L’unità dell’Essere e la magia del Tutto

cerchioNel Poema sulla natura Parmenide sostiene che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e afferma, contrariamente al senso comune, la realtà dell’Essere: immutabile, ingenerato, finito (cioè completo, compiuto), immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno. Tale concezione riecheggerà nella prospettiva fondamentale della metafisica nata dalla scuola del filosofo e mistico sufi Ibn ’Arabi, circa l’“unicità (o unità) dell’esistenza”, designata con l’espressione wahdat al wujûd. Secondo tale dottrina lo sguardo purificato del mistico, coglierebbe l’esistenza, l’esserci delle cose, come ben più che una qualità o un accidente aggiunto a delle supposte sostanze: tale esistenza si manifesterebbe invece, nella sua origine, come una realtà in atto, la sola sussistente, pura e senza attributi, al di là delle modificazioni e delle determinazioni che sono le sue forme interne e in definitiva illusorie. Secondo la prospettiva di questa metafisica, come scrisse lo studioso di religioni Toshihiko Izutsu: «La struttura della realtà esteriore implicata dalla preposizione “Il fiore è esistente” si rivela essere completamente differente da quello che la forma grammaticale suggerisce. Ciò che esiste al senso pieno del termine, è l’esistenza, come assoluto indeterminato, non il fiore. Essere-un-fiore non è che una determinazione speciale di questo assoluto indeterminato. Non è che una forma particolare nella quale l’esistenza si rivela a sé stessa nella dimensione del mondo detto esteriore. In altri termini, il fiore è un accidente che qualifica l’esistenza e la determina in una certa forma fenomenica» (1). La wahdat al wujûd, quindi, non è che il riconoscimento – ad un grado trascendente – del fatto che l’esistenza ha il suo fondamento nell’Essere di Dio, ed è perciò “unica”. E’ chiaro, però, che l’essere umano, se vuole conoscere, deve superare l’opposizione soggetto-oggetto in cui è confinata la sua visione quotidiana.

Una siffatta visione, che oggigiorno non esiteremmo a definire olistica, è possibile rinvenirla in molti grandi pensatori della filosofia occidentale. Ad esempio, secondo Plotino, il “semplice” è ciò che sta alla base della vita. E questo “semplice” che sta alla base del composto non può essere un’entità materiale, in quanto qualunque oggetto esteso spazialmente può essere pensato e diviso a metà, quand’anche non lo si riesca realmente a spezzare. Neanche gli atomi possono costituire il principio primo perché sono a loro volta potenzialmente divisibili. La vita dunque, secondo Plotino, nasce non da combinazioni atomiche, bensì da un principio interiore, semplice, e immateriale: l’anima. A sua volta la molteplicità di anime presenti nel mondo è comprensibile solo ammettendo che tutte abbiano la stessa origine. Infatti, non possono esistere più “Uno”, perché in tal caso non sarebbero più Uno ma molti. L’Unità che sta a fondamento delle anime dev’essere dunque la stessa per tutte. Questa unità è l’Anima del mondo, la quale a sua volta si fa veicolo delle idee platoniche negli organismi, andando a costituire la loro ragione formante o lògos. Per Plotino il mondo intero è un organismo vivente e ogni parte dell’universo è legata ad ogni altra parte. E un bel giorno diede a un suo discepolo questo consiglio: «per raggiungere l’unione con l’Uno, spogliati di tutto». Un consiglio simile ebbe a darlo ad un discente anche Spinoza: «Dobbiamo accantonare i beni del mondo per cercare l’unione che la mente ha con l’intera Natura» disse.

timeoTalete affermava che “ogni cosa è piena di Dèi”, Platone asseriva che “il mondo è un Dio benedetto”, sostenendo che il mondo fosse una sorta di grande animale, la cui vitalità fosse supportata da un’anima (la c.d. Anima del Mondo), infusagli dal Demiurgo, che lo plasma a partire dai quattro elementi fondamentali: fuoco, terra, aria, acqua. «Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla Provvidenza divina» (2) avrà ad asserire in un dialogo cosmologico del Timeo. Il concetto platonico di “anima del mondo” trovò in seguito un corrispettivo nel Lògos dello stoicismo, concepito in forma immanente come presenza del divino nelle vicende del mondo, ossia come συν-παθεία (syn-pathèia), sentimento di compassione che unifica la sfera soprannaturale con quella umana.

«L’intero creato costituisce una simbolica riflessione di Dio», sosteneva in piena Rinascenza Pico della Mirandola. Mentre in un’opera capitale della filosofia italiana Del senso delle cose e della magia di Tommaso Campanella, il mondo viene presentato come un grande organismo vivente: qui egli afferma che tutto «sente», anche il fuoco, l’acqua, le pietre, tutti «sentono», altrimenti il mondo sarebbe solo caos, «perché il fuoco non andaria in alto, né l’acqua al mare, né le pietre caderieno in giù, ma ogni cosa dove fusse posta si rimarrebbe, non sentendo la sua destruzione tra contrarii, né la conservazione tra simili» (3). Nella Metaphysica, un’opera in diciotto libri del 1638, Campanella avrà inoltre a scrivere che tra tutti gli enti, sia quelli tradizionalmente considerati viventi che quelli privi di vita, vi è come un reciproco sentimento di attrazione e repulsione tale da far pensare che l’amore sia dappertutto: «l’antipatia e la simpatia di tutte le cose dimostrano chiaramente che in esse tutte si trova l’amore». Similmente, per Giordano Bruno: «tutte le cose sono piene di spirito, di anima, di nume, di Dio o divinità e l’intelletto è tutto dovunque e l’anima è tutta dovunque» (4).

Leibniz nel XVII secolo concepisce tutto l’universo come popolato da centri di energia o monadi, che sono dotate ognuna di proprie personali rappresentazioni, anche se spesso inconsce. Ogni monade è un’entelechia impermeabile e chiusa in se stessa, ma le sue rappresentazioni trovano corrispondenza con quelle altrui perché sono tutte coordinate da Dio, come tanti orologi sincronizzati tra loro, secondo un’armonia prestabilita. Le varie percezioni di ogni singola monade si combinano così fino a formare un quadro complessivo e unitario che è l’appercezione divina. Leibniz si propone così di correggere la concezione di Cartesio, che aveva postulato una rigida separazione tra res cogitans e res extensa, in base alla quale si avrebbe da una parte il pensiero (o la coscienza), e dall’altra la materia inerte, concepita in forma meccanica. Postulare due sostanze è per Leibniz una visione irrazionale, per rimediare alla quale si deve necessariamente supporre che pure la materia apparentemente inorganica abbia proprie percezioni. Nel 1751 Maupertius, allora presidente dell’Accademia delle Scienze di Berlino sotto l’egida dell’illuminato sovrano Federico II di Prussia, pubblica la Dissertatio inauguralis metaphysica de universali naturæ, nella quale elabora l’ipotesi di un panpsichismo universale (contenente anche una forma di monismo neutrale), da opporre alle tesi materialistiche d’impianto meccanicistico e riduzionistico, in cui gli elementi, dotati di un potere embrionale di percezione e coscienza, agiscono secondo un fine immanente stabilito da Dio.

Durante il secolo dei Lumi, un caso a se è rappresentato dalla figura poliedrica di Goethe, il quale in un mondo dove la spiritualità si andava eclissando di fronte alla prevaricazione dell’illuminismo radicale e del materialismo, dette prova di essere un genio totale e compiuto: dotato, infatti, di una natura particolarmente intuitiva, affinata in gioventù con lo studio di grandi filosofi quali Platone, Aristotele, Plotino, Spinoza, Leibniz, di dottrine sapienziali quali l’ermetismo e l’alchimia e di autori quali Paracelso, Agrippa, Boehme, Goethe fu sempre ispirato da un deciso neoplatonismo, che traspare, ad esempio, anche dai versi di una sua poesia, Uno e Tutto, il cui titolo appare già molto significativo:

«Esso deve essere in movimento, agire creando,
Prima assumere una forma, poi trasformasi;
Solo in apparenza esso sta talvolta in quiete,
L’Eterno è continuamente in moto:
Giacché deve disperdersi nel nulla
Tutto ciò che vuol persistere nell’immortalità» (5).

Cosicché nel 1784 poteva scrivere ad un confidente, richiamandosi al pensiero alchemico come guida nell’approccio alla natura, che «l’accordo con il tutto rende ogni creatura ciò che essa è […]. E così, di nuovo, ogni creatura è solo un suono, una sfumatura di una grande armonia». Goethe credeva fermamente in Dio, ma il suo Dio non era quello biblico-evangelico, piuttosto, si avvicinava alle divinità olimpiche della Grecia classica, tant’è che Nietzsche ebbe a definirlo un «sincero pagano». Lontano anni luce dal meccanicismo, per Goethe il motore di tutto ciò che esiste è una attività pura, quasi un “wei wu wei” taoista, un “agire senza agire”, non di certo un moto casuale o una cieca forza meccanica.

«L’Universo è collegato da invisibili fili, non da tutti percepiti; bisogna esercitarsi a riconoscere gli spirituali legami tra le cose che dall’immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente un sola», affemava Rosmini (6). Mentre il secolo scorso Alfred North Whitehead, autore assieme a Bertrand Russell dei Principia Mathematica, vedeva la natura, attraverso tutti i suoi cambiamenti, come un’entità intera e inclusiva, e rifiutava il dualismo mente-corpo, considerando che «ogni attualità concreta deve essere vista come un soggetto» (7). Così i concetti di soggetto e oggetto per Whitehead non solo devono abbracciarsi, ma in realtà sono legati inestricabilmente l’uno all’altro in un contesto concreto di avvenimenti. All’interno di un avvenimento «soggettività e oggettività si avvolgono a vicenda» (8) affermava.

Il filosofo e psicologo tedesco Gustav Fechner riteneva che l’intero universo avesse una natura spirituale, il mondo dei fenomeni essendo solo la manifestazione esteriore di questa realtà spirituale. Asseriva, infatti, che ciò che a se stesso risulta di natura psichica agli altri appare fisica. Diceva: «ognuno di noi percepisce se stesso come un’entità psichica ma vede gli altri come corpi. Da questa esperienza primordiale, per analogia, ci pare credibile che l’intero mondo di fenomeni è un velo che nasconde ai nostri occhi la vera natura interiore del mondo fisico. Così come nessuno di noi desidera essere trattato come un corpo solo, anche il mondo “altro” desidera essere conosciuto come soggetto e non come oggetto» (9). Così Fechner vedeva la coscienza come una caratteristica di tutto ciò che esiste, persino degli atomi che sono solo gli elementi più semplici in una gerarchia che conduce a Dio, che egli considerava l’anima dell’universo. Lo stesso Fechner scrisse: «In una calda giornata d’estate stavo in piedi vicino a uno stagno e contemplavo una ninfea che aveva steso le sue foglie equamente sull’acqua e con il fiore aperto si crogiolava alla luce del sole. Che fortuna eccezionale, pensai, ha questa ninfea che sopra gode del sole e sotto è immersa nell’acqua – se solo fosse capace di sentire il sole e il bagno. E perché no? Mi chiesi. Mi sembrò che la natura non avrebbe sicuramente creato una creatura così bella, e così perfettamente disegnata per queste condizioni, solo per essere l’oggetto dell’osservazione casuale… ero incline a pensare che la natura l’aveva così costruita perché tutto il piacere che si possa derivare dal godere contemporaneamente il sole e l’acqua fosse goduto da questo essere nella misura più piena possibile» (10). Fa eco a tali considerazioni un verso della poesia del poeta inglese Wordsworth, intitolata Lines written in early spring, in cui si legge: «Ed è la mia fede che ogni fiore gode dell’aria che respira».

mandalaUn’enciclopedia filosofica pubblicata negli Stati Uniti nel 2006, a proposito di questa visione del mondo, definita “Panpsichismo”, riporta che: «Anche se il panpsichismo sembra ora incredibile alla maggior parte delle persone, è stato accolto in un modo o l’altro da molti pensatori eminenti sia nell’antichità che in tempi più recenti». Infatti questa concezione sembra essere nata sin dagli albori dell’umanità, rappresentando un tratto caratteristico del paganesimo e delle religioni animiste, secondo cui ogni realtà, anche apparentemente inanimata, contiene una presenza spirituale, collegata all’anima del tutto. Nel politeismo, infatti, le divinità erano proprio espressioni personificate di queste forze o energie della Natura, e concepite ad essa immanenti. Si tratta di una visione antitetica al meccanicismo: per quest’ultimo gli organismi sono il risultato della combinazione di più parti, originariamente separate tra loro, che unendosi accidentalmente costruiscono l’essere vivente. Mentre secondo il panpsichismo la vita non opera assemblando singole parti fino ad arrivare agli organismi più evoluti e intelligenti, ma al contrario parte da un principio unitario e intelligente da cui prendono forma le piante, gli animali, e gli esseri umani. Parallelamente alle forme con cui si è presentato in Occidente, il concetto di anima del mondo si è sviluppato in maniera simile anche in Oriente, presso le religioni asiatiche come il buddismo, il taoismo e l’induismo, dove analogamente prevale l’idea che l’universo sia animato da una forza compatta e unitaria: per l’induismo e il buddismo esso è l’Ātman, principio del Sé individuale e interiore, unito indissolubilmente a Brahman, principio del mondo esteriore. In Cina è il Tao, attività unificatrice del dualismo cosmico yin e yang nel quale essa stessa si polarizza, articolandosi secondo una visione armonica e organica dell’universo. Secondo il buddismo, in particolare, l’ego che separa le anime individuali è in realtà illusorio, perché al fondo esse sono una realtà sola; di qui la raccomandazione di esercitare la compassione, tramite cui è possibile riconoscere se stessi negli altri.

Rispetto a siffatte concezioni, il modo di procedere della teoria atomistica risulta invece rovesciato: tale visione era apparsa per la prima volta in Democrito, secondo cui tutta la realtà risulta composta da atomi, soggetti a leggi di causa-effetto; l’anima secondo Democrito non esiste, o meglio è qualcosa di puramente materiale, soggetta al divenire e alla morte. Questo determinismo meccanicista verrà ripreso in età moderna dall’empirismo anglosassone. Oggi, altresì, regna l’idea che la coscienza sia una “proprietà emergente”, che appare solo con la comparsa sulla terra di un organismo abbastanza complesso. Ma questa idea, a ben vedere, sostiene una visione antropocentrica del mondo. Tale concezione, completamente profana, è stata prefigurata già dal giudaismo e dal cristianesimo che tramandano una nozione di tempo lineare, in cui la storia prende il posto degli avvenimenti del mito. Mircea Eliade ebbe a dire che «l’uomo moderno vive disorientato», e aveva ragione da vendere, l’uomo moderno non ha infatti più alcun punto di riferimento, è decontestualizzato, alienato, abbandonato a se stesso in un universo infinito che si dimostra indifferente, che non gli comunica più nulla, se non un grande senso di smarrimento. Sotto un certo aspetto osserviamo quanto ebbe a notare Titus Burckhardt, cioè che: «le scienze naturali e la filosofia moderna sono come i due frammenti di un’entità perduta, l’uno dei quali si sviluppa verso la oggettività, l’altro verso la soggettività. L’entità andò perduta quando il suo asse sicuro, che altro non è se non la teoria tramandata dello spirito, fu abbandonato» (11).

Whitehead ebbe a sostenere che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone». Questo è abbondantemente vero. Ciononostante, ci è dato constatare come l’influsso del Platonismo, notevole sino all’età umanistico-rinascimentale, si eclissi rapidamente nel corso della modernità, a vantaggio di altre filosofie tipicamente moderne, che fanno capo ad autori come: Galilei, F. Bacone, Cartesio, Marx, propugnatori di filosofie per certi versi molto diverse e talvolta antitetiche tra loro, ma assimilabili per la presenza di decisivi tratti comuni, come: la contrapposizione uomo-natura (e quindi il ripudio della vecchia “unione”); l’antropocentrismo (o meglio, “egocentrismo”); la nuova fede nell’attivismo progettante.

La scissione uomo-natura creerà un mondo sempre più avviato verso la disperazione e l’odio. Concependo la natura come altra da sé, come “materia” da plasmare, l’uomo si costruisce un mondo meccanizzato e si realizza egli stesso come automa, in piena opposizione all’animismo, al vitalismo e al panpsichismo della natura degli antichi. Per certi versi, il materialismo utilitarista e positivista che domina la nostra epoca sembrerebbe l’espressione non di una scelta storica e di un percorso culturale, ma dell’involuzione delle menti degli uomini verso uno stato di sonno materialistico. Ciò rispecchia il tema tradizionale del crepuscolo degli dèi, o Ragnarök, assimilabile al Kali-yuga, l’età oscura di cui parlano i testi sacri dell’antica India, e non è molto lontano dal mito greco dell’età del ferro. Il concetto di crepuscolo degli dèi indica infatti il tramonto del divino e della trascendenza rispetto all’orizzonte umano. Viene a verificarsi, dunque, quell’«opposizione fra super-realismo e umanismo, che separa ciò che è tradizionale da ciò che è moderno» (12).

Ad esempio, mentre «l’idea tradizionale dello spazio molto spesso si confonde con quella stessa dell’ “etere vitale” – l’akasha, il mana – mistica sostanza-energia onnipervadente, più immateriale che materiale, più psichica che fisica, spesso concepita come “luce”, distribuita secondo saturazioni varie nelle varie regioni, sì che ciascuna di queste appare possedere virtù proprie e partecipare essenzialmente alle potenze che vi risiedono» (13), «lo spazio dei moderni è un luogo degli oggetti e dei movimenti astratto e impersonale» (14).

Inoltre, riguardo la relazione basale fra Io e non-Io, Julius Evola ebbe a notare che: «Tale relazione solamente nei tempi ultimi è stata caratterizzata da una separazione netta e rigida. Risulta dunque che nelle origini le frontiere fra io e non-Io erano invece potenzialmente fluide e instabili, tali che in certi casi potevano venire parzialmente rimosse, con una doppia possibilità come conseguenza: la possibilità di irruzioni sia del non-Io (cioè della “natura”, nel senso delle sue forze elementari e del suo psichismo) nell’Io, sia dell’Io nel non-Io» (15).

magritteSimilmente Giovanni (Leo) Colazza in Introduzione alla magia quale scienza dell’Io asserisce che: «Nella terra, nell’acqua e nell’aria vi sono forze che sanno di essere: l’uomo deve riconoscersi come un ente compartecipe dell’armonioso e comunitario rito cosmico che si compie nella vita quotidiana, in ogni processo della natura e nel suo essere» (16). E Titus Burckhardt avrà a dire: «là ove la Conoscenza si unisce al proprio essere, e dove l’Essere conosce sé nella sua immutabile attualità, non si ragiona più dell’uomo. Lo spirito in proporzione al suo profondarsi in tale condizione, si fa identico, non all’uomo individuale, ma all’Uomo universale (al-insân al-kâmil), che costituisce l’unità intrinseca d’ogni creatura. […] L’Uomo universale non è realmente separato da Dio; è come il Suo Volto nelle creature. Per il tramite dell’unione con lui, lo spirito s’unisce a Dio» (17). Molto indicativi sono in tal senso i versi di quel grande poeta e mistico che fu Fernando Pessoa:

«Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non avere nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
e un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che mai è quello che si vede quando la finestra si apre» (18).

Questo ritorno all’unità di vertice del sapere, al di là delle scissioni razionalistiche e all’inevitabile settorializzazione della conoscenza odierna, riteniamo imprescindibile porre come obiettivo e come modello per una scienza organica e antiriduzionista. Un aiuto in tal senso può giungerci da questa riflessione di Martin Heidegger, il quale ripropone la questione del senso e della verità dell’essere, che egli vede chiaramente caduta in oblio. Oblio dell’essere (Seinsvergessenheit) che significa per Heidegger la dimenticanza del proprio essere in contrasto col nulla e la mancanza dello stupore che questo incontro dovrebbe suscitare. Egli dirà che: «Solo l’uomo fra tutti gli essenti può conoscere, chiamato dalla voce dell’essere, la meraviglia delle meraviglie: che qualcosa è» (19). Perché come scrive Marcel Proust nella Recherche: «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi» (20).

NOTE

(1) Toshihiko Izutsu, Sufism and Taoism: A Comparative Study of Key Philosophical Concepts.
(2) Platone, Timeo.
(3) Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia.
(4) Giordano Bruno, De magia.
(5) Johan Wolfgang Goethe, Uno e Tutto.
(6) Antonio Rosmini, Introduzione alla Filosofia.
(7) A.N. Whitehead, Symbolism, Its Meaning and Effect.
(8) A.N. Whitehead, Symbolism, Its Meaning and Effect.
(9) Gustav Fechner, Elemente der Psychophysic.
(10) Gustav Fechner, Elemente der Psychophysic.
(11) The Essential Titus Burckhardt: Reflections on Sacred Art, Faiths, and Civilizations.
(12) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno.
(13) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno.
(14) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno.
(15) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno.
(16) Gruppo di Ur, Introduzione alla magia quale scienza dell’Io.
(17) The Essential Titus Burckhardt: Reflections on Sacred Art, Faiths, and Civilizations.
(18) Fernando Pessoa, Versi sciolti.
(19) Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?
(20) Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

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2 Responses

  1. landolfo
    | Rispondi

    Mi permetto di suggerire, a completamento della lista degli autori che tentano di superare la concezione dualistica del mondo, i contributi in parecchi campi delle scienze umane e biologiche di Gregory Bateson, non a caso considerato troppo materialista dai mistici e troppo mistico dai meccanicisti.

  2. Simone
    | Rispondi

    Articolo molto interessante!

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