Le migrazioni nordico-occidentali

«La luce del nord», «il mistero iperboreo», questo è dunque un motivo fondamentale della nostra dottrina della razza, motivo che ad alcuni sembrerà però paradossale, ad altri sospetto e avvilente nei riguardi delle tradizioni nostre, ritenute mediterranee. Per cui s’impone qualche chiarimento.

Anzitutto parlando di Nord non si deve intendere la regione germanica. La sede primordiale della razza aria va riconosciuta invece in una regione corrispondente all’Artide attuale: ciò, in quella remotissima preistoria, di cui si è detto. In un periodo successivo, ma sempre preistorico, il centro di irradiazione sembra essersi spostato in una sede nordico-atlantica. Nelle altre opere nostre si sono riferiti gli elementi che giustificano una tale tesi, corrispondente, peraltro, a ricordi e insegnamenti tradizionali concordanti di varie civiltà. Anche dal punto di vista positivo, geofisico, è possibile ammettere che la regione artica, o iperborea che dir si voglia, non sia divenuta quella inabitabile dei ghiacci eterni che gradatamente, partendo da una data epoca: mentre il centro successivo, nordico-atlantico, sembra essere scomparso per via di un cataclisma oceanico.

Quanto poi all’allarme destato dalla tesi nordico-aria, esso poggia su di un equivoco. Sostenendo tale tesi non si vuol per nulla aderire al mito pangermanista, col quale, dopo aver fatto di «nordico», di germanico, di ario e di tedesco più o meno dei sinonimi, si va a sostenere, che tutto quel che vi è di superiore nelle varie civiltà e nelle varie nazioni del nostro continente sarebbe derivato da elementi germanici, mentre quel che a tali elementi non è riconducibile sarebbe senz’altro inferiore e deteriore.

È proprio per evitare un equivoco del genere che, nei riguardi della razza aria primordiale, noi di solito usiamo il termine iperboreo, forgiato in Grecia, prima ancora che dei Germani si sapesse qualche cosa. In ogni modo, diciamo senz’altro che ario, nordico-ario, nordico-occidentale ecc., in una seria dottrina della razza non voglion per nulla dire «tedesco» o «germanico»: sono designazioni di una realtà assai più vasta. Esse si riferiscono a un ceppo, del quale i popoli germanici del periodo delle invasioni non sono che una fra le tante diramazioni, poiché allo stesso ceppo avrebbero avuto diritto di riferire le loro origini le maggiori stirpi creatrici di civiltà in Oriente e in Occidente, nell’antica India e nell’antica Persia, come pure nella prima Ellade e nella stessa Roma. Fra tutte queste stirpi può esistere un rapporto di consanguineità, ma per nulla di derivazione. Di derivazione può parlarsi rispetto a quel comune ceppo «iperboreo», di cui si è detto, il quale però retrocede in una preistoria così remota, da far apparire sciocca ogni pretesa, da parte di un qualsiasi popolo storico, e tanto più moderno, di accaparrarsene come che sia la esclusiva discendenza.

La corrente delle genti nordico-arie seguì due direzioni fondamentali, l’una orizzontale (direzione da Occidente attraverso il Mediterraneo, Baleari, Sardegna, Creta, Egitto), l’altra trasversale (direzione nord-ovest sud-est, dall’Irlanda fino in India, con centri nella regione danubiana e nel Caucaso, il quale dunque non fu, come si credeva, la «culla» della razza bianca, ma un focolare di irradiazione sull’itinerario percorso da una delle correnti nordico-arie). Quanto alla migrazione dei popoli propriamente germanici, essa, rispetto alle altre due, è di data incomparabilmente più recente, recente d’interi millenni. Ora, lungo la direzione orizzontale e, in parte, anche per interferenze di essa con la direzione trasversale nel continente eurasiatico, sono sorte le massime civiltà del Mediterraneo, quelle conosciute, e altre, di cui a noi sono giunti solo i residui degenerescenti. Rispetto a tali civiltà, sulla base di questi nuovi orizzonti preistorici bisogna vedere nei popoli nordico-germanici del periodo delle invasioni solo degli epigoni, coloro che, della comune famiglia, per ultimi apparvero sulle quinte della storia. Né vi apparvero «puri» sotto ogni punto di vista.

Certo, non avendo dietro di sé tutta la storia degli altri gruppi della stessa famiglia, essi non furono così esposti al pericolo degli incrocî, quanto questi: fisicamente e biologicamente si presentarono dunque «più in ordine». Nella vita in regioni ove erano subentrate dure condizioni climatiche e d’ambiente, e che essi lasciarono per ultimi, si rafforzò poi un processo selettivo, si confermarono e rafforzarono doti di carattere, di tenacia, di ingegnosità, di ardire, mentre il non essere entrati in contatto con forme esterioristiche e urbanistiche di civiltà mantenne vivi, in questi popoli germanici, rapporti virili cementati dalle virtù guerriere e dal sentimento di fedeltà e di onore. Altrimenti vanno però le cose, nei riguardi dell’elemento propriamente spirituale, in questi epigoni della razza nordico-aria primordiale. Questo elemento subì una certa involuzione. Le tradizioni vi si oscurarono nel loro contenuto metafisico e «solare» primordiale, divennero frammentarie, decaddero nella forma di folklore, di saghe e di superstizioni popolari. Inoltre, in queste tradizioni, più che il ricordo delle origini, predominano i ricordi mitologizzati delle vicende tragiche subite da uno dei centri della civiltà iperborea, quello degli Asen o eroi divini del «Mitgard»: donde il noto tema del «ragna-rökkr», termine tradotto volgarmente con «crepuscolo degli dèi». Così, per orizzontarsi in siffatte tradizioni nordico-germaniche dei popoli del periodo delle invasioni, e per individuare il vero significato dei principali simboli o ricordi che vi sono contenuti, bisogna trarre i punti di riferimento dallo studio di più antiche tradizioni arie, ove gli stessi insegnamenti si sono mantenuti in forma più pura e completa, tradizioni che non sono germaniche, ma delle civiltà arie dell’antica India e della antica Persia, della prima Ellade e della stessa Roma. E razzisti germanici, come il Günther, vanno senz’altro a riconoscere tutto ciò.

L’inquadramento del problema delle origini, che qui è stato esposto, non deve dunque per nulla suscitare un sentimento di inferiorità o di subordinazione da parte nostra, italiana, di fronte ai popoli germanici più recenti. Al contrario: come la parte migliore della gente italiana, dal punto di vista della razza del corpo, corrisponde a un tipo da considerarsi come una variazione di quello stesso della razza nordica, del pari nel patrimonio delle nostre più alte tradizioni, che risalgono spesso a tempi primordiali, si possono ritrovare gli stessi elementi di «razza dell’anima» (stile di vita, ethos, ecc.) e di visione del mondo comuni a ogni grande civiltà aria e nordico-aria. Con la tesi nordico-aria del nostro razzismo, dunque, si va piuttosto a contestare a qualsiasi popolo attuale il diritto di accaparrarsi e di monopolizzare la nobiltà della comune origine, si va a dire che noi, in quanto siamo e vogliamo essere eredi della romanità antica e aria così come della successiva civiltà romano-germanica, non ci riconosciamo secondi rispetto a nessuno in fatto di spirito, di vocazione e di tradizione nordico-aria.

Ma, naturalmente, una simile presa di posizione impegna, dal razzismo teorico essa ci conduce al razzismo attivo e creativo, cioè a quello inteso a far sì che nel tipo generale italiano, in sé così differenziato, in misura sempre più vasta e in forma sempre più precisa vada a enuclearsi e ad affermarsi il tipo fisico e spirituale della razza superiore, presente nel popolo italiano quanto quello propriamente nordico lo è nel popolo tedesco, nei due casi, ostacolati, l’uno e l’altro, da detriti etnici, da altre componenti razziali e dagli effetti di precedenti processi di degenerescenza biologica e culturale.

Si vede da ciò il preciso valore che l’inquadramento razziale del problema delle origini ha per la formazione della volontà e per la consapevolezza del nuovo Italiano. Ne deriva effettivamente una «idea-forza», un sentimento di dignità e di superiorità, che non significa boria e che non si basa su miti confusi a uso semplicemente politico, ma su precise conoscenze tradizionali.

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Tratto da Indirizzi per una educazione razziale, Conte, Napoli, 1941.

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2 Responses

  1. mpicasso
    | Rispondi

    Interessantissimo articolo sempre attualissimo, nonostante l'acciottolio delle menzogne politicamente corrette odierne. Un classico del Pensiero del Grande Evola da meditare e da tramandare.

  2. albiero coropani
    | Rispondi

    Per chi sa leggere è inequivocabile! Leggilo anche venti volte ma poi lo comprendi! Se non sei tonto od in malafede. Per i buonisti e per i razzisti “gretti”.

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