La misteriosa “finestrella” di Servio Tullio

Così si chiede Plutarco nella 36^ delle Questioni Romane, che riportiamo per intero:

“Chiamano una delle porte della città Thurís[1] (questo infatti significa fenestra) e presso di essa c’è la cosiddetta camera della Fortuna. Perché? Forse perché il Re Servio, che fu molto fortunato, ebbe fama di incontrarsi con la Fortuna che gli faceva visita attraverso una finestra.

Oppure questa è una favola; e invece il luogo ebbe tale denominazione dopo che, alla morte del Re Tarquinio Prisco, sua moglie Tanaquilla, donna saggia e regale, sporgendosi da una finestra si rivolse ai cittadini e li convinse a proclamare Re Servio” [2].

Sempre Plutarco (questa volta ne La Fortuna dei Romani, 10) riferisce dello stesso particolare:

“Egli si legò a Fortuna e da lei fece dipendere la stessa sovranità, tanto che dette a credere che Fortuna si congiungesse con lui, scendendo nella sua camera attraverso la piccola finestra che ora chiamiamo Porta della Finestrella”.

Ma già prima di Plutarco Ovidio, nei Fasti, ha raccontato dello strano rapporto fra la Dea Fortuna e Servio, riferendo di questa finestra:

“Intanto, timidamente, la dea confessa i suoi furtivi amori / vergognandosi, lei creatura celeste, di essersi unita ad un mortale /  – perché da un forte desiderio fu presa per il re, / per questo unico uomo lei non fu cieca – lei che di notte era solita entrare in casa sua per la finestra, / da cui prende nome la Porta della Finestrella” [3].

Tornerò brevemente sulla regina Tanaquilla alla fine.

In questa sede non intendo affrontare per esteso la questione del particolare rapporto che lega il sesto re di Roma con un essere sovrannaturale e che, per questo motivo, molto lo avvicina al secondo re, quel Numa Pompilio, il quale, secondo la tradizione, ebbe commercio carnale con la ninfa Egeria, sua praeceptrix (Val. Max. I 2, 1 ) e consigliera [4]. Rileverò soltanto che è stato opportunamente notato come questo rapporto con esseri non-umani femminili accentui le caratteristiche “sciamaniche” della specifica funzione svolta da quei due sovrani.

Infatti, sono “spose celesti”[5] che aiutano lo sciamano nella sua istruzione e nella sua esperienza estatica. L’essenziale studio di Mircea Eliade dedicato allo Sciamanismo[6] dedica molte pagine a tale tematica e la figura di Numa Pompilio, ancor più che quella di Servio, si presta a considerazioni di questo genere, sì che Egeria è stata giustamente paragonata a quelle dākini (in sanscrito) o khandroma (in tibetano) che nella tradizione himalayana si accompagnano a grandi guru o maestri tantrici famosi [7].

A questo proposito, sono impressionanti le similitudini fra la pratica (attuata grazie a doti “naturali” e paranormali) di condizionamento dei propri sogni, secondo le esigenze del momento e in un contesto sacrale, presso i Sabini[8] –  da cui proviene Numa – e l’insegnamento iniziatico (di derivazione Bön e proprio alla scuola nyingma) della corrente Dzogchen circa lo Yoga del sogno, di cui ha diffusamente parlato il Lama Namkhai Norbu.[9]

Anche la lingua misteriosa e segreta delle dākini, che solo i  grandi terton o “scopritori di tesori” himalayani sono in grado d’interpretare[10], ha un parallelo con Egeria, la quale è spesso affiancata dalle Camenae come consigliere di Re Numa e talora considerata come una di loro [11].

Ed è ben nota la funzione oracolare di queste e in particolare di Carmenta, la ninfa madre di Evandro, di frequente alle Camenae associata, artefice e tutrice di formule magiche, nonché introduttrice dei quindici segni dell’alfabeto latino, formati a loro volta sulla base dell’alfabeto pelasgico di Cadmo [12].

Sulle caratteristiche “sciamaniche” di Servio Tullio e, in questo contesto, sui suoi rapporti con la dea Fortuna, tratta diffusamente Leonardo Magini nel suo recente La dea bendata. Lo sciamanesimo nell’Antica Roma [13]. In tale dotto e ampio studio (che ha forse il difetto di una certa asistematicità) l’episodio inquietante della “Finestrella di Fortuna”, se pur citato, non è stato adeguatamente considerato, qualora si tenga conto che può servire ad avvalorare la tesi dell’autore.

In un noto testo evangelico (Matteo XIX, 24) è attraverso una “porta stretta”  – la “cruna di un ago” –  che si può accedere al Regno di Dio. In un senso meno elevato, si può anche parlare, come Dante[14], di “passare per la cruna dell’ago” per indicare ogni passaggio da uno stato ad un altro. Ciò implica una “morte” e una “rinascita”: ha quindi una valenza iniziatica.

Come i defunti, gli sciamani nel loro viaggio onirico debbono attraversare un passaggio pericoloso, dal momento che, come la morte, lo stato estatico comporta un “mutamento”. La finestrella che mette in comunicazione due mondi: quello, sovrumano, di Fortuna, e quello, terreno (ma volto ad una condizione apparentemente superiore all’ordinaria degli uomini normali, cioè alla funzione regale) di Servio Tullio, ricorda proprio la paradossale situazione di certi sciamani o degli eroi di certi miti riferita da M. Eliade. Essi debbono passare per dove “notte e giorno s’incontrano” [si tenga qui presente il legame tra Fortuna e la Luna], trovare – appunto – una porta in un muro “o salire in cielo attraverso uno spazio che si apre per un attimo, o passare fra due macine in continuo movimento, fra due rocce che ad ogni istante si rinserrano, fra le mascelle di un mostro e via dicendo” [15].

Sono, queste, immagini mitiche esprimenti la necessità di trascendere i contrari – ha sottolineato A. Coomaraswamy – di abolire la polarità che caratterizza la condizione umana: “Colui che vuole trasportarsi da questo mondo nell’altro, o tornare a questo, deve farlo «nell’intervallo» unidimensionale e atemporale che separa forze apparentate ma contrarie, attraverso le quali si può passare solo fulmineamente” [16].

Chi riesca a realizzare questo passaggio si può dire che abbia superato la condizione umana: lo “sciamano” o “eroe” Servio lo ha fatto, sfidando la sorte degli uomini. Congiungendosi – per mezzo della stretta finestra – con la dea Fortuna, ha regnato con successo su Roma per 44 anni, ma ne ha anche pagato il fio sulla svolta del Clivus Urbius, là dove il cocchio di Tullia farà a brani le spoglie del suo cadavere sanguinoso[17]: e vien qui da pensare alla funzione che proprio il cavallo riveste nella mitologia del rituale sciamanico.

Animale psicopompo per eccellenza, è, nelle cerimonie degli sciamani, immagine mitica della stessa morte[18]. Non per caso, quindi, i cavali del Clivus Urbius (che, per giunta, alcuni hanno posto in relazione con Virbius/Ippolito e a quanto ne deriva in riferimento ai cavalli)[19] è come trasportassero direttamente Servio nell’aldilà [20].

Quella “rottura di livello”, quel passaggio da questo ad altri mondi che Servio aveva praticato attraverso la Finestrella di Fortuna, ora ha mutato polarità. Dal momento che, se è vero che Fortuna audaces iuvat, è anche ben nota la sua incostanza.

Una sors recante un’iscrizione su un ciottolo, proveniente da Fiesole e risalente al II secolo a. C., così recita:  “ni ceduas, Fortuna Servios perit” (“se tu non cedi, [rammenta che]Fortuna uccise Servio) [21].

Ecco perché, attraverso la stretta finestra di Fortuna che introduce nella camera di Servio, Tanaquilla volle proclamare Re di fronte al popolo il suo protetto e favorito, che aveva designato a tale compito sin da fanciullo. Alla “sposa celeste” che accorda allo sciamano i suoi consigli e la sua protezione[22], fa da contraltare, sul piano umano, la grande matrona regale della tradizione etrusca e mediterranea[23], così bene studiata da Bachofen [24].

E fu così che, attraverso la “porta stretta”, Servio Tullio, il “servo” che era uno sciamano, poté diventare Re [25]. La “cavalcata simbolica” legata alla sua fine esprime – sempre in un contesto sciamanico – l’abbandono definitivo del suo corpo, la sua morte non solo “mistica” – in tal caso – bensì tremendamente reale.

Note

[1] Letteralmente: “Porticina”. L’ubicazione di questa “porta finestrella” è in apparenza sconosciuta. Tuttavia, se questa finestrella è in rapporto con l’episodio di Tanaquilla (come appare evidente), va messa in relazione colla Reggia di Tarquinio e questa, come riferisce Livio (1,41) narrando di Tanaquilla, “era situata presso il Tempio di Giove Statore”, mentre la proclamazione avvenne “per le finestre rivolte sulla Via Nuova”. Quest’ultima correva ai piedi del fianco nord-occidentale del Palatino. Vedi anche Dion. Hal. IV, 5, 1.

[2] Riporto dall’edizione BUR, Milano 2007, p. 97, per la traduzione di Nino Marinone. Nella sua attenta Prefazione, John Scheid rileva che “Le Questioni Romane non sono un’opera completamente esoterica” (p. I), ma questo equivale a dire che, in relazione agli interessi e alle competenze di Plutarco, gli esoteristi potrebbero trovare nelle Questioni pane per i loro denti.

[3] Ov., Fasti VI, 571-576. Come è noto, la stesura dei Fasti fu interrotta dall’esilio di Ovidio, voluto da Augusto per motivi mai venuti alla luce. E’ curioso qui riportare che, secondo un autore cabalista francese del ‘700, J.B. D’Argens de Boyer (Lettres cabalistiques, Tomi I e VI), questo fu dovuto dall’avere Ovidio  divulgato il rapporto dell’Imperatore Augusto con un misterioso essere sovrumano, la “Silfa Hehugaste”, che scomparve non appena scoperta (ricavo l’informazione da C. Miccinelli e C. Animato, Commento e note a Il Conte di Gabalì di N. H. Montfaucon de Villars e G.F. Borri, Genova, 1986, pp. 163 – 167).

[4] Si veda l’ampio e utile studio di B. Zannini Quirini, La demenza di Numa, in “Cultura e Scuola”, XXIV, 95 (luglio-settembre 1985), pp. 124 – 134, e, dello stesso, La divinazione a Roma. La regola e le sue eccezioni, in “Abstracta”, IV, 40 (settembre 1989), pp. 28-37.

[5] In Siberia chiamate Àyami, da distinguere con gli spiriti ausiliari (Sywén) subordinati allo spirito protettore.

[6] Cfr. M. Eliade, Lo Sciamanismo e le tecniche dell’estasi, I ed. italiana Milano 1953 (traduz. di Carlo D’Altavilla, alias Julius Evola).

[7] Cfr. S. Consolato, “Gter-ma” tibetani e “cose fatali romane”, in “Cittadella”, n.s., II, 6 (aprile-giugno 2002), pp. 14-23 (vedi p. 17). La dākini Yeshe Chogyel fu una delle due mogli di Padmasambhava, colui che introdusse il buddhismo tantrico nel Tibet, e per giunta sua biografa in quanto autrice del Padma-Than-Ying (Storia delle esistenze di Padmasambhava), un libro terma o di “rivelazione” (Ed. anast. Paris, 1979). Un altro grande Lama che ebbe relazione con le dākini fu Pema Lingpa (1450-1521). I caratteri sciamanici di questi due guru sono stati riconosciuti al di fuori di ogni dubbio, in particolare per Padmasambhava: soprattutto il suo cavalcare una tigre alata femmina sino alle grotte dove sorgerà il complesso templare del Taktshang Goemba, o “Tana della Tigre”, in Bhutan. Sulla relazione tra lo sciamano e la tigre, cfr. Mircea Eliade, Op. cit., p. 7 e n. 1; sui due grandi guru, cfr. i miei articoli: Pema Lingpa, lo “scopritore di tesori” e la sua discendenza e Il grande “guru” Padmasambhava e il suo arrivo in Bhutan, in “Arthos”, n.s., rispettivamente n. 14 (2006), pp. 34-44, e n. 18 (II 2009), pp. 360 – 367.

[8] Cfr. Fest. 434 L. : “Sabini quod <volunt somniant” vetus> proverbium… (V.B. Zannini Quirini, La demenza di Numa, cit. p.131).

[9] Soprattutto ne Lo Yoga del sogno e la pratica della luce naturale, Roma 1993. Si veda anche T. Wangyal Rinpoche, Lo yoga tibetano del sogno e del sonno, Roma 1999.

[10] Pema Lingpa è in grado di decifrare l’alfabeto magico dei manoscritti ritrovati come terton solo con l’aiuto delle dākini (Cfr. R. Del Ponte, Pema Lingpa, cit., pp. 35 e 36) e in sogno visita il paradiso celeste di Padmasambhava, dove studia le loro danze, le cui modalità insegnerà ai propri discepoli. Sul “linguaggio segreto” degli sciamani, paragonato spesso alla “lingua degli uccelli”, cfr. M. Eliade, Op. Cit., pp. 87 – 89.

[11] Cfr. Dion. Hal. II, 60, 6; Liv. I, 21, 3: (Numa) Camenis lucum sacravit, quod earum ibi concilia cum coniuge sua Egeria essent.

[12] Cfr.R. Graves, I miti greci, Milano 1979, p. 164. Su Carmenta, in particolare nella sua funzione di “tutrice occulta delle formule e incantesimi bellici” ed anche dell’evocatio, cfr. l’importante studio di M. Baistrocchi, Le tre Carmente, in “Ignis”, n.s., 1 (giugno 1990), pp. 41 – 52.

[13] Ed. Diabasis, Reggio Emilia 2008. Se ne veda un’esauriente recensione di M.E.Migliori in “Arthos”, n.s., XII, 18 (II. 2009), pp. 409 – 410.

[14] Cfr. Purg. X, 13-16: “E ciò fece li nostri passi scarsi / tanto, che pria lo stremo della luna / rigiunse al letto suo per ricorcarsi, / che noi fossimo fuor di quella cruna”.

[15] M. Eliade, Op. Cit., p. 361.

[16] A. Coomaraswamy, Symplegades, New York 1947, p. 486. Nella fisica quantistica si ripropone singolarmente il concetto di “fessura” o “finestrella”. Si veda G. Conforto, Corpo e onda. Una fessura verso altre dimensioni, in “Abstracta”, III, 28 (luglio – agosto 1988), p. 82: “E’ stata calcolata una dimensione tipica per ciascun corpo, insondabile agli strumenti, che rappresenta una ‘finestra’ verso altri spazi al di là dello spazio e del tempo..”.

[17] Cfr. Liv. I, 48, 7. Servio, trucidato dai sicari di Tarquinio il Superbo, trascinatosi morente sino al Vicus Cyprius, fu deliberatamente travolto dai cavalli del cocchio della figlia Tullia al Clivus Urbius.

[18] Cfr., Eliade, Op. Cit., p. 348.

[19] L’identificazione del clivius Urbius od Orbius di Roma con il clivus Virbius esistente ad Ariccia e, di conseguenza, l’assimilazione di Servio a Virbio è dovuta ad E. Pais, Storia di Roma, II, Roma 1926, pp. 134 e sgg. A me (in Dei e miti italici, Genova 1998, p. 188, n. 140) è parsa eccessiva, ma ritenuta plausibile da L. Peverelli, curatore dell’edizione Utet di Livio (Storie-Libri I-IV, Torino 1974, p. 238, n. 48). Come è noto, Ippolito (divenuto poi Virbio) fu ucciso da un cavallo e nel nemus Aricinum era interdetta la presenza dei cavalli.

[20] Si potrebbe anche pensare, qui, al tema della “caccia selvaggia” o Wildes Heer, che è in relazione, appunto, col mondo dei morti. L’argomento fu trattato anche nella corrispondenza fra R. Guénon e J. Evola nel 1933.

[21] Vedi quanto ne dice L. Magini, Op. Cit., pp. 155-156, che riporta il brano completo e riproduce la stessa sors.

[22] Nei resoconti inerenti agli sciamani euroasiatici, la Àyami o “sposa celeste” risulta avere un rapporto “imperioso” con il suo protetto. Talvolta lo importuna, pur proteggendolo, e gli crea delle difficoltà (cfr. M. Eliade, Op. Cit., p. 77). Ne sembra il caso di Fortuna con Servio, ma non così invece di Egeria con Numa.

[23]  La protezione accordata allo sciamano dalla  “sposa celeste” ricorda la funzione assolta da certe fate o semi-dee nell’istruzione e iniziazione di certi eroi nei racconti mitici dell’antichità, ma anche del Medioevo. Tutto ciò riflette certamente remote concezioni legate alla fase “matriarcale” della civiltà euroasiatica e mediterranea, sino a risalire all’immagine archetipica della Grande Madre degli animali (cfr. M. Eliade, op. cit., p. 78).

[24] Cfr. J.J. Bachofen, Die Sage von Tanaquil, Heildelberg 1870. E’ merito di J. Evola averne tradotto diversi brani (fra cui tutta l’introduzione) nell’Antologia bachofeniana da lui curata nel 1949 (ora ristampata [2009] dalle Edizioni di Ar di Padova). Tuttavia il complesso dell’opera rimane inedito in italiano.

[25] Fortuna è l’equivalente della grande dea pelasgica – e quindi etrusca – protettrice anche delle classi servili, in ogni caso di quelle più umili. Ciò rende più comprensibile la scelta come Re di un ex-servo. Raffigurata come bendata, Fortuna parrebbe arbitraria nelle sue scelte e tuttavia, proprio in virtù della sua ben nota instabilità, assai prevedibile: non poteva fornire al Regno di Servio la sicurezza di una fine non violenta, in linea, pertanto con l’atteggiamento delle Potnie mediterranee reclamanti la fine fisica del “loro” Re, ormai vecchio e indebolito (qui ritorna l’immagine del Rex Nemorensis). Diverso sarà il caso (e la sua tranquilla fine) di Numa. Ma il destino di Servio s’inserisce in un contesto fortemente caratterizzato dal “fatalismo” etrusco (di cui sarà specchio la concezione ciclica dei saecula, destinata ad assumere grande rilievo anche a Roma con i Ludi Saeculares), mentre quello di Numa risente della componente “magica” sabina. Numa,  in altri termini, è uno sciamano “attivo”: è in grado (pur con l’aiuto di Egeria) di controllare e talvolta di determinare certi eventi fuori della norma. E’ in questo figura assai simile a certi “Maghi-Guru” del mondo himalayano ed è il prototipo più significativo del romano Pontifex Maximus: ponte in equilibrio, ben controllato, fra due mondi che solo talvolta si incontrano.

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Renato Del Ponte (Lodi, 1944), è uno storico e docente italiano. Ha vissuto a lungo in Lunigiana, a Pontremoli, dove ha insegnato lingua italiana e lingua latina in istituti della scuola media superiore. Storico delle idee e del diritto religioso arcaico, studioso di storia delle religioni e di simbolismo, ha fondato (e dirige) nel 1972 la rivista «evoliana» Arthos. Quaderni annuali di cultura e testimonianza tradizionale: rivista di studi e approfondimenti di carattere storico, archeologico, filologico e religioso. Nel 1971 ha curato l’edizione critica di un trattato politico medievale: il Tractatus de protestate summi Pontificis di Guglielmo da Sarzano; nel 1987 ha tradotto e commentato la Relatio III di Quinto Aurelio Simmaco; nel 1993 ha tradotto per la ECIG il saggio su Tito di B. W. Jones e nel 1994, sempre per la ECIG, La Cronologia Vedica di B. G. Tilak (in appendice a La dimora artica dei Veda). Ha pubblicato numerosi libri e articoli. È un fautore della Via romana agli Dei. Ha collaborato con le edizioni de Il Basilisco e de I Dioscuri.

  1. maria ferraro
    | Rispondi

    non si capisce nè il capo nè la coda (cioè mettete dei sottotitoli altrimenti veramente non si capisce niente)

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