La lingua dell’Occidente contro le lingue dell’Europa

La lingua, secondo Heidegger, è “la casa dell’essere”. La difesa delle lingue europee contro la peste americana è una linea di combattimento che riguarda la nostra stessa essenza di Europei.

In uno “speciale” dell’”Espresso” di alcuni anni fa (19 novembre 1998) dedicato ai gerghi giovanili di fine millennio, un testo di Raffaele Simone terminava con un sommesso ma chiaro grido d’allarme: “Le ultime generazioni di giovani (…) hanno spostato, senza quasi che nessuno se ne accorgesse, alcune regole del gioco culturale. Noi siamo cresciuti nella convinzione che convenisse essere articolati, strutturati, che il linguaggio dovesse essere ricco, preciso e accorto; che le distinzioni dovessero essere sfumate, e che comunque distinguere fosse meglio che confondere, fondere o mescolare. Insomma, siamo cresciuti nella convinzione che una delle funzioni principali del linguaggio sia quella di aiutarci a essere articolati e precisi. (…) Oggi, invece, dall’universo della precisione stiamo regredendo verso quello del pressappoco: il linguaggio delle ultime leve giovanili (…) è generico (…) Rifiuta le messe a punto precise, le focalizzazioni rigorose: lascia tutto indefinito, in una sorta di insipido brodo di significati (che poi è forse proprio il brodo di cultura del New Age…)”.

Adempiuta la formalità “pluralistica” di riservare una mezza paginetta anche al punto di vista critico, “L’Espresso” impostava però la sua inchiesta in tutt’altro senso, presentando ai lettori la neolingua “under-18” come “uno slang scherzoso, ludico, creativo e fantasioso”. In ogni caso, se la concezione democratica della lingua proibisce ai lessicografi di orientare e li costringe a piegarsi all'”autorità dell’uso” e quindi a registrare supinamente, non sarà certo “L’Espresso” a dar lezioni di purismo…

D’altra parte, dell’attuale degrado della lingua italiana non sono certo i gerghi giovanili i soli colpevoli, e neanche i maggiori. Infatti, la principale arma culturale impiegata dall’Occidente nel suo attacco contro l’Europa è l’influenza linguistica esercitata dall’inglese. A dir la verità, più che della lingua di Oxford e Cambridge si tratta delle parlate semiumane della California, del Bronx e della Casa Bianca, vale a dire “del bel paese là, dove okay suona”; o meglio, dove suonò la prima volta, per esser poi adottato dalle scimmie dell’universo “mondo occidentale”. Si tratta ormai di uno pseudoinglese “globale”, una sorta di neoesperanto privo di ogni rapporto con la lingua di Shakespeare e di Pound, una lingua franca senza sintassi e impiegabile solo per fini pratici e limitati. “Per comprare un pacchetto di sigarette”, come dicono certi insegnanti di inglese. E se uno non fuma, che cosa se ne fa dell’inglese?

In un discorso pronunciato il 22 maggio 1995 a Bologna, in occasione della 50a Giornata della Società Dante Alighieri, Giovanni Nencioni non drammatizzava eccessivamente: “non conviene – disse – dar peso agli anglismi di moda, snobistici, destinati a tramontare (…) né a quelli che ammiccano intenzionalmente all’appartenenza al costume straniero, come fast food, che in bocca italiana ha la stessa intenzione connotativa di pizza o spaghetti in bocca americana”. Il vero problema, secondo l’autorevole esponente dell’Accademia della Crusca, sarebbero gli anglismi scientifici e soprattutto quelli tecnologici. E a tale proposito, Nencioni richiamava un analogo precedente della storia linguistica italiana: “la penetrazione, nell’Italia settecentesca, della cultura illuministica per mezzo del principale suo strumento, la lingua francese, che inondò l’italiano di francesismi, provocando una sdegnata reazione puristica”. Omnis comparatio claudicat, e questa analogia zoppica in maniera particolare. Lo stesso Nencioni d’altronde rilevava la differenza tra il francese del Settecento e il tipo di inglese attualmente in uso: “Quel francese era la raffinata voce del più elevato strato etico e speculativo di una cultura nazionale non molto settorializzata e radicata in un profondo humus umanistico”, mentre l’inglese attuale “ha assunto il compito di pragmatico interprete di relazioni internazionali e di diffusore dell’attività scientifica e tecnologica del mondo anglosassone (e del restante mondo che condivide quell’attività), con spirito, se non culturalmente neutrale, prevalentemente strumentale. Funge infatti da lingua settorialmente specificata (bancaria, commerciale, diplomatica, informatica ecc.) oppure circùita, nei suoi limiti di lingua naturale, quei risultati delle scienze pure ed applicate che negli aspetti più esoterici ed essenziali si servono di codici artificiali accessibili ai soli iniziati”.

Marco Merlini, La scrittura è nata in Europa? Prehistoric Knowledge Project E’ interessante che ad un intellettuale insospettabile come Nencioni sia venuto spontaneo evocare, in relazione alla funzione attualmente svolta dall’inglese, le nozioni di “esoterismo” e di “iniziazione”. Per quanto ci concerne e per restare in tale ambito di concetti, dobbiamo dire che più d’una volta siamo stati tentati di riconoscere nell’inglese odierno le caratteristiche di una “lingua sacra”, ma, ovviamente, in quel senso invertito del termine che si rapporta all’idea di “controiniziazione”, intesa nei termini precisati da René Guénon. Infatti, come la fase odierna della Zivilisation è caratterizzata da una parodia della religione (la New Age), del diritto sacro (i “diritti dell’uomo”), del culto dei martiri (l’”Olocausto”), del messianismo escatologico (la fine della storia all’insegna dell’universal trionfo liberalcapitalista), della musica liturgica (il jazz e il rock), dei luoghi di pellegrinaggio (New York), così l’Occidente ha anche una sua “lingua sacra”: l’inglese, per l’appunto. Nella sua valenza di lingua mondialista, l’inglese ci si presenta dunque come la contraffazione parodistica di quelle lingue, propriamente sacre o anche solo liturgiche, che hanno svolto o ancora svolgono una funzione di universalità rispetto ad una corrispondente ecumene tradizionale: ad esempio il cinese, il sanscrito, il latino, l’arabo.

Quanto al francese e al confronto dell’inglese con questa lingua, accennato più sopra da Giovanni Nencioni, possiamo approfondire l’argomento ricordando le considerazioni che Giacomo Leopardi faceva sui francesismi. “Certo è – leggiamo nello Zibaldone, 2501-2502 – che non ripugna alla natura né delle lingue, né degli uomini, né delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell’eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d’idee con parole e modi appresi e ricevuti da un’altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com’è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l’influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa”. In primo luogo, dunque, i francesismi che penetravano nell’italiano tra il Settecento e l’Ottocento erano degli europeismi, mentre gli anglismi odierni sono dei mondialismi, se ci è concesso di usare questi termini. In secondo luogo, se Leopardi riteneva che l’influenza del francese sull’italiano non pregiudicasse i princìpi dell’eleganza e del bello, chi oserebbe sostenere la compatibilità di tali princìpi con la lingua dell’occhèi?

Infatti la condizione sulla quale il Leopardi insiste, è che il barbarismo, oltre a non essere l’inutile doppione di un vocabolo italiano, “non ripugni dirittamente, anzi punto, all’indole generale e all’essenza della lingua, né all’orecchio e all’uso de’ nazionali” (Zibaldone, 2503). Ora, parole come spot, flash, staff, team, soft, hard ripugnano per l’appunto “all’indole generale e all’essenza” dell’italiano a causa della diversità di struttura fonetica, se non altro per il fatto che terminano in consonante. In una situazione normale, cioè se l’inglese fosse semplicemente una lingua tra le tante, diremmo che molte parole possono anche essere facilmente adottate e adattate, sulla traccia di beef-steak, trasformato in bistecca.

Ma per essere in grado di selezionare gli apporti forestieri, parlanti e scrittori italiani dovrebbero avere ciò di cui oggi essi scarseggiano in maniera particolare, ossia “finezza, profondità, istinto vivissimo del giusto, di quello che una lingua può assorbire, e di quel che non può in nessun modo esserle assimilato”. Così almeno la pensava Berto Ricci, uno che designava la civiltà dell’okay come “la civiltà del maiale”.

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Il pericolo americano non minaccia soltanto l’olandese e l’italiano, ma più o meno tutte quante le lingue europee; anche il francese, che pure mostra una lodevole renitenza a degenerare nel franglais; anche una lingua accanitamente conservatrice quale l’ungherese. Ma è proprio in rapporto alla molteplicità linguistica dell’Europa e al processo di unificazione del continente, che ci si presenta una serie di interrogativi, i più importanti dei quali potrebbero essere formulati come segue: 1) Come si potrebbe tutelare la pluralità delle lingue europee nel quadro di un’Europa politicamente unita? 2) Data l’esigenza di scegliere una lingua ufficiale dell’Europa, quale sarebbe la più idonea? 3) Sono tra loro compatibili l’adozione di una lingua ufficiale unica e la sussistenza di una pluralità di lingue nazionali?

E’ ovvio che la risposta a tali domande dipenderà dal tipo di Europa nella quale si troveranno a vivere le prossime generazioni. La cultura dell’Europa delle banche, dell’Europa concepita come parte integrante dell’Occidente e testa di ponte americana in Eurasia, non potrà essere diversa dalla cultura che già attualmente domina nei singoli staterelli europei, sicché il processo ora in atto non farebbe che proseguire sui medesimi binari. Già adesso, nonostante l’inglese sia soltanto una tra le lingue ufficiali dell’Unione Europea, avviene sempre più spesso che gli uffici dell’Unione richiedano documenti redatti esclusivamente in lingua inglese. Un esempio tra tanti: le domande e la documentazione attinenti al cosiddetto Progetto Phare vengono semplicemente respinte o cestinate qualora siano redatte in francese o in tedesco! Quanto all’Italia, se un governo di centrosinistra stabilì che a partire dal 2000 non si sarebbe più potuto partecipare ai concorsi pubblici senza conoscere l’inglese, il governo Berlusconi ha impostato la politica scolastica sulle famose “tre I”: Inglese, Internet, Impresa. La I dell’Italiano è stata semplicemente soppressa.

Tornando alla prospettiva di un’Europa politicamente unita, si potrebbe pensare ad un regime di bilinguismo o anche di trilinguismo, come avviene in alcuni dei vecchi Stati nazionali; in ogni caso, una scelta sensata dovrebbe cadere su lingue eminentemente europee, quali potrebbero essere il francese o il tedesco; ed eventualmente il russo, nella remota ipotesi che prima o poi nascesse un’Europa “da Brest a Vladivostok”. Ma, anche se ci si limitasse ad assegnare funzione di ufficialità al francese e al tedesco, l’Europa verrebbe rappresentata da due lingue fornite dei necessari caratteri di dignità culturale, da due lingue che tra l’altro sono conosciute ed usate fuori dai loro rispettivi confini “nazionali”: si pensi alla considerevole estensione del mondo francofono. Una scelta di questo genere, però, presupporrebbe orientamenti politici ben diversi da quelli che prevalgono attualmente nelle classi dirigenti europee.

Quanto al rapporto tra la lingua ufficiale dell’Europa e le lingue dei vari popoli europei, non si tratterebbe di una questione irrisolvibile. Esistono diversi precedenti storici di edifici statuali plurinazionali nei quali la lingua ufficiale è coesistita con la molteplicità delle lingue nazionali. Si pensi all’Austria-Ungheria: l’uso ufficiale del tedesco non impedì che le varie comunità nazionali dell’Impero si esprimessero in ungherese, in croato, in romeno, in italiano ecc. Perfino il testo dell’inno imperiale aveva tante varianti quante erano le lingue dell’Impero. Nell’Impero Ottomano si ebbe una situazione analoga; tutti i luoghi comuni sul “dominio turco” non possono nemmeno lontanamente far pensare a una prevaricazione del turco osmanli nei confronti di lingue quali l’arabo o il greco: quest’ultima, ad esempio, era la lingua ufficiale delle chiese ortodosse dell’Impero e fu usata anche da alcuni storici vissuti alla corte del Sultano. Un altro esempio potrebbe essere quello dell’URSS, dove l’uso ufficiale del russo si affiancava alle oltre cento lingue parlate sul territorio sovietico. Nel Caucaso, infatti, si parla ancor oggi il talysh, l’arcaica lingua iranica dei Medi, mentre sulle rive dell’Ob sopravvivono il vogulo e l’ostiaco, antichissime parlate ugrofinniche. Che ne sarebbe oggi di questi idiomi, se le regioni corrispondenti non fossero state tenute per parecchi decenni al riparo dall’americanizzazione?

“E’ possibile trovare un rimedio a questa malattia contagiosa (non sarebbe esagerato parlare di epidemia) che colpisce la lingua francese?” – si chiede sul n. 93 di “Éléments” Louis Védrines, secondo il quale la decadenza della lingua è uno dei sintomi dell’egemonia del “politicamente corretto”. La sua risposta è che “il buon francese potrà rinascere soltanto quando sarà stata decapitata l’idra del pensiero obbligatorio”; la nostra, è che la battaglia per la lingua, anzi, per le lingue europee, corrisponde a una linea di fronte fondamentale nello scontro di civiltà che contrappone l’Europa all’Occidente.

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