Quando lupi, orsi e gazzelle scorrazzavano per i boschi dell’isola di Eubea

Oggi, in Grecia, vive una popolazione di lupi che va da 500 a 700 individui e una di orsi che va da 200 a 250 esemplari, concentrati nella regione montuosa e interna del Pindo.

Eubea, panorama dal monte Kantili.
Eubea, panorama dal monte Kantili.

Ma non ve ne sono certamente nell’isola di Eubea, un tempo famosa per i suoi allevamenti di buoi (come ricorda l’etimologia) che, lunga 170 km. e con 3.658 kmq. di superficie, è seconda soltanto all’isola di Creta, benché essa disti dalla terraferma, nel punto più vicino, appena quaranta metri (e infatti sin dal 400 a. C. un ponte era stato costruito per collegare le due sponde). Tanto meno vi sono, nell’isola di Eubea, le gazzelle, oggi limitate esclusivamente al continente africano e al Vicino Oriente; benché i loro resti fossili, in diverse località d’Europa, siano abbastanza numerosi per il Pliocene e il Pleistocene.

Sappiamo che una delle più antiche gazzelle europee era la “Gazella borbonica”, caratterizzata dalle piccole dimensioni e dalle zampe corte; e la maggior parte dei paleontologi sono certi che tutte le specie di gazzella scomparvero dal nostro continente all’inizio dell’era glaciale (glaciazione di Günz, da 680 a 620.000 anni fa).

Eppure, ci sono state tramandate alcune testimonianze letterarie che fanno dubitare di questi dati e che testimoniano come, ancora nel II secolo dopo Cristo, l’isola di Eubea – e, verosimilmente, anche altre regioni della Grecia, dei Balcani e dell’Europa centro-meridionale – possedesse una fauna superiore assai ricca e diversificata, comprendente non solo mammiferi di piccole dimensioni, come le lepri, ma anche di media e grossa taglia, come cervi, cinghiali, lupi e orsi, nonché, appunto, gazzelle.

L’autore della notizia è un autore greco denominato Dione di Prusia (in Bitinia) o anche Dione Crisostomo (“dalla bocca d’oro”) per le sue eccezionali qualità oratorie, vissuto al tempo di Domiziano, da cui fu perseguitato, e di Traiano, del quale, invece, divenne amico. Era nato verso il 40 e morì, probabilmente, dopo il 110 d. C. Scrittore, storico e filosofo, autore di svariate opere per lo più appartenenti al genere che oggi diremmo saggistico, ci ha lasciato una ottantina di orazioni secondo il modello attico, una delle quali, l’Euboico, dall’intonazione filosofica, si propone di esaltare i vantaggi e le bellezze della vita agreste.

Nel descrivere la vita semplice di un cacciatore dell’Eubea, che vive povero ma felice con la sua famigliola, senza bisogno dei ritrovati e delle raffinatezze della civiltà, egli può aver delineato un quadro idilliaco di maniera, un po’ come faranno certi scrittori illuministi francesi con il mito del “buon selvaggio”; ma è inverosimile che un greco, che scriveva in greco per un pubblico di lettori greci, fosse così ingenuo e sprovveduto da inventarsi la presenza di animali inesistenti in una grande isola della sua terra, cosa che avrebbe mosso al riso i suoi contemporanei e avrebbe tolto ogni serietà e credibilità alla sua tesi di fondo.

Per la stessa ragione, non c’è motivo di dubitare del suo realismo nelle descrizioni del paesaggio e del clima; e, se nel primo l’autore può avere un po’ indugiato in qualche preziosismo bucolico, con quelle colline quelle vallette e quei boschetti attraversati da ruscelli, nel secondo il particolare delle piogge e delle nevi invernali, anche nelle zone di pianura (il Monte Dirfis, nel nord, raggiunge i 1.750 m. d’altitudine), si può spiegare con il fatto che il clima dell’Europa meridionale, Italia compresa, era a quel tempo molto più fresco dell’attuale e caratterizzato da inverni molto più rigidi (con il Tevere che, come attesta Giovenale, talvolta ghiacciava), a causa della presenza di vastissime foreste che, con la loro ombra profonda e con l’anidride carbonica emessa, favorivano una temperatura generalmente più bassa e un regime di precipitazioni più abbondanti.

Oggi la neve compare piuttosto di rado in Grecia, al livello del mare; eccezionale è stata la nevicata del 2004 che, fra l’altro, ha imbiancato tutta l’isola di Creta, posta molto più a sud dell’Eubea; un’altra ondata di freddo eccezionale si è verificata nel 2012, e ha colpito sia Atene che Istanbul. Per il resto, la neve è frequente nella Grecia settentrionale e nella Macedonia, ma solo nelle zone di montagna, come sperimentarono i nostri alpini durante la campagna d’Albania, durante il terribile inverno del 1940-41.

Riportiamo il passaggio di Dione Crisostomo relativo alla fauna dell’isola (VII, 10-20), affinché il lettore possa farsene un’idea personale (in: Carlo Del Grande e Davide Giordano, Enchiridion. Antologia di scritti e di brani di autori greci in traduzione italiana, Napoli, Loffredo Editore, 1969, pp. 443-4):

«A mano a mano che procedevamo, egli [cioè il cacciatore], strada facendo, mi narrava di sé e della vita che menava con la moglie e i figli: – Siamo in due, disse, o straniero, ad abitare nello stesso posto: abbiamo sposatole sorelle l’uno del’altro e ne abbiamo avuto figli e figlie.

Viviamo per lo più di caccia, ben poco dei prodotti della terra, perché questo poderetto non è nostro; non lo abbiamo ricevuto per eredità, né lo abbiamo acquistato. I nostri genitori erano uomini liberi: ma, non meno poveri di noi, facevano i pastori a mercede, guidando al pascolo i buoi di un ricco signore dell’isola, che possedeva molte mandrie di cavalli e di buoi e molte greggi, molti bei campi, e tante altre ricchezze, compresi questo colli che vedi. Alla sua morte, la proprietà fu confiscata – dicono che proprio per le sue ricchezze fu messo a morte dall’imperatore – portando via le mandrie per macellarle e oltre alle mandrie anche i nostri giovenchi e nessuno mai ne ha pagato il prezzo. In quel tempo, stavamo per necessità lì dove avevamo la nostra mandria e c’eravamo costruita una capanna di legno con un cortile per i vitelli, né vasta né molto solida: del resto, era fatta solo per viverci d’estate. D’inverno, ci trasferivamo in pianura, dove trovavamo ricchi pascoli e abbondante foraggio: d’estate, poi, tornavamo sulle colline qui, proprio dove i nostri padri avevano fissato la loro dimora. Le colline in declivio dall’una e dall’altra parte formano una vallata profonda ed ombrosa, attraverso cui scorre un placido rivo, guadabile da buoi e vitelli e ricco di acqua limpida e pura, perché sgorga da una sorgente vicina: d’estate, la vallata è sempre battuta dalla brezza. Le macchie tutt’intorno sorgono su un terreno soffice ed irriguo, quindi non ci sono tafani o altri pericoli per la nostra mandria.

Molti e bei prati si stendono ai piedi degli alti fusti sparsi qua e là e son ricchi di una vegetazione lussureggiante durante tutta l’estate, sicché la mandria non deve allontanarsi per la sua pastura. Per questi motivi, i nostri padri tenevano qui le bestie. E rimasero ad abitare nelle capanne, sperando di trovare qualche lavoro a mercede e vissero su quel poco che produceva il campicello coltivato, vicino alla casa.

E bastava loro questo campicello, perché era ben concimato; ma, poiché avevano tanto tempo libero dalla cura della mandria, si diedero anche alla caccia, o da soli o con i cani. Una volta, due cani da pastore, poiché dopo un lungo tratto avevano perduto di vista i loro padroni, tornarono indietro lasciando la mandria. In un primo momento, seguirono i nostri padri, senza sapere cosa fosse la caccia: sicché, mentre, quando vedevano un lupo, lo inseguivano fino a una certa distanza, non si curavano invece di cinghiali e cerbiatti. Se poi vedevano un orso, prima o poi, finivano col lanciarsi insieme all’attacco latrando, ma molto guardinghi, come combattessero contro un uomo. Ma, gustando il sangue dei cinghiali e dei cervi e spesso mangiandone la carne, dopo un certo tempo impararono a mangiare carne invece di pane, rimpinzandosi quando la caccia era fortunata, ma rimanendo digiuni ed affamati quando non lo era, finché fecero più attenzione alla selvaggina e quindi si diedero a inseguire ugualmente ogni animale senza distinzione: conobbero così in che modo servirsi del fiuto e delle orme e infine si mutarono, da cani da pastore che erano, in cani da caccia che però, per aver appreso tardi, erano piuttosto lenti nei movimenti.

Al sopraggiunger dell’inverno, i nostri padri non riuscirono a trovare nessun lavoro né in città, né in villaggio. Rinforzate, quindi, le capanne e munito più saldamente lo steccato del cortile, si prepararono a resistere alla lunga stagione. Lavorarono tutto il campicello e, quanto alla caccia, furono i più fortunati, perché le orme della selvaggina risultavano più evidenti, dato che erano impresse in un terreno umido: anzi, la neve le rende visibile a distanza, sicchén on ci vuole gran fatica per scovare la cacciagione, perché le impronte formano come una via per rintracciarle. Se si aggiunge che le bestie sono più inerti per il freddo, si vede come sia più facile d’inverno sorprendere lepri e gazzelle nelle loro tane.

Così i nostri padri, da quel primo inverno in poi, vissero qui, senza sentir mai bisogno di una vita diversa. Diedero a noi in spose ciascuno la figlia dell’altro. Son morti circa un anno fa, vecchi, a voler contare gli anni della loro vita, ma ancora robusti, giovanili e vigorosi. Delle due madri sopravvisse solo la mia».

Una fauna così abbondante di animali di grossa taglia potrebbe sembrare eccessiva, ma bisogna tener conto del fatto che in molte regioni del bacino mediterraneo la crisi economica e il calo demografico erano incominciati ben prima di quella fase che gli storici chiamano solitamente “Basso Impero” o “età tardo-antica”, e questo spiega ad abundantiam il rinselvatichirsi di vaste regioni e la ricomparsa di animali che erano stati costretti, durante la più intensa fioritura urbana e commerciale, a rifugiarsi nei boschi e nelle paludi delle zone più interne e inaccessibili.

Sempre Dione Crisostomo, nella stessa opera, descrive lo stato di estrema decadenza in cui versa una città, un tempo grande e popolosa, attiva di traffici e di industrie, dell’isola di Eubea. Non solo la campagna desolata si è spinta fin sotto le sue mura, ma anche all’interno di esse gran parte del terreno è occupata ormai da prati e pascoli per gli animali domestici. Nel ginnasio cresce il grano, così che, nella stagione estiva, le statue degli dèi e degli eroi vengono ad essere pressocché nascoste dalle messi. Nella piazza principale, davanti all’edificio del senato, i pastori conducono a pascolare le loro greggi; ovunque regna la povertà, non c’è lavoro e moltissime sono le case vuote e abbandonate dai loro inquilini.

Ben prima della grande crisi del IV secolo, dunque, testimoniata da celebri scrittori latini come il vescovo Ambrogio da Milano (che parla, riferendosi all’Emilia, di semirutarum urbium cadavera) o come Rufo Festo Avieno, che descrive la già grande e popolosa Gades, (oggi Cadice), in Spagna, come «ormai misera e piccola, abbandonata dagli abitanti, un cumulo di rovine», la decadenza dell’urbanesimo aveva favorito una avanzata dei boschi e degli animali selvatici; e sappiamo come decadde, nel V secolo, la stessa Roma, divenendo anch’essa piena di case disabitate e con le pecore e i buoi condotti al pascolo fra i suoi grandiosi monumenti.

A dire il vero, prima dell’era cristiana l’Europa possedeva ancora una fauna di mammiferi alquanto impressionante; le foreste settentrionali erano popolate dall’uro, come ci riferisce Giulio Cesare, e dal bisonte; le zone sud-orientali erano addirittura infestate dai leoni. Questi ultimi erano specialmente diffusi sulle montagne della Grecia e della Macedonia; in quest’ultimo regno la caccia al leone era una specie di sport tipico dell’aristocrazia.

Anche nei poemi classici troviamo tracce della presenza del “re degli animali”; Omero ne parla nell’Iliade (XVII, 61-7), paragonando Menelao che si avventa fra le schiere troiane ad un leone di montagna che ghermisce una vacca e resiste vittorioso alla reazione dei pastori e dei cani; e, poco più avanti, nello stesso libro (108-13), paragona ancora il re di Sparta, che aveva tentato di sottrarre ai nemici il cadavere di Patroclo, ad un leone ruggente che è costretto dalle lance degli uomini a ritirarsi suo malgrado.

Erodoto, poi (Storie, VII, 25-6), narra di come l’esercito persiano di Serse, mentre attraversava la Macedonia diretto verso Atene, ebbe a soffrire a causa di numerosi attacchi dei leoni; le fiere scendevano dai monti e assalivano i cammelli, uccidendoli e trascinandoli via prima ancora che i cammellieri, riavutisi dalla sorpresa, potessero organizzare una difesa; quasi che i leoni, davanti a quei ruminanti sconosciuti in Europa, avessero riconosciuto una loro antica preda.

Sappiamo che il leone era diffuso, oltre che in Africa, anche nel Medio Oriente e in tutta l’Asia occidentale, fino al bacino dell’Indo; e il fatto che i leoni non attaccassero né gli uomini, né alcun altro animale al seguito dell’armata di Serse, ma soltanto i cammelli adibiti al trasporto dei materiali, dà parecchio da pensare allo studioso di zoogeografia (cfr. il nostro precedente articolo Il destino del leone europeo, tragico esempio dell’insensata distruttività umana, apparso sul sito di Arianna Editrice in data 08/07/2008).

Dopo la scomparsa del leone, che dovette aver luogo verso il 100 d. C., rimanevano, dunque, in quell’angolo di Europa, cervi, cinghiali, lupi e orsi; ed erano abbastanza numerosi da offrire sostentamento a dei cacciatori che, praticamente, vivevano solo di caccia e di quanto poteva offrire un minuscolo appezzamento di terra coltivata.

È un quadro affascinante, che modifica alcune idee piuttosto radicate circa le condizioni di vita nel nostro continente durante l’Impero Romano e, anzi, proprio durante quel periodo – il principio del II secolo d. C. – che molti storici si ostinano a considerare come l’apogeo della civiltà antica; mentre, in effetti, corrisponde già ad una fase assai avanzata della sua decadenza, in senso materiale non meno che in senso intellettuale e spirituale.

* * *

Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

Condividi:
Segui Francesco Lamendola:
Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Kaloskaiagathos
    | Rispondi

    mi permetto di segnala un piccolo errore “a causa della presenza di vastissime foreste che, con la loro ombra profonda e con l’anidride carbonica emessa, favorivano una temperatura generalmente più bassa e un regime di precipitazioni più abbondanti.” in questo caso l’anidride carbonica è assorbita dalle piante, riducendo così l’effetto serra responsabile dell’innalzamento della temperatura. Ottimo articolo in ogni caso, si tratta di un argomento che mi affascina da sempre. Grazie

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *