Perché Tex Willer piace tanto agli italiani?

Sono ormai più di sessant’anni che Tex Willer cavalca felicemente sulle sconfinate praterie della nostra fantasia, ossia da quell’ormai lontano 1948 allorché – l’Italia era uscita da poco, e con tutte le ossa rotte, dalla tragica esperienza della seconda guerra mondiale e da quella, se possibile ancor più tragica, della guerra civile – balzò fuori, in sella al fedele Dinamite, da un’idea dello sceneggiatore Gian Luigi Bonelli e dalla penna del disegnatore Aurelio Galeppini.

Sessantadue anni sono davvero un bel record, specialmente in un mondo evanescente come quello dei giornalini a fumetti, dove sovente imperversano le mode e le testate proliferano in fretta, ma altrettanto velocemente scompaiono, dopo una carriera più o meno gloriosa, più o meno effimera; e senza dimenticare la proverbiale incostanza del pubblico italiano.

Tutto si consuma in fretta, in Italia, tranne la passione per la pizza, per la mamma e per la squadra del cuore; un fumetto che oltrepassa trionfalmente i sessant’anni di vita è, dunque, qualcosa di assolutamente eccezionale, come lo è un governo che giunga sino al termine della propria legislatura o, se si preferisce il paragone, come un professionista o un commerciante che non dichiarino un reddito simile a quello di un operaio.

Un “re” dei fumetti come il mitico ranger Tex Willer, insieme ai i suoi inseparabili pards Kit Carson, l’indiano Tiger Jack e il figlio Kit, non regna per un tempo così lungo senza avere dei meriti speciali, che ne spieghino la longevità e ne giustifichino l’inalterato favore del pubblico: pubblico che non comprende solo i giovani lettori, ma anche quelli meno giovani, il più delle volte divenuti suoi fedeli ammiratori dopo un colpo di fulmine adolescenziale e rimasti poi tali attraverso lo scorrere degli anni e l’avvicendarsi delle generazioni.

Se dovessimo azzardare un paragone con la letteratura o con la televisione – perché sia chiaro che «Tex» è un fumetto di alta qualità e, nel suo genere, teme ben pochi confronti -, quello a nostro avviso più adeguato sarebbe con il personaggio creato da Georges Simenon, l’altrettanto mitico ispettore Maigret, portato dal libro al piccolo schermo nella interpretazione di diversi bravi attori, fra i quali spicca quella indimenticabile di Bruno Crémer (ce ne siano già occupati nell’articolo Quell’ispettore così solidamente borghese che finiamo per amare anche nostro malgrado).

La domanda che sorge spontanea e inevitabile, pertanto, è quali siano questi meriti speciali che il nostro eroe del West dalla pistola facile e dalla battuta non meno fulminante possiede ed esibisce, con grinta da autentico mastino ma, al tempo stesso, con sfoggio disinvolto di una notevole dose di humour.

Ebbene, la risposta non sta solamente nelle doti intrinseche del fumetto e del personaggio, ossia nel fascino delle storie, nella bravura dei disegnatori (oltre a Galleppini, i vari Letteri, Civitelli, Muzzi, Nicolò e, qualche volta, Gamba), insomma nelle doti che appartengono specificamente a lui, ai suoi amici e avversari, ai paesaggi, alle ambientazioni.

No: il fascino di Tex Willer, ranger dalla pistola implacabile e capo bianco della tribù dei Navajos, nonché loro agente governativo, ha anche a che fare, e forse soprattutto, con il pubblico al quale si rivolge, o meglio, con la situazione sociale propria di quel pubblico: in altre parole, con l’Italia quale fenomeno sociologico, culturale, spirituale.

Non vogliamo dire, con questo, che la fama di Tex sia qualcosa di esclusivamente provinciale: non più di quanto – ad esempio – lo sia, in Francia, il fumetto di «Asterix»; ma è indubbio che qualsiasi cosa, in Italia, per riuscire a durare più di quanto sia durato il potere di Andreotti, deve possedere delle radici profonde nell’animo delle persone comuni, nel loro diffuso modo di sentire, di sperare, di temere.

Ebbene, questo elemento in possesso di Tex Willer è, a nostro avviso, la lotta senza quartiere, energica, perfino spietata, non solo contro ogni forma di ingiustizia, ma specificamente contro le ingiustizie dei potenti, degli arroganti, dei “pezzi grossi”, dei “politicanti” e di ogni sorta di mascalzoni altolocati.

In questo senso, la funzione svolta da Tex, nell’immaginario dei suoi lettori, è quella del giustiziere, per interposta persona, delle loro quotidiane frustrazioni, alle prese, come essi sono, con un capufficio stupido e insolente, con un impiegato pubblico scortese e presuntuoso, o – peggio – con il mondo anonimo, ma ancor più opprimente e prevaricante, delle banche, dell’amministrazione pubblica, delle mille e mille disfunzioni e lungaggini dello Stato, oltre che con la rapace avidità del sistema fiscale.

Il cittadino che si sente impotente ed inerme davanti ad una municipalità che non sa nemmeno smaltire i rifiuti, ad una provincia o una regione che non assicurano neppure un minimo di efficienza nella viabilità stradale, ad uno Stato che gli centellina avaramente i diritti mentre gli fa pesare come un macigno i doveri, con borbonica ottusità e con predace insaziabilità, si vede, per così dire, “vendicato” dal pistolero infallibile, mosso da un senso elementare, ma rigoroso, dell’onestà e della giustizia.

I nemici più caratteristici di Tex Willer, infatti, non sono gli Indiani che escono dalle riserve a caccia di scalpi o i piccoli fuorilegge, ma i grossi trafficanti d’armi e di whisky, gli sceriffi corrotti, i maggiori dell’esercito imbecilli, i banchieri senza scrupoli, i disonesti proprietari dei grandi allevamenti bovini, gli avvocati cialtroni che difendono le cause più losche ed i boss della malavita che agiscono dietro una facciata di apparente rispettabilità, mentre intrallazzano sottobanco con i peggiori elementi della società e si servono, per spianarsi la strada, della pistola e del coltello di un qualsiasi sicario a pagamento.

Davanti ai “pesci piccoli”, alla bassa manovalanza dei grossi criminali, Tex è disposto a chiudere un occhio e a concedere loro una via di scampo, beninteso a patto che spariscano dalla circolazione, dopo aver vuotato il sacco con tutte le informazioni relative ai loschi traffici dei loro padroni e mandanti; ma nei confronti di questi ultimi non concede mai quartiere, non si accontenta mai di mezze soluzioni: li spazza via dalla faccia della terra, letteralmente: li spedisce dritti davanti a un tribunale che li impiccherà per direttissima, oppure ci pensa lui stesso – poco fiducioso nella giustizia umana – a procurar loro – come usa dire con pesante senso dell’umorismo – un domicilio permanente sotto un buon metro di terra fresca.

Questo è l’aspetto più simpatico della sua crociata contro il Male; perché, diversamente, essa lo renderebbe forse un tantino lugubre, sulla falsariga di un Solomon Kane; perché tutti i giustizieri finiscono per annoiare e persino per disgustare, per quanto possiedano doti di ironia e amino i grandi boccali di birra fresca e le enormi bistecche al sangue contornate da montagne di patatine fritte (tale è l’invariabile menu che Tex e Carson ordinano sedendosi a tavola e c’è da chiedersi in che stato sia il loro fegato, per non parlare dei denti e dell’alito, dopo anni ed anni di quella alimentazione).

A ben guardare, è proprio questo l’aspetto che rende così irresistibilmente simpatico il commissario Maigret, nonostante i suoi evidenti limiti di borghese benpensante e, probabilmente, alquanto conservatore: l’istintiva solidarietà con gli umili, l’istintiva benevolenza verso i piccoli; e, viceversa, l’altrettanto istintiva avversione per i potenti che fanno cattivo uso del loro denaro, delle loro amicizie, dei loro privilegi.

Tex piace perché costituisce la rivolta dell’uomo medio contro il potere gaglioffo; la rivolta dell’uomo di buon senso contro le assurdità della macchina sociale, le degenerazioni delle istituzioni e contro le spietate conseguenze delle leggi economiche.

Lui e i suoi amici sono sempre al fianco dei piccoli allevatori contro i grandi rancheros; delle tribù indiane sfruttate da agenti disonesti e da cinici contrabbandieri; dei coloni che viaggiano sui loro Conestoga, contro le insidie delle guide disoneste e dei commercianti che vogliono derubarli, servendosi di rinnegati e di pellerossa alcolizzati.

Il suo modo di fare è diretto, aggressivo fino alla brutalità: ci prova gusto, anzi, a provocare gli avversari, per poterli poi subito gonfiare di formidabili cazzotti e, se non basta, di piombo caldo; si vanta addirittura di procurare lavoro incessante ai becchini di tutto il West.

I malcapitati che passano per le sue mani rimediano delle battute formidabili («neanche tua madre ti potrà più riconoscere, dopo che avrò terminato», oppure: «ti farò sputare la dentiera dalla parte dei calzini», dice loro, con sadico sarcasmo, fra un cazzotto e l’altro), quando non vanno a finire direttamente in una fossa scavata di fresco; ma il massimo piacere che si riserva è quello di far volare dalla finestra del loro ufficio i banchieri corrotti, i proprietari di alberghi e di saloon che spadroneggiano nei paesi, e – qualche volta – i generali gallonati imbevuti di pregiudizi razzisti e di ottusità militaresca, venuti da West Point a caccia di gloria facile, massacrando qualche inerme tribù di pellerossa.

Pregiudizi razziali, in teoria, Tex non ne ha; egli si schiera sempre dalla parte della giustizia, senza guardare al colore della pelle: questo, tuttavia, non gli impedisce di gratificare i negri, i cinesi o gli indiani, quando sono dei cattivi, di epiteti ingiuriosi dal sapore inequivocabilmente xenofobo, quali “sacco di carbone”, “scimmia gialla” o “verme rosso”, di solito ingentilito da qualche ulteriore aggettivo, che varia da “brutto”, a “lurido” a “miserabile”: il tutto mentre li demolisce a pugni o fracassa loro la testa con il calcio di un Winchester o, magari, mentre li crivella di proiettili come altrettanti colabrodo.

Insomma, è talmente noto che lui non ha pregiudizi etnici ed è talmente lampante la sua imparzialità nello spedire al Creatore i cattivi, che può anche permettersi di sfogare un bel po’ di malumore razzista, non risparmiandoci nemmeno frequenti discorsetti edificanti, nei quali tesse le lodi della tolleranza e celebra il valore della umana comprensione; e ciò, magari, sul cadavere ancora caldo di qualche cattivo soggetto che ha appena fatto fuori o, nel migliore dei casi, sul suo corpo fracassato dalle botte e ridotto ad un autentico rottame.

Questa filosofia della giustizia fai-da-te, pronta e inesorabile come la mano del Signore, se, da un lato, si riconnette chiaramente alle matrici puritane e calviniste dell’epopea western, dall’altra è, almeno al livello dei desideri inconsci, molto, ma molto italiana, anzi, tipicamente italiana; e costituisce il caratteristico “transfert” del nostro popolo di fronte all’incomprensibilità e alla violenza di una controparte pubblica che viene percepita come apertamente o implicitamente pericolosa, intollerabile, nemica.

Un ruolo del genere svolgevano i “pupi” del teatro siciliano, le maschere della Commedia dell’Arte, e – più recentemente – certi antieroi dell’avanspettacolo e del piccolo e grande schermo, per non parlare dei comici e dei disegnatori satirici: tutte incarnazioni dell’eterno transfert della nostra gente che, abituata da secolari scoraggiamenti a subire le prepotenze dei “grandi”, come i contadini del Lago di Como davanti a Don Rodrigo, da sempre si consola delegando le sue vendette immaginarie a qualche personaggio di fantasia.

Così, Tex Willer che riempie di botte qualche odioso ed azzimato padreterno di provincia, dopo aver reso innocui a modo suo i gorilla che gli guardavano le spalle, non è che la versione esotica e avventurosa di Brighella che prende a randellate il dottor Balanzone o qualche ricco e antipatico personaggio, esorcizzando così la frustrazione del pubblico e fornendo un surrogato fantastico alla sua delusa sete di giustizia.

Non vogliamo – giova ripeterlo -, con questa interpretazione del successo di Tex, sminuire i suoi meriti intrinseci, che sono notevoli, sia per quanto riguarda la sceneggiatura delle sue innumerevoli avventure, sia per ciò che riguarda la qualità del tratto grafico. Vogliamo dire soltanto che, in quel così prolungato successo, c’è anche dell’altro; qualcosa che, probabilmente, un tedesco, un francese o un inglese stenterebbero a capire.

Perché, in un Paese ove la legge fosse presa sul serio da tutti i cittadini e lo Stato non fosse visto come il nemico da cui difendersi, ma come il luogo del bene comune; dove non imperversassero i particolarismi campanilistici, la corruzione sistematica, la malavita organizzata; dove la legge proteggesse i cittadini onesti e non i lestofanti, forse un tipo come Tex perderebbe un poco del suo smalto.

Tex è un eroe che agisce in circostanze eccezionali: là dove la legge stenta a farsi strada, dove c’è il rischio che i delitti rimangano impuniti e che i mascalzoni la facciano franca; in un Paese serio e bene amministrato, che ci starebbe a fare?

«Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi», dice una sentenza popolare.

Già: un popolo che, anche recentemente, ha avuto uomini come Falcone e Borsellino; e che, forse, non se li meritava.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

5 Responses

  1. enzo
    | Rispondi

    lungi dal plaudire alle virtù di tex, temo che il fumetto sia lo spaccato dello sfacelo italiota: la delega ad un fumetto delle proprie frustrate ambizioni; la visione di uno stato nemico quanto mai lontana dall'organicismo gentiliano che, a mio avviso, è ancora la guida. poveri noi se ci rivediamo in tex willer

  2. Paolo
    | Rispondi

    @enzo: appunto: lo "stato" che Tex ha di fronte non è certo quello gentiliano, ma è una fotocopia della repubblichetta delle banane in cui viviamo. Un obbrobrio di fronte al quale un uomo d'Ordine (con la O maiuscola) non può che ribellarsi.

  3. enzo
    | Rispondi

    @paolo appunto: ribellarsi, non rivedersi comodamente in un fumetto; e ribellarsi senza latrare "governo ladro" ecc. per poi tranquillamente chiedere all'amico dell'asl come avere esenzioni da ticket. la ribellione parte da noi stessi, credo. ciao ciao

  4. Kaisaros
    | Rispondi

    "Tutto si consuma in fretta, in Italia, tranne la passione per la pizza, per la mamma e per la squadra del cuore".

    Che bel ritratto !!!

    Grazie di cuore,ma la prossima volta

    non si dimentichi mandolino e mafia eh !!!

  5. faso
    | Rispondi

    «Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi», non lo dice una sentenza popolare ma berthold brecht… la saggezza popolare li adorava gli eroi, un tempo, quando non c'era la televisione e la gente non aspirava a diventare tronista, calciatore o velina

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