceva nascondesse un caustico “sense of humour”. Nato a Wiesbaden, figlio di un commerciante, era entrato nel collegio navale di Kiel nel 1908, si era classificato ventesimo in un corso di 160 allievi, si era creato la reputazione di riuscire a conoscere a fondo qualunque cosa studiasse. Aveva combattuto sulle torpediniere nella prima guerra mondiale, al largo delle Fiandre e nella Manica, negli anni Trenta aveva comandato l’incrociatore “Karlsruhe” in un viaggio alle Americhe, mentre Dönitz comandava l’“Emden” in un viaggio in Estremo Oriente. A loro ritorno i due incrociatori si incontrarono a Vigo, in Spagna, e rientrarono in Germania. In seguito Lütjens divenne capo del personale e ammiraglio comandante delle torpediniere. Durante la campagna di Norvegia del 1940 aveva sostituito l’ammiraglio Marschall sullo “Gneisenau” come comandante della flotta ed era stato decorato con la croce di cavaliere.

Lütjens era un uomo dedito completamente al servizio, coraggioso, sincero, stoico, austero, taciturno come un monaco cistercense. Non era nazista, rendeva a Hitler il saluto navale e non quello nazista, portava sempre uno spadino da ammiraglio della vecchia marina imperiale, nessuno con la svastica. Il suo amico ammiraglio Konrad Patzig, che gli succedette nella carica di capo del personale, lo definiva “uno dei più capaci ufficiali della marina, molto logico e perspicace, , incrollabile nelle sue decisioni e una personalità affascinante per chi riusciva a conoscerlo”. Fece poco. Per coloro che lo ammiravano, fu schivo e ritirato, per gli altri indifferente e distaccato. Era dell’opinione che i giovani ufficiali dovessero dedicarsi esclusivamente alla marina e quando era capo del personale fu inflessibile a proposito della norma secondo la quale nessun ufficiale poteva sposarsi finché non avesse raggiunto un certo livello di stipendio. Egli stesso mise in pratica quello che predicava: si sposò solo a quarant’anni e fu un matrimonio molto felice; ora aveva due figli e ne aspettava un terzo. Sua sorella aveva sposato il suo amico capitano di vascello Backenköhler, già capo di stato maggiore di Marschall».

Un militare competente, dunque, e straordinariamente preparato; un uomo probo e scrupoloso; un padre di famiglia e un cittadino esemplare: è dunque ancora tanto difficile ammettere cose del genere, cioè che non tutti i soldati e gli ufficiali tedeschi i quali combatterono nella seconda guerra mondiale furono dei mostri di barbarie e crudeltà? Sì, è difficile, e questo perché non si parla quasi mai di “ufficiali e soldati tedeschi”, ma di “ufficiali e soldati nazisti”, come se la Wehrmacht o la Kriegsmarine si potessero identificare con il partito hitleriano; quando è noto che l’una e l’altra, ma specialmente la seconda, erano piene di individui che non nutrivano alcuna simpatia con il regime allora al potere. Si sa che è più facile semplificare le cose e ridurre la storia ad una rappresentazione tutta in bianco e nero, specialmente se si ha la ventura di trovarsi dalla parte “giusta”, cioè fra gli eredi dei vincitori, i quali camperanno di rendita almeno fino alla prossima guerra (che speriamo non ci sarà mai) e, intanto, sanno che la strada è libera per ogni genere di auto-celebrazione e per ogni sorta di calunnia verso l’ex nemico sconfitto.

C’è poi un’altra ragione a spiegare questa particolare atteggiamento culturale, in parte intrecciata ad essa, ma in parte diversa. In Europa, e specialmente in Italia (ma escludendo la Gran Bretagna e, più ancora, gli Stati Uniti) esiste una forte tendenza anti-militarista, che nega alla radice l’esistenza di qualunque virtù nel codice d’onore dei militari di professione; e, a maggior ragione, nega che possa esservi stato nei militari di tre generazioni fa, quando la democrazia era in lotta col fascismo e ne appariva la perfetta antitesi, o, quanto meno, voleva presentarsi come tale.

Oggi, un lettore di romanzi o uno spettatore cinematografico europeo non trovano niente di strano nel fatto che, in una scuola americana, tutti i ragazzi scattino in piedi quando si odono le note dell’inno nazionale e viene alzata la bandiera a stelle e strisce; ma avrebbero dei forti mal di pancia se una simile scena fosse ambientata in una scuola tedesca o italiana. Il ricordo del nazismo e del fascismo è entrato a tal punto nei cromosomi della nostra cultura, che qualunque riferimento alla Patria, all’esercito, all’onore militare, suonerebbe come una intollerabile provocazione o, quanto meno, come una imprudente e discutibile forma di nostalgia per un passato che merita di essere cancellato e seppellito una volta per sempre. Ammettere che la società europea, per secoli, abbia alimentato il proprio spirito e la propria cultura anche con il codice dell’onore militare; che un vero militare non era semplicemente un macellaio di professione, ma un uomo educato alle più alte virtù civili, alla lealtà, all’abnegazione, al sacrificio, questa è una cosa che darebbe troppo fastidio ai nostri intellettuali e, di conseguenza, alle masse, che negli intellettuali, specie se “progressisti” e “liberali”, vedono sempre i modelli di riferimento per giudicare il vero e il falso. Ecco perché parlare degli “eroi di El Alamaein” sarebbe, oggi, terribilmente imbarazzante, anche e soprattutto per la nostra classe politica: non è imbarazzante strisciare davanti alla superpotenza americana, come avvenne nel caso dell’incidente alla seggiovia del Cermis, ma è imbarazzante ricordare i nostri soldati e ufficiali che caddero sul campo di battaglia facendo il loro dovere verso la Patria, e che, molto spesso, non erano affatto fascisti.

Un imbarazzo ancor più grande si registra davanti al dovere dell’equanimità verso i soldati e gli ufficiali tedeschi della seconda guerra mondiale. Essi sono i cattivi designati a recitare eternamente la parte di simboli del male, del Male Assoluto. Che ufficiali come Günther Lütjens fossero dei galantuomini, oltre che dei professionisti splendidamente preparati, è duro da ammettere, e, quando è proprio necessario, lo si fa molto a denti stretti. Non è forse vero che nella Germania hitleriana non può esservi stato niente di buono? Ecco perché Lütjens DOVEVA essere un borioso nazista, e Hans Langsdorff, il valoroso e sfortunato comandante dell’incrociatore «Graf von Spee», morto suicida dopo l’autoaffondamento della sua nave, DOVEVA essere un debole o un mezzo squilibrato…

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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