La conoscenza inutile

Sebbene ancora oggi molti si ostinino a non capirlo, da una ventina di anni a questa parte siamo entrati in un’epoca nuova, caratterizzata da un profondo ridisegnamento della situazione geopolitica mondiale rispetto al passato, che richiede risposte nuove ai problemi che ci si prospettano, e ancor di più un cambio profondo di mentalità.

L’evento storico fondamentale che ha caratterizzato l’ultimo decennio del XX secolo è stato non tanto la scomparsa dell’Unione Sovietica, quanto il conseguente passaggio da un sistema politico mondiale basato sulla contrapposizione in blocchi antagonisti permanentemente sul piede di guerra, una guerra che non si decideva mai a scoppiare, a un sistema basato sull’egemonia planetaria di un’unica superpotenza.

A livello di ideologie, questa trasformazione ha lasciato sul campo due grossi cadaveri che insieme rappresentano la grande maggioranza dei modi di pensare che gli uomini hanno avuto nel corso del XX secolo: il marxismo e il liberalismo.

La disfatta dell’ideologia marxista è ovvia: il crollo dell’Unione Sovietica ha mostrato chiaramente, tranne che a una minoranza di ciechi volontari (non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere) qualcosa che coloro che erano minimamente consapevoli sapevano già da un pezzo, ossia che le “rivoluzioni socialiste” sempre e dovunque sono state realizzate, non hanno prodotto altro che tirannide e miseria, che ha colpito in maniera spietata soprattutto quelle classi lavoratrici che il marxismo dichiarava di voler emancipare.

Meno scontata e quasi inavvertita è stata la frana dell’ideologia liberale, eppure si è trattato di un crollo analogo e ancor più devastante. La morte dell’ideologia liberale è avvenuta in maniera molto più silenziosa, il suo ultimo rantolo non è stato un grido ma un sospiro; tuttavia fateci caso, oggi più nessuno si definisce liberale, caso mai “liberal”, che non è solo una concessione all’anglicismo imperante ma una cosa del tutto diversa, poiché “liberal” nella terminologia importata d’oltreoceano è ciò che noi definiremmo piuttosto “di sinistra”.

Il liberalismo si basava su due presupposti che l’esperienza di questi ultimi vent’anni si è incaricata di dimostrare essere del tutto falsi: che il disporre di diritti (legalmente statuiti sulla carta) sia lo strumento principe per il soddisfacimento dei bisogni, e che l’esistenza di istituzioni rappresentative (cioè composte da rappresentanti eletti) sia garanzia di libertà.

Che il primo presupposto sia falso, lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio l’andamento dell’economia planetaria di questi ultimi vent’anni ma soprattutto dell’ultimo decennio, perché i cittadini dotati di “inalienabili diritti” delle nazioni democratiche in cui il sistema politico è semplicemente lo specchio di un’economia di mercato senza regole, si stanno vedendo spogliare dei loro beni e sprofondare sempre più sotto la soglia della povertà da un potere finanziario internazionale che non è altro che quello che una volta, praticato su piccola scala, si chiamava usura, strozzinaggio (per non ripetermi troppo, vi rimando alla lettura del mio scritto Il coltello alla gola, pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa).

Sebbene questa politica economica abbia prodotto il generale immiserimento e la recessione delle economie occidentali, vediamo che la “cura” alla situazione di “crisi” che stiamo vivendo (e che non è una congiuntura eccezionale ma il prevedibile effetto di questa politica), somministrataci dai nostri politici (in Italia, da questo punto di vista è esemplare il governo imposto contro gli Italiani del signor Monti, ma non è che altrove le situazioni siano molto diverse), consiste in un’ulteriore miscela di privatizzazioni, deregulation, smantellamento dello stato sociale.

Se un medico, quando un paziente risulta intossicato da una “medicina”, prescrive dosi più massicce della stessa, o è un perfetto idiota (ma non pare che sia questo il caso), oppure la sua intenzione non è quella di salvare il paziente, ma di avvelenarlo.

La falsità del secondo presupposto è altrettanto lampante, ma richiede di essere verificata su di un piano diverso.

Il sistema di “alleanze” costruito dagli Stati Uniti nel mondo cosiddetto “libero” (cioè sottoposto al dominio americano) all’indomani della seconda guerra mondiale, è sempre stato un sistema di foedera iniqua, di vassallaggi, ma fino a che esso sembrava rispondere all’esigenza di una difesa da una possibile aggressione da parte del blocco comunista, la cosa poteva passare inosservata.

Con la scomparsa del nemico contro il quale questo sistema di “alleanze” era stato in teoria edificato, le cose sono cambiate; per continuare a farsi accettare dai vassalli che dovevano rimanere quanto più possibile inconsapevoli di aver perso la loro libertà, esso doveva basarsi su motivazioni diverse, che in concreto sono state due: la sostituzione del nemico scomparso con uno fantomatico e in gran parte immaginario, il terrorismo. Se, come è probabile, l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 è stato un auto-attentato (e si vede il libro-inchiesta di Maurizio Blondet Auto-attentato in USA che gli è costato il posto a “L’Avvenire”), ciò non sarebbe privo di precedenti nella politica americana. Nel dicembre 1941, nell’imminenza dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, di cui la Casa Bianca e il Pentagono erano perfettamente informati, dopo aver messo in salvo le portaerei, le corazzate e i loro equipaggi furono lasciati a fare da bersaglio per far credere all’opinione pubblica americana che gli Stati Uniti fossero stati aggrediti a tradimento.

Da sola, però, la sostituzione di un nemico reale con uno immaginario, non c’era da aspettarsi che si rivelasse troppo efficace; l’altra parte del piano-plagio consiste nell’operazione propagandistico-repressiva: accentuare nei vassalli europei la gratitudine per averli “liberati” con la seconda guerra mondiale, e il senso di colpa per aver permesso “l’olocausto” e nello stroncare senza pietà le poche voci dissidenti.

In tutta l’Europa “democratica” si è introdotto il reato d’opinione: in Francia la legge Gayssot; in Italia dove la democrazia è sempre stata un ossimoro, la preesistente legge Scelba è stata man mano inasprita con le leggi Reale, Mancino, Mastella, ma misure analoghe sono state introdotte dovunque.

Io adesso non voglio entrare nel dibattito sul cosiddetto olocausto, discorso che ci porterebbe lontano, ma quando una democrazia fa di un’opinione espressa civilmente un reato, nega quei presupposti libertari che in teoria dovrebbero esserne il fondamento, e svela il suo volto tirannico (consiglio di leggere sempre sul sito del Centro Studi La Runa il mio articolo La tirannide democratica), con risultati talvolta grotteschi se non fossero tragici; così ad esempio l’insigne linguista Noam Chomsky è stato accusato di essere antisemita per il fatto di aver osato asserire che anche i revisionisti hanno diritto di esprimere la loro opinione. Piccolo particolare che rende grottesca e surreale la faccenda: Noam Chomsky è ebreo.

“Non sono d’accordo con le tue idee, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa professarle liberamente”, diceva Voltaire. Fosse vivo oggi, sarebbe considerato un pericoloso estremista di destra, e se avesse osato pronunciare queste parole a sostegno di Robert Faurisson, in base alla legge Gayssot sarebbero scattate le manette pure per lui; di certo ha corso meno rischi sotto l’ancien regime.

La libertà non è a compartimenti stagni; il divieto di manifestare la propria opinione in un settore finisce per riflettersi su tutti gli altri. Basandosi su di un’interpretazione estensiva delle leggi anti-revisionismo, si è mandato in carcere lo scrittore austriaco Gert Honsik, colpevole di aver rivelato Il piano Kalergy in 21 punti, teso a distruggere l’Europa attraverso il declino demografico, l’immigrazione, il meticciato; sebbene sia chiaro che il contenuto del suo libro con l’olocausto non c’entri per nulla; analogamente, come “premio” per il suo ottimo libro-inchiesta sull’11 settembre, Maurizio Blondet è stato cacciato dalla redazione de “L’Avvenire”, e anche quella delle Twin Towers è una questione che con l’olocausto non ha, mi pare, nulla a che spartire. In pratica si commette un “reato d’opinione” tutte le volte che si ha il coraggio di rivelare una verità sgradita ai padroni americani.

I due pilastri del liberalismo, la presunzione che “i diritti” (molto più facilmente calpestabili di quanto non si pensi) assicurino il soddisfacimento dei bisogni, e che istituzioni elettive garantiscano la libertà, sono entrambi crollati. Il liberalismo è morto, ucciso dalla democrazia, o meglio dal democraticismo (termine che io considero preferibile, perché evidenzia che si tratta di un’ideologia con quanto di bugiardo è lecito presumere da questo tipo di costruzioni astratte).

Sulla tomba del pensiero liberale, ci si può tuttavia interrogare su che genere di eredità il de cuius abbia lasciato, visto che in esso sono stati coinvolti alcuni dei più reputati intellettuali dello scorso secolo e di quello precedente.

Probabilmente uno degli intellettuali liberali del tardo XX secolo la cui opera è ricca di spunti suscettibili di essere riutilizzati in un altro contesto, è stato il francese Jean François Revel, per molti anni redattore di punta di quel “L’Express” che era l’antagonista diretto di “Le monde”, a sua volta bastione del pensiero “liberal” e “radical-chic”. Il suo scritto più vasto è stato probabilmente il libro La conoscenza inutile, pubblicato in Francia nel 1988 e in Italia l’anno successivo, quindi proprio alla vigilia della caduta del muro di Berlino e di tutti rivolgimenti che si sono verificati a partire da questo evento.

Sempre tenendo presente che noi siamo noi e che loro erano loro, e che alcune posizioni espresse in un testo di questo genere erano allora, e a maggior ragione sono oggi assolutamente inaccettabili, dall’atlantismo e filo-americanismo alla convinzione della bontà dell’economia di mercato, tuttavia vi sono alcune analisi che non hanno per nulla perso attualità e ancora oggi si rivelano straordinariamente utili.

La conoscenza inutile è quella degli intellettuali, in particolare di sinistra, nei quali Revel nota una singolare schizofrenia: costoro in genere sono ben informati dei fatti, conoscono la storia, hanno una conoscenza talvolta non disprezzabile dell’economia e della sociologia, ma tutte le loro conoscenze diventano di colpo inoperanti, inutili appunto, quando si parla dei regimi sedicenti socialisti fatti oggetto da parte di costoro di un’adorazione semi-religiosa, a dispetto del fatto di sapere benissimo che questi regimi si sono instaurati e consolidati con la violenza più brutale (a cominciare dalla cosiddetta rivoluzione d’ottobre che fu in realtà un golpe militare) e non hanno prodotto altro che oppressione, terrore e miseria per i loro sudditi. A posteriori, si può – io credo – riscontrare una notevole analogia con il bis-pensiero, il pensiero scisso riscontrato da Orwell.

Se ci pensiamo bene, questo costituisce una risposta anticipata a una domanda che – credo – tutti noi ci saremo posti prima o poi: oggi non ci confrontiamo più con la minaccia sovietica, tuttavia continuiamo ad essere subissati da un sinistrismo imperante, da un marxismo strisciante e umorale che porta a esiti grotteschi se non fossero tragici; ad esempio, il mito dell’internazionalismo si è oggi convertito in un’accettazione talvolta entusiastica della globalizzazione, nella frenesia di “integrare” nelle nostre società un’immigrazione inassimilabile, senza che gli eredi di Marx sembrino rendersi conto di essere oggi a tutti gli effetti i più zelanti complici delle manovre del grande capitalismo internazionale inteso a distruggere popoli, etnie e culture. Possibile che eventi epocali come il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dell’impero comunista nell’Europa dell’est e poi la scomparsa dell’Unione Sovietica non abbiano indotto nessuno a un salutare ripensamento che sia stato altra cosa dai make-up di facciata e l’abbandono semplicemente della simbologia comunista?

Bene, la risposta la troviamo qui, in un’adesione al marxismo di tipo para-religioso unita alla vuotezza, all’astrattezza, all’ipocrisia che sono le stigmate del ceto intellettuale.

Mentre il cadavere del liberalismo è stato definitivamente sepolto, così non è avvenuto per quello del marxismo; possiamo dire che oggi la sinistra è una sorta di mostro di Frankenstein rabberciato con i cascami di esperienze storiche fallite.

Tuttavia, e l’analisi di Revel lo mette bene in rilievo, il problema non si limitava e non si limita oggi a coloro che si dichiaravano comunisti o erano militanti dei partiti con la falce e martello, ma si estende a tutti coloro che, socialisti e socialdemocratici, “democratici” e “compagni di strada” delle più varie specie, hanno trattato nei decenni della Guerra Fredda il comunismo come se fosse un’ideologia rispettabile invece che il trasparente alibi di un sistema di tirannidi totalitarie e come se i suoi progetti aggressivi volti all’instaurazione della “rivoluzione” su scala mondiale fossero meno che manifesti.

A posteriori, possiamo capire con tutta evidenza perché non si è verificata nessuna “Norimberga del comunismo”, perché il più delle volte alle vittime della più gigantesca e mostruosa tirannide del XX secolo non è stato riconosciuto nemmeno il tributo della memoria: le complicità esistenti “prima” hanno continuato a funzionare anche “dopo”, e i “compagni” socialisti, socialdemocratici e utili idioti assortiti hanno subito offerto ai comunisti il mantello di una “ritrovata appartenenza democratica” per coprire le loro vergogne e data per buona la loro conversione alla democrazia rappresentativa nel giro di una notte.

Un dato che emerge con sconcertante chiarezza, è che furono gli ingannati a volersi ingannare, prima ancora che gli ingannatori avessero il tempo di mettere in piedi la loro macchinazione, a partire dalla cosiddetta rivoluzione d’ottobre e dall’edificazione dello stato sovietico.

“La falsificazione del reale carattere della dittatura leninista costituì un’operazione intenzionale, frutto dell’iniziativa dei socialisti francesi, già prima della scissione di Tours (dicembre 1920), in un periodo in cui il giovane Stato bolscevico non disponeva evidentemente di nessun servizio di propaganda per l’estero e non esisteva ancora alcun partito comunista occidentale in grado di manipolare i fatti. L’inganno fu inventato dagli ingannati, non dagli ingannatori” (pag. 352).

Un settore nel quale la demagogia di sinistra ha avuto modo di avere libero sfogo, e dove ancora conserva le sue posizioni più forti, un settore che assolutamente a torto tendiamo a considerare marginale, e invece è di importanza fondamentale, perché attraverso essa passa la formazione – e spesso la deformazione – delle nuove generazioni, è quello della scuola, diventata un “feudo rosso” a partire dal 1968, e tale sciaguratamente rimasta ancora oggi. Revel parlava per la Francia vent’anni fa, ma non è che la situazione italiana fosse migliore, o che si sia sostanzialmente modificata rispetto ad allora.

L’errore, l’immenso errore, e il delitto (perché priva le nostre società della possibilità di essere guidate dagli elementi più idonei e più capaci) è quello di confondere il principio giuridico dell’uguaglianza (dare a tutti uguale possibilità di dimostrare le proprie differenti capacità) con l’uguaglianza di fatto, di vedere dietro a qualsiasi dimostrazione di talento e merito il privilegio sociale, e mirare di conseguenza all’appiattimento di tutti al livello minimo.

“Solo la classe sociale, il privilegio economico, il vantaggio culturale conferiti dall’ambiente spiegano le differenze [tra allievi più e meno dotati]…La scuola non ha dunque che una sola missione: neutralizzare l’influenza di questi fattori ristabilendo al suo interno la rigorosa uguaglianza di risultati che sfortunatamente non si riscontra al di fuori delle sue mura…Il buon allievo deve essere mantenuto al livello dei cattivi, considerata l’equa media sociale” (pag. 300-301).

Un capitolo a parte in questo discorso è rappresentato dalla Chiesa. Oggi, a venti e passa anni di distanza da quei fatti, un lasso di tempo più che sufficiente per appannare la memoria di qualcuno (specie se non si vuole ricordare o si vuole ricordare solo quello che fa comodo) è facile sentire leggende sul ruolo avuto dai cattolici e dal papa polacco nel determinare il crollo dell’impero comunista nell’Est europeo. Basta però scorrere queste pagine scritte quasi in concomitanza con gli eventi per rendersi conto come tali leggende siano assolutamente prive di fondamento.

Il Concilio Vaticano II fu sostanzialmente un’apertura della Chiesa verso il comunismo che essa era convinta sarebbe uscito vincitore dal lungo braccio di ferro della Guerra Fredda (che volete, si vede che in quel momento “lo Spirito Santo” era distratto), e in questo la “Sposa di Cristo” non faceva altro che mantenersi fedele alla sua bimillenaria tradizione di “puttaneggiar coi regi”, di schierarsi sempre e comunque dalla parte di chi riteneva sarebbe stato il vincitore.

“E’ un luogo comune alquanto diffuso che la Chiesa cattolica si sia improvvisamente accorta, dopo millenovecentosessanta e passa anni, di essersi sempre trovata dalla parte dei più forti e che era ormai tempo di conformarsi alla sua missione evangelica e passare dalla parte dei deboli. Dunque è passata nel campo dell’anticapitalismo. Ma sarebbe un errore credere che l’abbia fatto per subitanea carità verso i deboli. Se ha abbracciato l’interpretazione socialista del mondo è perché essa crede, e spero a torto, che il campo comunista sia quello dei futuri vincitori, particolarmente nel terzo mondo. Rimane quindi sempre fedele alla propria tradizione: stare dalla parte dei più forti” (pag. 335).

Ma non è tutto, perché – e qui Revel presenta una tesi estremamente suggestiva – la Chiesa sapeva bene di non poter riguadagnare terreno nel laicizzato mondo occidentale, mentre in società uniformemente cristallizzate attorno a miti totalitari, poteva sempre sperare di sostituire alla bandiera del comunismo la propria. Solo così si possono spiegare certi atteggiamenti che retrospettivamente appaiono quasi incredibili.

“Perché avviene tutto ciò? Senza dubbio perché il seguito del cattolicesimo come religione propriamente detta è in diminuzione. I teologi della liberazione preferiscono l’ortodossia marxista alla completa assenza di ogni ortodossia. Il loro odio si concentra tutto sulla società liberale, che coi suoi miliardi di varianti individuali risulta incontrollabile. Questo tipo di società, lo sanno bene, non potrà più essere riconquistato dal clero. La società collettivistica, al contrario, già unificata dal marxismo, può, almeno credono, ritornare un giorno nelle loro mani, cambiando semplicemente di stampo” (pag. 333).

Se noi guardiamo quale era la situazione geostrategica ai tempi della Guerra Fredda, è facile rendersi conto che nello scacchiere europeo non era pensabile a un avanzamento di uno dei due schieramenti contrapposti senza che questo portasse all’innesco di una terza guerra mondiale verosimilmente da combattersi con armi nucleari, e questo nessuno era  tanto pazzo da volerlo, ma nel Terzo Mondo, soprattutto grazie al caos lasciato dalla decolonizzazione, la situazione si presentava molto più fluida, e qui in effetti l’aggressione comunista fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del XX secolo ha fatto sostanziali progressi, arrivando quasi a stringere d’assedio il mondo non comunista.

Questo ci porta a un’altra questione riguardo alla quale le riflessioni di Revel risultano ancora oggi estremamente istruttive. Come ben sappiamo, una consolidata tradizione sociologica di sinistra cristiano-marxista attribuisce la responsabilità delle condizioni di persistente miseria del Terzo Mondo, in particolare dell’Africa al mondo occidentale bianco e non comunista. Per l’ordinario sono state enormemente sottovalutate o nascoste, e si continuano a nascondere sia le responsabilità della politica condotta verso queste aree del mondo dal blocco comunista fino alla fine degli anni ’80 sia le cause puramente endogene del sottosviluppo.

Riguardo alle prime, Revel mette assieme un dossier davvero impressionante che vanno dalla destabilizzazione politica (ed è raro che delle guerre civili facciano bene all’economia di qualsivoglia nazione) a una politica commerciale basata sull’importazione di materie prime ed esportazione di armi che per moltissimo tempo hanno rappresentato il genere d’importazione largamente preferito dai tirannelli africani più o meno progressisti e socialisti, e che Unione Sovietica e Paesi satelliti hanno fornito con generosità; per non parlare degli esempi di “socialismo” africano, ad esempio quello rappresentato dal regime “rosso” dell’Etiopia che copiò letteralmente negli anni 70 il metodo impiegato da Stalin quarant’anni prima verso l’Ucraina, provocando deliberatamente la carestia nelle regioni sospettate di opporsi al governo di Addis Abeba.

Oltre a ciò, però non vanno occultate né minimizzate le cause puramente endogene del sottosviluppo dell’Africa nera, a cominciare dalla totale inefficienza e corruzione delle classi politiche africane e da quella causa permanente di conflitti e di guerre “civili” che è il tribalismo.

“E’ comprensibile che certi dirigenti del terzo mondo tengano alla tesi dell’origine puramente esterna del sottosviluppo. Essa permette di attribuire ai paesi sviluppati i loro insuccessi, di stornare l’attenzione dalla loro incompetenza e dalla loro rapacità, nonché di ottenere nuovi crediti per perpetuarne l’esercizio” (pag. 103).

Il tribalismo che costituisce la forma di base dell’organizzazione (o della disorganizzazione) sociopolitica dell’Africa subsahariana, e il lungo, lunghissimo strascico di conflitti intertribali: se noi sommiamo la perdita di braccia da lavoro degli arruolati nelle bande armate tribali, dei deceduti nei conflitti, la distruzione dei raccolti, il cronico autoperpetuarsi di questa situazione da parte di “ribelli” e guerriglieri che fin da bambini non hanno imparato altro modo di vivere che il saccheggio con le armi in pugno, davvero non occorre molto altro per spiegare le condizioni di miseria e di carestia cronica che affliggono il “continente nero”.

Riguardo a ciò, l’unica “colpa” rinfacciabile a noi Europei è il lungo stop ai conflitti tribali imposto dalla colonizzazione.

Di tutto questo non si parla anche perché oggi si cerca più che mai di coltivare in noi europei “bianchi” dei sensi di colpa che ci rendano psicologicamente disarmati nei confronti di un’immigrazione che rischia di cancellarci come etnie.

Non a caso, perché possiamo essere del tutto disinformati della realtà delle cose, Revel fa notare di non aver trovato in nessuno dei molti manuali di sociologia e di antropologia culturale in circolazione una qualche specie di analisi dell’istituto tribale che pure costituisce la società di base subsahariana.

“Le spiegazioni politiche e ideologiche tratte dalla retorica occidentale in effetti mascherano con una vernice superficiale conflitti che, in profondità, oppongono diverse tribù fra loro. Le realtà tribali costituiscono un fattore della storia della cui esistenza la sinistra benpensante, quella cioè portata a idealizzare il terzo mondo, non ama essere messa al corrente. Per averla nonostante tutto ricordata, sia pure con tutte le precauzioni oratorie possibili, mi sono fatto un giorno fischiare da un uditorio molto terzomondista, a Parigi nel 1985, in occasione di un dibattito pubblico su “Democrazia e sviluppo” (…).

Avendo avuto la curiosità di consultare vari trattati recenti di sociologia, in inglese e in francese, mi ero accorto che in essi non si trovava più alcun capitolo dedicato alla nozione di tribù in quanto tale. Analogamente, i dizionari enciclopedici si limitano ormai a darne una vaga definizione, si accontentano di frasi generali, senza produrre i numerosissimi esempi storici e recenti che permetterebbero di cogliere il fenomeno nella sua concretezza” (pag. 89-90).

In contrasto con tutto ciò e la “sinistra” tendenza ad attribuirci in quanto europei, tutte le colpe possibili del mondo, forse senza accorgersene, Revel finisce per voltare le spalle alla tradizione cosmopolita tipica del liberalismo e per riconoscere la superiorità dei valori civili e morali europei.

“E’ solo con la civiltà greca, poi con Roma e con l’Europa moderna, che nacque un giorno, in una cultura, non certo una modestia totale, ma almeno un punto di vista autocritico in seno a questa medesima cultura (…).

Ma in Platone, Aristotele o, nel XVIII secolo nei filosofi dei Lumi (cui appartengono i Padri fondatori americani) questo principio relativista significa non che tutti i costumi si equivalgono, ma che tutti devono essere imparzialmente giudicati, compreso il nostro. Noi non dovremmo, secondo tali filosofi, essere più indulgenti con noi di quanto siamo con gli altri, ma non dovremmo neppure essere più indulgenti con gli altri di quanto siamo con noi stessi. L’originalità della cultura occidentale consiste nell’aver stabilito un tribunale dei valori umani, dei diritti dell’uomo, dei criteri di razionalità, di fronte al quale tutte le civiltà devono parimenti comparire, non nell’aver proclamato che tutte le civiltà sono equivalenti (…).

La nostra civiltà ha inventato l’autocritica in nome di un corpus di principi valido per tutti gli uomini a cui quindi devono ispirarsi tutte le civiltà…Essa perde la sua ragion d’essere se abbandona questo punto di vista. I Persiani di Erodoto pensavano che tutti avessero torto fuorché loro; noi altri occidentali moderni siamo ormai prossimi a pensare che tutti abbiano ragione fuorché noi. Ma questo non è un progresso dello spirito critico, sempre auspicabile, è il suo abbandono totale” (pag. 110-111).

E’, come si vede, un brano notevole che mette impietosamente il dito sulla piaga di quel multiculturalismo di cui la sinistra si delizia tanto e che è, in poche parole, una vera e propria brama di suicidio, un cupio dissolvi estremamente pericoloso nel momento in cui ci confrontiamo con culture compatte e aggressive, estremamente forti nella loro identità e in fase di espansione virulenta sul nostro stesso suolo grazie all’immigrazione, come è oggi quella islamica, ma non solo essa.

Detto questo, sono però necessari alcuni distinguo che, in ultima analisi, sono quelli che ci consentono di rilevare la differenza fra il punto di vista liberale e il nostro.

Per prima cosa, occorrerebbe smettere una volta per tutte di parlare di “civiltà occidentale”. Quest’espressione aveva un senso all’incirca fino a un secolo fa, quando indicava l’Europa e le sue propaggini al di là degli oceani, le Americhe e l’Oceania. Oggi, soprattutto dopo il 1945, l’uso di quest’espressione tende a nascondere il fatto che con le due guerre mondiali c’è stato un ribaltamento dei rapporti di forza a livello planetario e che all’interno del contesto “occidentale” l’Europa non ha più una posizione egemone e nemmeno paritaria nei confronti del dominatore americano. E’ di civiltà europea e non “occidentale” che dobbiamo avere il coraggio di parlare; non solo, ma occorre tenere presente che proprio l’americanizzazione è oggi la minaccia più grave, più diretta, quella verso la quale abbiamo minori difese, al nostro retaggio culturale.

In secondo luogo, rileviamo come, evidenziando un pregiudizio o una distorsione mentale assolutamente tipici di una cultura di base liberale o liberal-massonica, Revel salti in maniera incredibile dall’antichità classica al secolo dei Lumi. E in mezzo non c’è stato nulla? Il tempo e una storiografia più obiettiva hanno poco a poco mostrato tutta la falsità del pregiudizio illuminista riguardo al medioevo come epoca barbara e bigotta. Al contrario, fu un’epoca vigorosa, nonostante la cristianizzazione. E il rinascimento, dove lo mettiamo? C’è molta parte della civiltà europea tra Aristotele e Voltaire. O Dante, Leonardo, Shakespeare, Galileo non li dobbiamo tenere in nessun conto?

A ogni modo, Revel fa una cosa molto utile menzionando qualcosa che di solito non si ricorda mai, i cosiddetti padri fondatori degli Stati Uniti come parte del movimento illuminista, mettendo così indirettamente e involontariamente a fuoco i limiti e le falsità dell’illuminismo stesso, perché questi padri fondatori, padri di una pseudo-nazione, il più gigantesco aborto della storia, erano uomini di un’ipocrisia spaventosa; pensiamo per tutti a Thomas Jefferson, che ha redatto quella dichiarazione d’indipendenza che è anche, forse, il più esaustivo “manifesto” dell’illuminismo: nel momento in cui proclamava solennemente la libertà e l’uguaglianza come diritti fondamentali spettanti per nascita a qualsiasi uomo, costui era un latifondista e proprietario di centinaia di schiavi!

L’America ha rimasticato a modo suo alcuni elementi della cultura europea, facendone qualcosa di totalmente altro e profondamente falso. Vorrei invitarvi a questo riguardo alla lettura del bel saggio di Sergio Gozzoli L’incolmabile fossato, pubblicato parecchio tempo fa su “L’uomo libero”, ma tuttora reperibile in internet.

L’Europa e la sua civiltà millenaria, non “l’occidente” a egemonia USA, è il nostro retaggio storico e ciò che abbiamo il dovere di preservare a qualunque costo.

In conclusione, possiamo dire che sebbene risulti una volta di più che il liberalismo è un’ideologia superata e morta che ha forse avuto il suo canto del cigno nell’epoca della Guerra Fredda, quella che risulta tuttora non superata, utile e molto istruttiva, è la pars destruens di questo libro, nello svelare i meccanismi demagogici, le ipocrisie, le falsificazioni che stanno alla base della mentalità “di sinistra”.

La cosa, a mio parere, è importante non tanto riguardo alla minaccia bolscevica che oggi fortunatamente non esiste più, ma nei riguardi di quel sinistrismo democratico che nei tempi che furono ha offerto alla prima tutte le coperture e tutti gli alibi possibili, e oggi tende a portarci all’accettazione rassegnata o addirittura collaborativa ed entusiastica della nostra scomparsa come popoli, etnie e culture per gli effetti combinati della globalizzazione manovrata dall’alta finanza internazionale, dell’americanizzazione della nostra cultura e del meticciato conseguente all’immigrazione. Un testo che merita di essere preso, in alcune delle sue analisi, non come una guida ma come un’arma.

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  1. Giuseppe
    | Rispondi

    Ancora con Voltaire.Non pronunciò mai quella frase.Era misogino,razzista ed intollerante.Si scelga padri più nobili.
    Per il resto Lei cita Revel.Ho letto quel libro,è una miniera di riscontri al settarismo intellettuale.Condivido.
    Saluti

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