L’altra faccia della società

Massimo Fini, Il vizio oscuro dell'Occidente Grazie a una tecnica denominata “face off” è oggi possibile il trapianto integrale del viso per motivi estetici quando, in seguito a qualche incidente o per una malformazione congenita o per una bruttezza senza speranza, tale viso è considerato impresentabile. Risparmio al lettore tutti gli orripilanti particolari medici di questa tecnica, perché preferisco raccontare una storia accaduta una ventina di anni fa in un piccolo villaggio inglese vicino a Middlesbrough, che assomiglia a una fiaba, una di quelle cupe fiabe alla Andersen, che è però cronaca e che ha molto a che fare anzi, visto il tema di cui parliamo, molto a che vedere con questa nuova meraviglia della medicina tecnologica che consente di cambiare completamente il viso di una persona, che non si accontenta più di sostituire organi interni, segreti e difettosi, ma agisce sull’identità stessa dell’individuo.

In questo piccolo villaggio inglese viveva un ragazzo, di nome Stephen Power, brutto, ma così brutto che non osava nemmeno uscire di casa perché tutti lo prendevano in giro. Il nomignolo più benevolo che gli davano era “rospo”. Era lo zimbello del villaggio. Il ragazzo soffriva atrocemente questa situazione, si incupiva e si isolava sempre più. La sua fidanzata – perché il ragazzo, benché brutto, una fidanzata ce l’aveva – non tollerando di vederlo consumarsi così, gli consigliò di recarsi a Londra al South Tees Authority, un ospedale specializzato in chirurgia estetica dove si diceva che esistessero medici capaci di fare miracoli e di cambiare completamente il volto delle persone. Il ragazzo andò. I chirurghi si riunirono in consulto e stabilirono che la cosa si poteva fare. Ma ci volevano molti soldi. Così la madre di Stephen, una povera donna, si sfiancò di lavoro per alcuni anni finché ebbe il denaro. L’operazione durò tre giorni (più o meno lo stesso tempo necessario per il “face off”) e, a detta di tutti, il risultato fu eccezionale. Il ragazzo ne uscì trasformato: era diventato bello. Lasciato l’ospedale e tornato a casa Stephen si mise davanti allo specchio. E inorridì: non si riconosceva. Lo specchio gli rimandava il volto di un altro, di uno sconosciuto. Non era lui. Invano gli amici, quegli stessi che prima lo prendevano in giro, tentarono di convincerlo, di rassicurarlo che il bel giovane riflesso nello specchio era proprio lui, Stephen Power. Ma inutilmente. Il ragazzo li cacciò di casa e si chiuse nella sua stanza. Qualche ora dopo lo trovarono morto.

Cosa insegna ai futuri fruitori del “face off” e a tutti noi questa storia crudele e affascinante, così densa di significati? Il più immediato è che nella società del look e dell’immagine non è più possibile essere brutti. La bellezza è diventata un requisito indispensabile, un must. Intendiamoci, da che mondo è mondo la bellezza è sempre stata, almeno in linea di massima, un vantaggio per quei fortunati che la posseggono. Il fatto nuovo è che nella società attuale la bruttezza non è più accettata. Poiché oggi, con i mezzi, medici, tecnologici, estetici, che ci sono, tutti possono, con qualche sforzo, se non diventare davvero belli almeno sembrare tali, la bruttezza è considerata un segno di trasandatezza, di trascuratezza, di mancanza di amor proprio, insomma una colpa.

Ma la storia di Stephen Power reca anche un insegnamento più ampio. Mai società è stata così totalitaria e liberticida come questa che si crede e si dice tollerante e permissiva. Essa nega la più fondamentale delle libertà: quella di essere ciò che si è. Lo vediamo in tutte le sue manifestazioni. I vecchi sono accettati solo se fanno i giovani, se si comportano da giovani, se consumano come i giovani. Non è più lecito lasciarsi andare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti (che, sia detto di passata, è uno dei pochi piaceri della vecchiaia). Oggi è proibito essere vecchi. Tanto che in quello stesso programma televisivo che annunciava trionfalmente l’avvento del “face off”, del trapianto di viso, si riportava anche una statistica secondo la quale l’85% degli ottantenni si rifiutava di definirsi “vecchio”.

In un certo senso, checché se ne dica, nemmeno gli handicappati, cui vengono dati nomi ipocriti (audiolesi, non vedenti, motulesi invece che sordi, ciechi e storpi), sono accettati in quanto tali, si deve fingere che non siano diversi dagli altri, che rientrino nella normalità e, per dissimulare la realtà, si organizzano per loro grottesche olimpiadi, penosi campionati di atletica. Sono accettati solo se si omologano in qualche modo alla normalità. Persino per legittimare il pazzo si è dovuto proclamare che “la malattia mentale non esiste”. La società che ha proclamato ai quattro venti “il diritto alla diversità”, in realtà, con una dolorosa e profonda contraddizione, lo nega. Perché accettare “il diverso” significa, appunto, accettarlo nella sua diversità, non pretendere di omologarlo a una impossibile normalità. In questa corsa verso l’omologazione, la standardizzazione, la normalizzazione la società moderna ha ucciso l’essere in nome del sembrare.

Massimo Fini, Sudditi Il caso di Stephen Power è emblematico e un ammonimento su cui dovrebbero meditare gli stregoni del “face off” e coloro che si affideranno alle loro armi. Che cosa mancava a questo ragazzo per essere felice? Nulla. Benché brutto egli aveva una fidanzata che lo amava, una madre pronta a tutti i sacrifici per lui. Ma poiché era brutto, poiché non era uguale agli altri, poiché era diverso, egli non poteva essere felice agli occhi altrui e quindi, in un gioco di controspecchi, nemmeno ai suoi. Il tragico errore di Stephen Power fu quello di credere che il sembrare fosse davvero più importante dell’essere. Ma quando si è visto allo specchio, da quel ragazzo sensibile che doveva essere e che proprio la bruttezza aveva affinato, ha capito che l’apparenza non ha valore e che aveva ucciso se stesso in nome di nulla. E il suo cuore non ha retto.

Quello di Stephen Power non è che l’estremo apologo di una vastissima patologia che pervade l’intera società contemporanea dove tutti, più o meno, paghiamo con la nevrosi e la frustrazione perenne l’enorme fatica di sembrare ciò che non siamo. Completamente abbagliati dall’ideologia dell’immagine e delle apparenze, ci aggiriamo smarriti in una società di maschere, di “face off”, maschere noi stessi, avendo stoltamente dimenticato il profondo e liberatorio insegnamento di Pindaro: “Diventa ciò che sei”.

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Tratto da Il Gazzettino del 4 ottobre 2005.

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