Quel grande punto interrogativo di nome William Shakespeare

Come mai il monumento funebre di Shakespeare, una scultura raffigurante un mercante con un sacco di grano tra le mani, è stato trasformato, circa un secolo dopo la sua morte, in modo da apparire come quello di uno scrittore che impugna con la destra una penna d’oca?

Come mai egli non insegnò a sua figlia neppure a leggere e scrivere, tanto da costringerla a firmare con una croce, come facevano gli analfabeti totali, proprio lui che era il più grande scrittore d’Inghilterra del suo tempo (e di ogni tempo)? Come mai non è rimasta alcuna traccia dei suoi studi all’università di Oxford, o a quella di Cambridge, o presso qualunque altra università inglese del suo tempo?

Come mai non sono rimaste tracce certe e documentate del suo ventennale soggiorno londinese, né della sua attività di attore o di commediografo, da parte dei suoi contemporanei? E come mai nessuno ha scritto il suo elogio funebre, o composto un sonetto in sua memoria, o registrato la sua morte nelle opere storiche del primo Seicento inglese? E come mai non ha lasciato in testamento un solo libro e non ha dato disposizioni per i futuri proventi delle venti opere non ancora pubblicate che andavano sotto il suo none?

Perché un uomo del suo livello spirituale aveva intentato causa contro dei compaesani che gli dovevano somme di denaro modestissime, quasi insignificanti; e perché giunse ad avanzare l’odiosa proposta di chiudere i terreni da pascolo comuni, unico sostegno delle famiglie più povere, proposta che venne respinta dall’amministrazione comunale di Stratford-on-Avon?

Dovrebbe essercene d’avanzo per insospettire chiunque non sia talmente imbevuto di pregiudizi, da considerare una specie di delitto di lesa maestà levare alcuni interrogativi sulla biografia di Shakespeare e prendere in esame la possibilità che non sia il figlio del guantaio di Stratford-on-Avon il vero autore delle opere che vanno sotto il none di William Shakespeare, le quali certamente appartengono ad una personalità artistica dalla statura gigantesca.

Ma avete mai provato anche soltanto a sfiorare la questione con un Inglese, specialmente con un professore di letteratura? Immediatamente vedrete il vostro interlocutore levarsi sdegnato e fremente in nome dell’orgoglio nazionale offeso: come se non fosse lecito ad alcun mortale avanzare riserve di alcun genere sul nome della perla più smagliante di quel firmamento letterario che risplendette durante il regno della «grande» Elisabetta (altro personaggio dalla grandezza quanto meno discutibile, ma altrettanto glorificato dagli storici inglesi, al punto da divenire più o meno intangibile ad ogni ombra di critica).

Eppure, da sempre circolano, sottovoce, i nomi dei possibili o probabili candidati alla vera paternità delle opere immortali che vanno sotto il nome di William Shakespeare: da Francis Bacon, lo spregiudicato filosofo padre dello scientismo («sapere è potere») e coinvolto in oscuri scandali politici e finanziari; a Christopher Marlowe, altro grande poeta e scrittore di teatro; a Edward de Vere, diciassettesimo come di Oxford, il cui stemma si fregia di un leone che regge una lancia (e la parola Shakespeare significa appunto «scuoti-lancia»); a Walter Raleigh, il navigatore e scrittore, mandato a morte nel 1618 per aver saccheggiato i presidi spagnoli in America meridionale; al conte di Rutland.

Ciascuno di essi, se si valutano i documenti in modo obiettivo, ha più probabilità di essere stato l’autore delle opere oggi note sotto il nome di William Shakespeare di quante non ne abbia l’oscuro mercante di Stratford-on-Avon, della cui vita poco o niente sappiamo; che non viaggiò mai fuori dell’Inghilterra, a quanto ci risulta; del cui soggiorno londinese i suoi contemporanei non sembrano essersi accorti; nella cui casa non fu trovato neanche un libro, dopo la sua morte; e la cui scomparsa destò così poca emozione, per non dire che passò del tutto inosservata.

Insomma, l’enigma di Shakespeare è tale che avrebbe dovuto stimolare al massimo la curiosità degli storici e degli studiosi di letteratura. Invece, su di essa la cultura accademica di tutto il mondo ha steso una cortina impenetrabile di silenzio, al punto che il solo alludervi è considerato politicamente scorretto e, come minimo, segno di una scarsa preparazione culturale e di una imperdonabile mancanza di metodo e di senso storico.

In poche parole, avanzare anche solo qualche interrogativo circa l’attribuzione delle opere shakespeariane sembra essere una manifestazione di imperdonabile leggerezza e di poca serietà scientifica; più o meno come lo sarebbe parlare dei dischi volanti in un serioso congresso di astronomi accademici, o come accennare al problema della possibile retrodatazione della Sfinge, in un austero simposio di egittologi.

Ha scritto il saggista Paolo Cortesi nel suo libro Manoscritti segreti (Roma, Newton & Compton Editori, 2003, 2006, pp. 207-09, 211-14):

«Tutti conoscono, almeno per sentito dire, il romanzo I promessi sposi. Ora, immaginate che di questo immortale capolavoro della letteratura italiana si sappia solo che è opera di un tal Alessandro Manzoni. Ma immaginate ancora che il nome di questo scrittore appaia in forme diverse in svariati documenti dell’Ottocento: nell’atto di battesimo è scritto Manzoni; ma nel certificato di matrimonio leggiamo Manzini; in una citazione di tribunale appare Monzone; in una ricevuta d’un prestito il nome è Manizoni.

Di questo fantomatico scrittore non sappiamo praticamente nulla: ignoriamo gli studi che ha seguito, la formazione che ha avuto e che lo ha portato a realizzare un romanzo così grandioso e artisticamente impeccabile; non sappiamo nulla di ampie porzioni della sua vita: interi anni ci sono assolutamente ignoti e non sappiamo, né forse sapremo mai, di che visse questo uomo., cosa leggesse, chi frequentasse.

La vita di questo Manzoni che i pochi documenti ci restituiscono è del tutto simile alla opaca esistenza di un piccolo possidente del suo tempo: compra, mercanteggia, querela un debitore insolvente per cifre irrisorie.
Apparentemente non scrive nulla, perché di suo pugno restano solo poche firme tracciate con una grafia impacciata e insicura che suggerisce poca dimestichezza con penna e inchiostro. Quando muore non lascia una lettera, un manoscritto, un appunto, neppure un solo libro da lui posseduto, proprio come faceva l’enorme maggioranza degli analfabeti di quel tempo. I suoi contemporanei sembrano non accorgersi neppure della sua scomparsa. Eppure quest’uomo dall’esistenza grigia e anonima ci ha lasciato un’opera di valore assoluto, una colonna della cultura europea.

Immaginate tutto questo, e concludete che c’è qualcosa di strano, qualcosa che non va. È esattamente ciò che è accaduto a William Shakespeare, autore di un’opera imponente ma mistero biografico quasi totale.

Anzi, più che di mistero dovremmo parlare di incongruenza, perché le poche cosa che sappiamo dell’uomo chiamato William Shakespeare sono tipiche di un modesto uomo qualsiasi dell’Inghilterra elisabettiana, non di un gigante dell’arte e del pensiero.

Sembra, insomma, che l’uomo che ha formato le opere shakespeariane non sia stato degno di esserne l’autore: l’ipotesi può apparire ridicola, ma esistono molti elementi che la rendono ben più che una astrusa fantasia. (…)

I contemporanei hanno praticamente ignorato l’esistenza di Shakespeare; a parte rare e telegrafiche citazioni, la maggioranza dei documenti del tempo non dà la minima testimonianza di quell’uomo.

Philip Henslowe, un impresario teatrale londinese fondatore del Rose Theatre di Bankside, ha lasciato un diario che, dal 1591 al 1609, raccoglie una quantità di informazioni sulla vita teatrale di cui egli era un personaggio principale.

Con lo scrupolo del manager, Henslowe elenca pagamenti agli attori e agli autori. Vi troviamo citati Chapman, Chettlee, Day, Dekker, Drayrton, Haughton, Heywood, Jonson, Marston, Middleton, Munday, Porter, Rankins, Rowley, Wadeeson, Webster e Wilson: non una parola relativa a Shakespeare.

Edward Alley, che fu socio e genero di Hensowe e attore lui stesso, ha lasciato memorie molto accurate della sua attività, nelle quali compaiono praticamente tutti i nomi della vita teatrale dell’epoca, con una minuziosa lista di quanti ebbero rapporti, sia come attori che come autori, con il teatro dei Blackfriars, del Fortune ed altri: nei due volumi delle memorie di Alley, il nome di Shakespeare non appare mai.

Ben Jonson, nella sua opera Discoveries, del 1637, presenta un elenco di personalità importanti che ha conosciuto: il nome di Shakespeare non c’è.

Shakespeare, così assicurano tutte le biografie, visse a Londra per più di un ventennio. In quel periodo, vi vivevano anche personalità dell’arte e della cultura quali Spenser, Bacon, Cecil, Walter Raleigh, Hobbes, Drake, Hooker, Camden, Inigo Jones, Laud, Pym, Hampden, Selden, Herbert of Cherbury, Walsingham, Coke, Donne, Wotton, Walton: perché nessuno di costoro ha lasciato una pur minima testimonianza relativa a Shakespeare? La biografia “ufficiale” attesta che Shakespeare si fece conoscere prima come attore e poi come drammaturgo, ma nessun documento dell’epoca ci dice in quali parti egli abbia recitato, e solo nel 1709, un secolo dopo la morte di Shakespeare, Rowe afferma che costui avrebbe recitato nell’Amleto, nella parte del Fantasma.

Si vuole che Shakespeare avesse nel teatro la sua principale fonte di guadagno: perché allora non esiste nessun documento relativo che certifichi un solo penny ricavato dalla recitazione o dalla scrittura?

Il 28 giugno 1613 un furioso incendio distrusse il teatro Globe. In una relazione pubblicata sull’incidente vi sono alcuni riferimenti a Richard Burbage, a Henry Condell e ad altri, ma non una parola su Shakespeare.

Lo storico Wiliam Camden nel suo libro Britannia (1610) descrive piuttosto ampiamente Srtratford-on-Avon, ma non parla mai di Shakespeare, neppure per ricordare soltanto che quella era la sua città natale.

Lo stesso Camden scrisse 7000 parole sugli eventi dell’anno 1616, ma non ne riservò neppure una per annotare la morte di Shakespeare, avvenuta nell’aprile di quell’anno.

Identico perfetto silenzio da parte dello storico Stowe, che nei suoi Annals non riporta la scomparsa di Shakespeare.

Il 25 marzo 1616, Shakespeare fa testamento. In esso, come sappiamo, non c’è il minimo accenno a nulla che possa riguardare, anche vagamente, il teatro e la letteratura.

Eppure, Shakespeare lasciava venti opere inedite. Per la legge sui diritti d’autore in voga a quel tempo, il common law copyright, l’autore di ogni composizione letteraria aveva l’esclusivo diritto di trarne guadagni per primo; per cui, ogni testo inedito era protetto ed il relativo beneficio economico spettava solo all’autore o agli eredi.

Shakespeare, che pure trascinava in tribunale dei disgraziati per meno di due scellini, inspiegabilmente non lasciò alcuna disposizione relativa ad opere letterarie che avrebbero potuto far guadagnare molto denaro agli eredi; la moglie, ad esempio, o l’amatissima figlia Susanna.

Inoltre, nel Seicento i libri non erano ancora popolari e a buon mercato; è verosimile che un drammaturgo dovesse avere qualche volume in casa e dovesse averne una certa considerazione; eppure, nel testamento di Skhakespeare non vi è il minimo accenno alla carta stampata. Curioso, vero? Un po’ come se nel testamento del più grande filatelico non vi fosse nemmeno una parola sui francobolli…

In un’epoca in cui gli elogi funebri erano di moda, non ne apparve nessuno per Shakespeare, la cui morte fu ignorata da tutto il mondo letterario del suo tempo. Quando Ben Jonson morì, si contarono più di cinquanta elegie commemoranti la scomparsa del poeta; non ne fu fatta nessuna per Shakespeare. E Jonson, che pure secondo Sidney Lee era uno dei più cari amici di Shakespeare, non scrisse mai una sola parola su Shakespeare se non sette anni dopo la sua morte, nel 1623, in occasione della pubblicazione della prima raccolta delle opere attribuite a Shakespeare, nota come The First Folio.

E ancora, nel suo testamento Skhakespeare lascia diversi anelli ed altri oggetti per ricordo ad amici, quali Sadler, Raynolds, Heminge, Burrbage e Condell: perché non lascia nulla a Ben Jonson che tuttavia era il suo più intimo amico?

I misteri non cessano neppure con la morte dell’oscuro figlio del guantaio. Shakespeare venne sepolto il 25 aprile 1616 nella chiesa della Santa Trinità a Stratford. In un periodo non precisato, fra il 1616 ed il 1622, probabilmente ad opera del genero di Shakespeare, John Hall, venne costruito un piccolo monumento funebre; una specie di tempietto a mensola, affiancato da due colonne su cui stanno due putti, che reca al centro il busto del personaggio. Due disegni ci mostrano come fosse il monumento; essi apparvero nell’opera di William Dugade, Antiquities of Warwickshire (1656), e in una biografia di Shakespeare di Nicholas Rowe (1709). In entrambi i disegni vediamo molto chiaramente un uomo con la barba, i baffi all’ingiù, che posa le due mani aperte e di stese su un sacco (di grano?), simbolo parlante del suo mestiere di merchant. Verso il 1720, questo busto viene cambiato in modo clamoroso: il sacco è trasformato in un elegante cuscino, sul quale si trova posato un foglio trattenuto dalla sinistra di Shakespeare, la cui destra regge una penna d’oca: il commerciante di grano è diventato un raffinato scrittore. E la faccia accigliata del barbuto mercante è ora un volto paffuto, florido, quasi sorridente; i baffoni ala tartara sono adesso dei baffi esili e arricciati all’insù, la barba è sparita ed un semplice pizzetto orna il mento del personaggio.

È importante sottolineare che la fortuna di Shakespeare avvenne soprattutto per merito di sir William Davenant, che ai primi del Settecento “riscoprì” il drammaturgo ben poco popolare ai suoi contemporanei, e lo ripropose come il più grande attore dell’epoca elisabettiana».

In realtà, l’elenco delle stranezze e delle incongruenze della biografia shakespeariana potrebbe continuare a lungo; quelle qui sopra riportate sono soltanto le principali, le più stridenti e vistose, che in nessun altro caso sarebbero state ignorate o minimizzate come è stato fatto, invece, in questo sola ed unica occasione.

Eppure, per la quasi totalità degli storici della letteratura, non c’è assolutamente niente di strano nella biografia di Shakespareare, autore di opere immortali quali Macbeth, Amleto e Re Lear; non esiste alcuna «questione shakespeariana».

Mario Praz, ad esempio, uno dei maggiori studiosi italiani di letteratura inglese, nella sua Storia della letteratura inglese (Firenze, Sansoni, 1960,1982, p. 124), ignora completamente il problema e parte subito dai dati «classici» della biografia generalmente ammessa, che, in effetti, è frutto di un tentativo di collegare rari dati certi, sparsi qua e là a distanza di anni, riempiendo più o meno artificialmente «buchi» abbraccianti lunghi periodi di tempo e incongruenze e inverosimiglianze d’ogni genere.

Nelle circa 100 pagine dedicate a Shakespeare, dedica appena una decina di righe alla questione della paternità delle opere che vano sotto il suo nome:

«… son fioriti ai margini dell’opera shakespeariana parecchi eretici che, partendo dall’idea che Shakespeare fosse un ignorante attore e un mero prestanome, han congetturato che quell’opera non potesse esser dovuta che a un autore estremamente colto, quale il filosofo Francis Bacon, o il conte di Oxford, o qualche altro ancor più problematico candidato. Ma se i dati della vita di Shakespeare sono scarsi di suggestioni e non gittan luce su una personalità così immensa come quella del drammaturgo, bisogna pure riconoscere che essi sono più abbondanti di quanti ne possediamo sugli altri elisabettiani in genere, a eccezione forse di Ben Jonson. Tutt’al più può sorprendere che egli nel testamento non facesse parola di libri».

Tutto in regola, dunque; nessuna stranezza.

Del resto, la parola «eretici» per designare quanti nutrono dubbi sulla identificazione del cittadino di Stratford-on-Avon con l’autore del corpus shakespeariano, la dice lunga sul tipo di atteggiamento mentale che sta dietro una simile impostazione storico-letteraria.

Una volta considerata l’opera di Shakespeare come il paradigma dell’intera letteratura inglese («Tutta la letteratura inglese potrebbe interpretarsi in chiave di questo sommo», scrive Praz, op. cit., p.190), la figura di lui finisce inevitabilmente per assumere connotati quasi sovrumani e, di conseguenza, il suo culto diviene una sorta di religione laica.

Ora, è ben vero che c’è almeno un particolare che fa a pugni con questa interpretazione («Tutt’al più può sorprendere che egli nel testamento non facesse parola di libri»); ma sappiamo, dal filosofo Thomas Kuhn, che, prima che gli specialisti si decidano a rimettere in discussione un determinato paradigma scientifico, bisogna che tali incongruenze divengano legione, e che si faccia avanti, a spiegarle, una teoria più semplice e lineare di quella precedente, la quale non voleva neppure prenderle in considerazione.

E gli studiosi britannici, come la pensano?

Esattamente come gli altri; anzi, con una componente di intolleranza ancor più marcata, trattandosi della maggior gloria letteraria, e non solo letteraria, dell’intera storia britannica.

Certo, vi sono tutti quegli anni oscuri e tutti quei punti interrogativi, che danno un po’ fastidio; ma, infine, niente che non si possa spiegare senza ricorrere a ipotesi eterodosse e gravemente lesive del prestigio di quel sommo (come se ipotizzare una diversa paternità significasse sminuire il valore dell’opera).

Così, ad esempio, ecco come si esprime David Hardman, nel suo volume Shakespeare (titolo originale: What About Shakespeare; traduzione italiana di Maria Gallone, Milano, Garzanti, 1955, pp. 35):

«Forse il modo migliore per accostarsi ai documenti è quello di cercare ciò che essi non ci dicono. La data esatta della sua nascita è ignota (e del resto non abbiamo alcun documento che comprovi la data o sia pure il luogo di nascita di Jonson, Heywood, Dekker, Spenser, nonché di altri contemporanei di Shakespersare. Non sappiamo minimamente come Shakespeare sia stato durante l’infanzia e l’adolescenza. Può darsi che abbia avuto occasione di vedere la regina a Kenilworth o di assistere alla rappresentazione di qualche guitto ambulante sul sagrato di Stratford, ma non esiste alcun documento timbrato che possa comprovare questa o quella ipotesi. Quando si sposò e quale fu il vero nome di sua moglie? Quando se ne andò da Stratford e quel che più conta… perché? Si recò direttamente a Londra (a cavallo o a piedi?). Prese la via di Oxford o quella di Banbury? Qual è l’ordine esatto nel quale furono composti i drammi e quando si ritirò infine per restarvi nell’amatissima Stratford? Chi pagò il monumento eretto in sua memoria nella Chiesa del Sacro Collegio che sorge in riva al fiume Avon, e chi poté dettare la rozza e sgrammaticata iscrizione che vi è incisa sopra? Quante sono le cose che non sappiamo!… ».

E tuttavia, in aperta contraddizione con queste ammissioni, Hardman giunge alla sorprendente conclusione che, nella biografia di Shakespeare, non vi è alcun mistero e che, dopotutto, della sua fase matura (se non di quella giovanile) possediamo abbastanza elementi di certezza, quanti ne potremmo desiderare.

Neppure l’ipotesi «eretica» minima, ossia che si debba fare almeno una distinzione fra le opere drammatiche e le commedie, viene presa in considerazione.

Eppure, solo un genio più unico che raro, come Dante, saprebbe maneggiare i due generi teatrali con eguale padronanza e con risultati così straordinari. Pensare che Amleto e Sogno di una notte di mezza estate siano opera di un identico autore, è qualche cosa che può sembrare perfettamente naturale solo a chi abbia già deciso in anticipo di trattare Shakespeare non secondo i normali criteri della critica letteraria, ma come una sorta di personaggio mitico, infallibile e onnisciente.

Ma esistono indizi che un tale genio universale vi fosse, nella cultura inglese del periodo elisabettiano?

E, se sì, esistono serie e motivate ragioni per identificarlo con l’oscuro mercante di Stratford-on-Avon, che non aveva insegnato a sua figlia a leggere e scrivere neanche la propria firma; che trascinava in tribunale dei poveracci per debiti irrisori; che non aveva un solo libro da lasciare in eredità, nel proprio testamento?

* * *

Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

Condividi:
Segui Francesco Lamendola:
Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

5 Responses

  1. Pietro
    | Rispondi

    Mi piacerebbe sapere il pensiero di kenneth branagh e se ha intenzione di regalarci un opera a proposito
    Incredibile la storia di de vere nel anonymus , ma poco convincente nell,analogia della sua vita con le opere di shake-peare

    • Pietro
      | Rispondi

      Ok grazie

  2. mosley
    | Rispondi

    Sfortunatamente tutti gli interrogativi espressi sono spiegabili, ma proprio tutti. E’ possibile che Shakespeare fosse una sola altra persona, ma non in base a questi soliti “indizi”. In merito all´analfabetismo, di una donna poi, si legga Massimo Fini “La ragione aveva torto” e il significato dell`analfabetismo nell`antico regime. Paradossali le sviste di chi si picca di essere tradizionalista. Ogni singola personalita’ italiana dei secoli in cui si facevano le lingue contemporanee veniva scritta con varie e diverse forme, il paragone con i nostri tempi e’ incredibile. In secondo luogo, ma visto che siamo in Italia, dove non ci sono certo molti poliglotti, chiunque conosca qualche lingua sa che specialmente in inglese, ma anche in tedesco, la trascrizione e’ praticamente affidata al caso a meno che la persona non si conosca bene (Osborne e Osbourne, stessa dizione plausibile poi per Hitler e Hieddler e Hietler e Hüddler). Diversamente si puö dire di tutto, anche convincente (e impossibile allo stesso tempo) che Shakespeare fosse il napoletanissimo Guglielmo Scrollalanza, ma qui siamo nel tabloid, o in RAI

  3. mosley
    | Rispondi

    l´inglese si stava facendo, ben piu’ del fiorentino, nello scontro-incontro tra il vecchio anglosassone e il franco-normanno, senza dimenticare il sostrato celtico e il latino globish (global english) dell`epoca.
    PS: voleva essere: “ma visto che siamo in Italia (…) non conta dal momento che…”.
    Per il resto degli artisti e scrittori (NON guide spirituali) con difetti in campo economico, ecc….che stranezza…

  4. mosley
    | Rispondi

    che il “guantaio di Stratford-on-Avon” non possa essere il vero autore delle opere che “certamente appartengono ad una personalità artistica dalla statura gigantesca” e’ un ragionamento che non appartiene ai secoli in questione, assolutamente inter-classisti, se vogliamo !! “indeuropei” e di alta mobilitä sociale assoluta. Oppure si tratta banalmente di una mentalitä “Vomero vs. Quartieri Spagnoli” (ma potrebbe anche riguardare altri lidi) che non appartiene ad altre terre. Non solo M. Fini ma tutti i vari qualificati in merito sanno che il classismo industrial-borghese non esisteva, (il “monarchismo” contemporaneo e’ cameriere della borghesia industriale finaziaria). I Carlo Magno sposavano la figlia del mugnaio, e gli analfabeti avevano la cultura di un poeta, acculturati oralmente da una serie di possibilita’ che oggi non siamo neanche in grado di immaginare. Tutti condividevano la stessa cultura, la stessa civilta’ e lo stesso sentire. Si era lontani dal bracciante o dall`operaio che venivano allontanati dalla tavola dei padroni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *