Massimo Fini, da oltre trent’anni, ha sviluppato una linea di pensiero coerente, radicale e controcorrente. Il suo pensiero ribelle, non omologabile entro i rigidi confini segnati dall’intellettualmente corretto, prese avvio con la pubblicazione nel 1985 del saggio La ragione aveva torto?, assai criticato dalle guardie bianche del sistema. Seguirono altri libri, nei quali lo scrittore sviluppò, sulla scorta delle conclusioni cui era pervenuto nel primo, alcuni aspetti dirimenti della sua critica alla modernità. In particolare, furono “stazioni” significative del viaggio non conforme di Fini, i seguenti volumi: Elogio della guerra, Il denaro. “Sterco del demonio”, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Sudditi. Manifesto contro la Democrazia, Il Ribelle dalla A alla Z. Il lettore può ora aver contezza dell’evoluzione teorica dello scrittore, grazie alla recente pubblicazione di La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle, nelle librerie per Marsilio editore (euro 24,00), che raccoglie gli scritti sopra ricordati, oltre alla presentazione di Salvatore Veca.
Quest’ultimo fa rilevare che l’opera è l’esito di un implacabile corpo a corpo condotto con le convenzioni e il senso comune contemporanei. Un conflitto intellettuale aperto con tutto ciò che è dato per scontato e presentato con i tratti dell’indiscutibilità dal potere culturale che, in ogni epoca, forma la sensibilità delle masse. Fini ha avuto l’indubbio coraggio di mettere in discussione ciò che discende dai valori imposti dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione industriale, nonché dal liberalismo, dal positivismo e dal marxismo. Egli mette in atto “…l’esercizio del sospetto e del dubbio nei confronti degli effetti della Modernità sui nostri modi di vivere e convivere” (p. VII) e ciò lo ha indotto al rigetto dei valori portanti del nostro mondo. Capirà bene, pertanto, il lettore che i contenuti del volume, non solo rimangono ancor oggi di strettissima attualità, ma rinviamo ad un esito pratico. Non si può uscire dalla lettura di queste pagine indifferenti rispetto ai temi che in esse vengono presentati. Il coinvolgente stile da reportage adottato dall’ “inviato speciale” Fini sul “fronte di guerra” della modernità, è supportato da intuizioni e frecciate in stile longanesiano, che costringono il lettore a prendere posizione, a schierarsi. Se a ciò si aggiunge che l’autore si serve, a supporto delle proprie tesi, di una massa imponente di dati storiografici, sociologici, economici, se ne deduce che il volume può davvero contribuire a costruire un’azione politica alternativa al sistema vigente.
Salvatore Veca, nella Presentazione, rileva che l’originalità di Massimo Fini non dipende dalla sua appartenenza al novero degli scrittori antimoderni ma, e ciò è paradossale, dal fatto che la spinta ideale delle sue critiche prende le mosse dal dubbio e dalla inchiesta razionale, tratti essenziali della cultura illuminista. Tale aspetto marcherebbe la prossimità di Fini a Isaiah Berlin, storico dell’etica, che pur non avendo rinunciato ai “grandi” ideali dell’Illuminismo, nei propri scritti, lasciò ampio margine alla discussione di pensatori antimoderni. Veca, inoltre, inserisce Fini, per la radicalità della prospettiva esegetica, tra gli autori che si sentono osservatori del mondo moderno: “L’osservatore è esterno alla forma di vita su cui svolge indagini. Il suo discorso sullo stato delle cose presuppone uno sguardo da un altro luogo…da una distanza incolmabile” (p. IX). Tale giudizio rinvia a ciò che, a proposito di Guénon, caposcuola del “tradizionalismo integrale”, è stato rilevato da Roberto Calasso, direttore editoriale dell’Adelphi:“Mentre i critici della cultura, anche i più radicali…hanno sempre mantenuto numerosi legami con l’oggetto che attaccavano, Guénon è l’unico…ad aver rescisso tutti quei legami e ad aver descritto il mondo occidentale, come contemplandolo da una remota distanza” (IV di copertina de Il regno della quantità e i segni dei tempi, 1982). A noi pare, invece, che Fini, pur con i meriti che non gli possano esser negati, sia, per usare l’espressione di Veca, un critico partecipante della modernità. Egli indaga cioè dall’interno le contraddizioni, le tensioni e la crisi del moderno, indicandone rischi, limiti e pericoli. Del resto, egli stesso tiene a distinguersi dagli antimoderni per antonomasia e dal tradizionalismo, quando scrive: “Non sono un irrazionalista alla Guénon o alla Evola (gente rispettabilissima ma con la quale ho poco a che vedere)” (p. 928). Nonostante tale diversità, crediamo, per indole e non per scelta culturale, egli riesca comunque a dire come Bartleby, personaggio di Melville, un secco no allo stato presente delle cose.
In La Ragione aveva torto? sceglie quale proprio antecedente lo studio di Peter Laslett relativo al “mondo che abbiamo perduto” e sviluppa con metodo, alla luce di rilevanti dati statistici, il confronto tra la società di Antico regime e quella moderna. Il mondo pre-moderno che ci descrive, appare più sapiente ed equilibrato, centrato sul rapporto diretto nobile-contadino, i quali, in una società interamente costruita sulle identità, conoscevano tutto l’uno dell’altro e, per questo, si rispettavano. Il criterio del confronto alla base delle analisi di Fini è esistenziale, mirato a sviscerare, non solo le reali condizioni di vita nelle due epoche, ma altresì le situazioni emotive sulle quali si basavano le relazioni interpersonali e quelle uomo-mondo. L’autore si dice certo che la “macchina” della modernità non verrà fermata e quindi prospetta una fine catastrofica della società narcisista, in cui si vive senza memoria, deprivati della progettualità politica.
Forte di tale pessimistica conclusione, come si evince dalla pagine del volume, Fini ha radicalizzato la critica alla modernità. La cosa è chiarissima fin dai titoli. Si pensi all’Elogio della guerra, che contrasta nettamente i principi della religione dominante, dei “diritti dell’uomo”, o a Il denaro. “Sterco del demonio”. Nelle sue pagine assistiamo alla messa sotto accusa della società globalizzata, che ha realizzato la mercificazione universale dell’esistenza e la reductio ad unum di popoli e tradizioni. Ne Il vizio oscuro dell’Occidente e in Sudditi, è il totalitarismo morbido delle democrazie liberali, trasformatesi nel regime della governance, espropriatore di libertà, ad essere messo in discussione.
Ne Il Ribelle, infine, memore di Jünger, presenta la solitudine metafisica e sociale di chi è costretto a vivere in un tempo non suo e al quale contrappone un risoluto no. Egli, cavaliere solo, come l’uomo in rivolta di Camus, fa parte a sé. Sa che libertà e ordine morale vivono ancora negli spazi più reconditi della coscienza individuale. Per questo dice semplicemente si a se stesso: condizione della rivolta contro il mondo moderno ed esempio da seguire.
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