Ritorno sulla questione dell’origine, questa volta in relazione al sacro. Inutile dire che queste poche parole altro non sono che un frammento, un ‘lacerto’ d’indagine, se paragonate alla vastità del tema. In breve, non sono nulla più di un semplice segnavia per future ricerche.
A Roma Giano era sia il dio per eccellenza degli inizi, che il signore dei passaggi (l’etimologia dà conto di entrambe le funzioni: la porta, ianua, deriva dal suo nome, come anche il mese di gennaio, Ianuarius, col quale iniziava l’anno). Giano è dunque il dio “che dà inizio, il dio dei primi cominciamenti”[1], e il dio “che introduce” (Schilling); per cui, come già detto, non è solo colui che presiede agli inizi, ma anche colui che ‘sorveglia’ le soglie, i passaggi, che veglia sui luoghi dove s’intersecano interno ed esterno. Giano ‘apre’ e custodisce, insieme, il tempo e lo spazio. Da qui le sue due facce, la sua peculiarissima bifaccialità, al fine di “proteggere le due parti dello spazio e le due metà del tempo, il prima e il dopo”[2]. Perché se Giano ha potere sui prima, su ciò che è primo dal punto di vista cronologico, ha potere anche sul ‘dopo’, sul futuro, non solo grazie a capacità divinatorie (si veda l’anonima Origo gentis Romanae 3,7 e Macrobio, Saturnalia I, 7, 20) quanto soprattutto, ed è l’aspetto davvero essenziale, perché dio dei “(ri)cominciamenti”[3].
Daccapo: che Giano sia il dio degli inizi lo conferma ancora Agostino, prima in De civitate Dei VII, 7 (“ad eum [cioè a Giano] dicuntur rerum initia pertinere”), poi ricordando una assai significativa testimonianza di Varrone al riguardo (De civitate Dei VII, 9, 1), per infine concludere, ribadendo che “ad Ianum pertinent initia factorum” (De civitate Dei VII, 9, 1). In effetti, però, l’inizio ‘governato’ da Giano non è solo temporale, ma a mio parere anche ontologico. Si tratta di un punto della massima importanza, perché giustifica l’accostamento del dio all’esser-ci dell’origine. Ad esempio, da due frammenti del Carmen Saliare, riportati dallo stesso Varrone (De lingua latina VII, 26-27), emerge la figura di Giano come “creatore”, come un “dio degli Dei”[4], ossia un dio che dà origine a una vera e propria teogonia. Ma soprattutto è Ovidio, in un passo fondamentale dei Fasti, ad attribuire a Giano l’origine di ogni cosa, oltre la custodia delle porte dei cieli, tanto che persino Giove entra ed esce dalle porte celesti solo grazie a lui (Fasti I, 117-127; cfr. anche Macrobio, Saturnalia I, 9, 11).
Eppure Giano non è solo un dio relegato nell’illud tempus delle origini, ossia in una vertiginosa, astorica, mitica lontananza. Tutt’al contrario, è un dio che guarda anche al futuro. E non semplicemente in quanto in grado di divinarlo. Piuttosto, e innanzitutto, Giano è il dio che si volge al futuro perché signore dei ri-cominciamenti, cioè dei nuovi inizi, a conferma di una sua funzione non statica, immota, ‘imprigionata’ nella malia di un inizio non più rinnovabile ma solo ‘meccanicamente’ ripetibile nel rito, bensì destinata, dinamicamente, a ‘fare’ il divenire storico.
Nondimeno, sempre Ovidio provvede a complicare il discorso, laddove (Fasti I, 95-96), in un contesto dove, non a caso, è centrale la meraviglia per l’epifania subitanea di un dio ancipite nel suo essere bifacciale, Giano viene definito sacer[5]. Ora, nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Émile Benveniste nota che è proprio il latino sacer a inglobare “la rappresentazione per noi più precisa e specifica del ‘sacro’. È in latino che si manifesta meglio la divisione tra il sacro e il profano; è ancora in latino che si rivela il carattere ambiguo del ‘sacro’: consacrato agli dei e carico di una colpa incancellabile, augusto e maledetto, degno di venerazione e che suscita l’orrore. Questo duplice valore è proprio di sacer”[6]. Una ambiguità che si mostra prepotentemente anche nel rapporto tra sacer e sacrificare, tanto che è lecito domandarsi “perché ‘sacrificare’ vuol dire di fatto mettere a morte quando propriamente significa ‘rendere sacro’ (cfr. sacrificium)?”[7]. E per rafforzare il discorso e al contempo spostarlo su un piano ancor più problematico, Benveniste richiama un testo famoso di Festo sull’homo sacer: “At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur”[8]. Qui sacer è colui che non deve essere sacrificato ma può essere impunemente ucciso, dal momento che il suo uccisore non sarà per questo condannato. Il che comporta, stante la condivisibile interpretazione di Luigi Garofalo, che non solo l’immolazione dell’homo sacer era espressamente vietata da una norma del fas, ma la stessa uccisione irrituale era sì ammessa, restandone però fermo il suo carattere di eventualità, non di necessità[9]. In altre parole l’homo sacer non era affatto inesorabilmente destinato a morte certa, e questo nonostante alcuni passi, molto tardi, di Macrobio sembrino propendere per una doverosità dell’uccisione (cfr. Saturnalia III, 7, 3-8).
La questione sarà allora: può la dirompente, costitutiva aporeticità di ciò che è sacer investire la stessa figura di Giano? Può anche il dio essere messo al bando, sottoposto a esclusione, reso uccidibile? Può insomma subire lo stesso destino dell’homo sacer? E se ciò fosse possibile, questo non significherebbe l’oblio degli inizi, il tramonto dell’origine, la sua tragica eclissi? E in questo contesto avrebbe ancora senso parlare dei ‘ri-cominciamenti’ del dio? Come potrebbe Giano far sì che l’inizio inizi di nuovo? La risposta, appena accennata, andrà cercata nel carattere solo eventuale dell’uccisione. La ‘morte’ del dio resta ‘appesa’ alla libertà dell’evento. Il che significa che per Giano potrà darsi un giorno anche l’evento del suo ri-cominciamento.
ottobre 2016
Note
[1] J. Champeaux, La religione dei romani, il Mulino, Bologna 2002, p. 34.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] “Duonus Cerus es, du(o)nus Ianus” e “Divom em p[t]a cante, divom deo supplica[n]te”.
[5] Riporto il passo nella sua interezza: “tum sacer ancipiti mirandus imagine Ianus bina repens oculis obtulit ora meis”.
[6] É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino 1976, p. 426.
[7] Ibid.
[8] Festo s.v. Sacer mons (Lindsay 424): “uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide non sarà condannato per omicidio”.
[9] Cfr. L. Garofalo, “Il diritto e il sacro in Elémire Zolla”, in Diritto@Storia, n° 12, 2014 (articolo consultabile in rete).
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