Quei fascisti fatti passare per partigiani

Verrebbe voglia di cominciare questa storia parafrasando le parole di Pietrangelo Buttafuoco ne Le Uova del Drago, fortunatissimo romanzo dell’autore siciliano: «Accadde di tutto in Umbria a cavallo tra il 1943 e il 1944».

Immaginando la storia della propria città come una collana di volumi, il tomo relativo alla seconda guerra mondiale a Terni sarebbe certamente quello spinto più in fondo allo scaffale, coperto di polvere e muffa e, una volta aperto, macchiato di macchie scure, secche, organiche. Macchie del sangue versato e sempre senza giustizia ricevuta, sangue di innocenti schiacciati da decine di incursioni aeree, con obiettivi non solo strategici (fabbrica d’armi e acciaieria), spesso anche inutili come case, chiese e scuole, rasi al suolo per obbedire ad una logica di guerra psicologica, di terrore volto a piegare e punire un’Italia che si era arresa da un lato, ma continuava a combattere dall’altro.

Fino al Giugno del 1944, la piccola provincia del centro Italia era annessa alla Repubblica Sociale; il comando germanico, situato a San Gemini, era della Luftwaffe, l’arma cui apparteneva il feldmaresciallo Albert Kesserling.

Macerie in città, sfollati nelle campagne, caos generale, ma autorità locali che, con pochi mezzi e con mille difficoltà, tentano di evitare espropriazioni di materiale bellico ed industriale da parte dei tedeschi, alleati furibondi per l’armistizio e spaventati dalla travolgente avanzata degli angloamericani.

E’ nel caos e nella confusione generale che trovano humus favorevole torbide vicende di vendetta e di morte, ai danni sovente di inermi cittadini, sospettati di simpatie per la parte politica allora perdente.

Lo scorso giugno Pietro Cappellari (ricercatore di Nettuno ed autore di saggi sulla battaglia di Anzio e la resistenza nell’area umbra e reatina) e il Centro Studi Nadir di Terni resero pubblici gli atti di sottomissione di comandanti ‘garibaldini’ al Duce, malgrado essi fossero stati arrestati per reati che si risolsero in assoluzione per insufficienza di prove.

Rinnegare il passato comunista per evitare qualche mese di prigione, poiché il dolo stava unicamente nell’aver distribuito copie di un giornale clandestino, roba da far rivoltare nella tomba ‘luminari’ della dottrina comunista come Bordiga e Gramsci.

Già, Gramsci. Chissà cosa avrebbe detto il padre politico de L’Unità e dell’Ordine Nuovo di questa storia e dei suoi drammatici sviluppi.

Caduto Mussolini gli atti di sottomissione finiscono negli archivi; ben altre sono le necessità della popolazione e dei capi dell’antifascismo, dal reperimento dei mezzi di sussistenza all’organizzazione delle formazioni, in vista di ulteriori eventi, che non tarderanno a manifestarsi.

Poi, nel dopoguerra, l’oblio. Dimenticate le abiure, dimenticati morti, la cui fine è stata orrenda. Il silenzio, squarciato anni dopo da libri subito tacciati di becero revisionismo.

Mentre Terni assisteva a strade e rotatorie intitolate a partigiani rei di assassinii lontani dalla guerra (un sindacalista che lotta contro le espropriazioni tedesche, un ottantenne, una ragazza di sedici anni, Iolanda Dobrilla, violentata e fatta saltare con una granata, un comandante badogliano dissidente sparito nel nulla) , Nadir e Pietro Cappellari aprivano una nuova crepa nel passato cittadino: nomi di caduti della RSI sulla lapide della brigata “Antonio Gramsci’, esposta a Palazzo Farini.

Un tempo sede podestarile, Palazzo Farini ospita da anni la biblioteca comunale. Sul lato dell’edificio adiacente a corso Vecchio, una grande lapide marmorea, con  in rosso i nomi dei caduti della formazione comunista “Gramsci” e del Gruppo Combattimento “Cremona” (Corpo Italiano Liberazione), reparto del cosiddetto “Esercito del Sud”.

Ne I Gendarmi della Memoria Giampaolo Pansa è coadiuvato nella sua ricerca dall’attività, onerosa quanto zelante, del gruppo di studio L’altra Verità (www.altraverita.it) e della Fondazione della RSI Istituto Storico (www.fondazionersi.org), fornendo al giornalista dati precisi sui caduti della Repubblica Sociale, prima e dopo la liberazione.

Pietro Cappellari, membro della Fondazione RSI, segnala a Nadir alcuni nomi: Ugo Tavani, Ivano Palla, padre Vincenzo Chiaretti, Remo Cesaretti, Attilio Calandrini. Nomi che figurano tra gli antifascisti fucilati durante un tragico rastrellamento tedesco a Leonessa,  paese del reatino, il 7 aprile del 1944.

Tutti fucilati, causa una delazione di Rosa Cesaretti, non spia dei tedeschi come la vulgata resistenziale la descrive, bensì donna animata da sentimenti di rancore verso i compaesani. Come noto, allora vendicarsi era cosa alquanto semplice: una blanda denuncia alle autorità di occupazione o al locale comando partigiano e un innocente finiva giustiziato.

Difatti, quel 7 aprile ’44, di partigiani a Leonessa nemmeno l’ombra, poiché una settimana prima reparti tedeschi avevano sferrato un attacco massiccio contro il piccolo comune, scacciando la Gramsci dopo appena due settimane di controllo dell’area.

Conquistato il presidio, avvenuta la delazione, ad essere indicati come ‘fiancheggiatori’ dei partigiani sono persone estranee alla guerra civile e, addirittura, elementi legati al PFR (Partito Fascista Repubblicano). L’elenco dei caduti fornito dalla Fondazione RSI (centinaia di nomi contenuti in un voluminoso PdF) segnala Ugo Tavani come morto per errata rappr. ted. Stessa sorte per Ivano Palla. Chi erano Palla e Tavani? Di certo non partigiani, poiché iscritti al fascio repubblicano con mansioni di non poco conto. Tavani, maggiore medico, comandava il presidio leonessano della Guardia Nazionale Repubblicana; Palla faceva parte dell’IML, Ispettorato Militare del Lavoro, tesserato al PFR.

Eppure, da 67 anni le vittime di quella strage sono indicate come partigiani della “Gramsci”. Perché?

Domanda che si è posto anche Cappellari a suo tempo, vale a dire nel 2004 quando, dopo il rinvenimento di una fossa comune nei pressi di Leonessa, così scriveva ai giornali:

[…]Allora scomodare Don Concezio Chiaretti per dipingerlo come Cappellano di Brigata partigiana; scomodare il Maggiore medico delle Camicie Nere Ugo Tavani per dire che era d’accordo con i ribelli; dimenticare chi fascista era sempre rimasto come gli squadristi Ivano Palla o Silvestro Crescenzi; ignorare la passata carriera nel PNF di Roberto Pietrostefani e di Carlo Calandrini per asserire che erano tutti partigiani della Brigata “Gramsci” solo perché furono fucilati dai Germanici, è davvero poco corretto[…].

Ecco, forse la correttezza è mancata dal quel tragico ’44. La correttezza e l’onestà di ammettere che di resistenti caduti in quella strage non ce ne sono stati. Gente comune, invece, come i tanti che pagarono per gli attentati e i sabotaggi di gruppi troppo ardimentosi; o fascisti, liquidati nella logica del semplice sospetto.

Concezio Chiaretti, sacerdote estraneo alla dicotomia fascismo e antifascismo, si spese, ed è vero, per evitare uno spargimento di sangue. Ma lo fece per i parrocchiani, non per la brigata, della quale neanche faceva parte, malgrado l’ANPI lo ricordi come cappellano (col grado di capitano) della ‘Gramsci’.

Stessa cosa dicasi per il Calandrini (nome ancora non presente sulla lista della Fondazione): veterano della guerra civile spagnola, al cui figlio diede il nome di Franco, in onore del caudillo.

Anche Calandrini è oggi commemorato quale partigiano.

Una brutta storia quella della lapide di Palazzo Farini. Viene da pensare che, se non per errore, quei nomi siano stati scolpiti per gonfiare la storia di un reparto che, nella guerra civile umbra e laziale, ha avuto tanti lati oscuri e un peso militare molto inferiore rispetto a quello che si è invece attribuito.

Lo scontro con la divisione Hermann Goering, granatieri corazzati della Luftwaffe, la dice lunga sulla precaria veridicità storica di alcuni avvenimenti: nel periodo in cui sarebbe avvenuta la battaglia coi granatieri, la HG si trovava a Capannori.

E poi gli atti di sottomissione taciuti, la liquidazione di civili inermi e di combattenti per la libertà come Mario Lupo, badogliano, i cui resti potrebbero ritrovarsi nella buca rinvenuta nel 2004. Anche Lupo morì per una spiata: non condividendo processi ed esecuzioni sommarie abbandonò la Brigata nella primavera del 1944, per poi essere additato come traditore e servo dei tedeschi dagli ex compagni.

L’articolo di Cappellari si conclude con un appello importante per l’attività storiografica e per chi si spende al fine di ricostruire con la maggiore obiettività possibile il nostro passato recente: «La storia si dovrebbe fare con i documenti e, soprattutto, con onestà».

E, aggiungo, con l’auspicio di poter garantire a vittime dimenticate la memoria e il rispetto che meritano.

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