Esplorando le terre del mito

L’archeologo Zagni insegue una pista che porta ad Atlantide

David Hatcher Childress, Le città perdute di Atlantide, Europa antica e Mediterraneo Alle grandi esplorazioni che si verificarono agli albori del mondo moderno – tra quindicesimo e diciassettesimo secolo – sono seguite in epoche più recenti “esplorazioni” di carattere diverso: legate più alla storia che non alla geografia. Come se l’uomo moderno, nato in una condizione di sradicamento dalle antiche tradizioni, avesse voluto in forza del proprio ingegno dilatare l’orizzonte della percezione storica e spirituale oltre che l’orizzonte geografico delle sue conoscenze. Nel novero di queste esplorazioni dello spirito può sicuramente entrare a far parte la scoperta dell’India, intesa come scoperta del grande patrimonio spirituale di quella civiltà in seguito alla colonizzazione inglese. E può rientrarvi un’altra fondamentale scoperta del mondo contemporaneo: la scoperta degli indoeuropei, vale a dire la presa di coscienza della esistenza di una comune radice, di un comune sentire ancestrale che abbraccia le grandi civiltà dell’emisfero boreale. Per quanto le circostanze della sorte e i momentanei verdetti della storia abbiano gettato un’ombra sugli studi indoeuropei e addirittura una cortina di mistificazione sia stata alzata per avvolgerli, una generazione più avveduta della nostra non tarderà ad ammettere tra qualche tempo che la scoperta della radice indoeuropea ha avuto nella storia della nostra civiltà in divenire la medesima colossale importanza della scoperta del continente americano fatta da Cristoforo Colombo.

Ma le esplorazioni della mente – unite necessariamente all’attività fisica degli esploratori veri e propri – non sono terminate. Il nostro mondo terrestre in fondo da poco tempo è studiato secondo i criteri della scienza naturale. E questa scienza, fino a qualche decennio fa impastata di rozzo materialismo ottocentesco, è forse ancora in una fase ingenua e poco sofisticata. C’è da attendersi che altri stravolgimenti possano accadere nella nostra percezione del mondo e della storia. Il libro di un giovane esploratore italiano, Marco Zagni, pubblicato dalla M.I.R. e intitolato L’ Impero amazzonico, indubbiamente contribuisce a scolpire il nuovo quadro di conoscenze relative alla fase più arcaica – per certi aspetti la più affascinante – dell’umanità.

Il libro, sin dalla copertina, ha un sapore romantico; ricorda certo spirito pionieristico d’epoca coloniale, quando l’uomo europeo non ancora gravato da morbosi sensi di colpa si spingeva ad esplorare zolle enormi di terra mai scrutate con sguardo scientifico prima di allora. Tuttavia al di là del romanticismo di contorno, Zagni pone una questione scientifica e chiede conto di un vuoto archeologico che riguarda le Americhe. La teoria più accreditata sul popolamento delle Americhe fa riferimento a una transizione avvenuta al nord, attraverso lo stretto di Bering, 10-12.000 anni orsono. Vi sono tuttavia una serie di indizi che inducono a catalogare questa teoria secondo l’etichetta del “necessario ma non sufficiente”. E’ vero: vi fu passaggio da Nord in epoca in fondo recente; ma vi sono anche una serie di reperti di antichità ben anteriore e collocati nel Sud America, in particolare nella foresta amazzonica, nell’area di Macchu-Picchu in Perù, nell’Area della Foresta Pintada in Brasile. Queste enigmatiche presenze inducono a valutare l’ipotesi di una colonizzazione delle Americhea partire da Est, a partire da quel vasto mare che significativamente porta il nome di “Atlantico”. Era in fondo una ipotesi già fatta propria, secondo i criteri peculiari della loro sapienza, dai popoli precolombiani che attendevano il ritorno dal mare del dio biondo Quezacotal, già fondatore della loro civiltà.

L’ipotesi della origine atlantica delle più antiche civiltà precolombiane viene apertamente caldeggiata dall’archeologo Zagni. Del resto ignorare questa ipotesi significherebbe ignorare un vasto patrimonio di miti concordanti delle più svariate civiltà e ignorare l’esistenza di enigmatiche popolazioni-residuo come quei famosi “Guances” delle Canarie, scoperti da Colombo, alti come individui nordici, che pur vivendo in mezzo all’oceano nutrivano un sacro timore del mare e perpetuavano il ricordo di quando dal mare si innalzò la rovina del loro mondo d’origine.

L’estate col suo caldo induce a sognare l’esistenza, il ritrovamento di queste terre del mito – l’Atlantide, la Lemuria, la Thule – di cui appunto come in un sogno la memoria mitologica dei nostri avi ha conservato traccia. Ma forse vi sono margini per poter “pensare” scientificamente su queste realtà u-topiche oltre che sognarle. Libri come quello di Zagni inducono a sperare in tal senso, e ad auspicare che ricerche più organiche, come quelle che ad esempio furono avviate nel Novecento tra le due guerre, possano essere finalmente riprese nel Duemila. In fondo si spendono tanti soldi inutili per costruire moschee o per pagare il vitto ai preti no-global! Gli stessi soldi potrebbero essere spesi in maniera meno dannosa per intessere di nuovo i fili delicati della trama del nostro passato, e ricostruire il quadro della prima giovinezza della specie.

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Tratto da l’Officina, luglio-agosto 2003.

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