L’ideologia ruralista del Blut und Boden

Richard Walther Darré (Belgrano, 14 luglio 1895 – Monaco di Baviera, 5 settembre 1953)

Era l’anno 377 a.C., quando a Roma vennero approvate le famose leggi Licinie-Sestie: esse prevedevano l’assegnazione di poderi familiari al popolo, introducendo il divieto di possedere più di 500 iugeri di terra. E molto nota è anche la figura storica di un Caio Gracco, che oltre duecento anni dopo proponeva la confisca delle proprietà terriere troppo estese – già veri latifondi – per redistribuirle in limitati lotti proletari, così da rinsaldare quel tessuto di piccola proprietà contadina familiare ed ereditaria, che a Roma veniva considerato centrale per la stabilità dello Stato e per l’identità tradizionale del popolo. Tanto che Virgilio, nelle Georgiche – non diversamente da Pound duemila anni dopo –, fece una celebre esaltazione della vita e dei valori rurali, cantando la figura del piccolo proprietario terriero e l’immutabile stile di vita rurale come l’ideale della convivenza a misura d’uomo: il contadino è lo scrigno delle virtù della stirpe, è saggio e frugale, laborioso e tenace; è insomma la colonna portante della società. Una concezione che, con Giulio Cesare, divenne epocale, con la distribuzione della terra ai veterani di guerra e il rafforzamento sociale del legionario-colono, fulcro dell’assetto etnico e politico fino a Impero inoltrato.

A Roma, dunque, e sin dalle origini, il legame tra stirpe romano-italica e suolo dell’insediamento era una filosofia di vita e, allo stesso tempo, un sistema sociale ben saldo. È risaputo che, come riporta ad esempio Tito Livio, Augusto favoriva la celebrazione delle origini contadine del popolo romano, al fine, come ha scritto la storica Storoni-Mazzolani, «di infondere nei Romani il senso della propria identità etnica e culturale». Roma, in fondo, nasce contadina. E il suo mito di fondazione prende vita dalla sacralizzazione di un atto semplicissimo: la recinzione di un campo.

La lotta al latifondo e al capitalismo agrario, e la mistica della comunione tra ceppo ereditario e suolo, come si vede, in Europa ha origini molto antiche. E dunque l’ideologia agraria rilanciata nel secolo XX dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo con le formule del Ruralismo e del Blut und Boden (Sangue e Suolo), non fu una trovata moderna, magari per sedare le masse, ma la ripresa di arcaicissime tematiche identitarie. Per altro, l’attribuzione alla figura del contadino di virtù etiche insostituibili era stata una costante della civiltà europea. Basta ricordare che la suddivisione “trifunzionale” della società europea (sacerdoti-guerrieri-contadini), veneranda eredità indoeuropea, è stata studiata dagli storici in tutto il suo arco, che arrivò pressoché inalterato fino alla Rivoluzione francese.

La recente uscita del libro di Andrea D’Onofrio Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista (pubblicato dalla casa editrice universitaria ClioPress), ci permette di penetrare più a fondo in uno degli snodi essenziali delle ideologie anti-progressiste del Novecento. Qui si ha un chiaro esempio di come il Nazionalsocialismo – sulla scorta dell’esempio fascista – riuscisse a far convivere moderno dinamismo industriale e antica socialità contadina. Un binomio che ben riassume il tratto tipico di quei regimi, innestati sia sull’innovazione tecnologica che sulla tradizione popolare, secondo la conosciuta formula della “rivoluzione conservatrice”. In Germania, l’emanazione della legge del settembre 1933 sulla costituzione dell’Erbhof – il podere ereditario inalienabile che, su impulso del ministro dell’Agricoltura Walther Darré, il Terzo Reich mise al centro della riorganizzazione della società tedesca – rappresenta bene il tipo di lotta che gli ambienti ideologici nazionalsocialisti intendevano intraprendere. Nulla di nuovo. Se non nel modo radicale con cui si pensava di procedere. Si trattava, niente di meno, che di invertire il trend modernista di urbanizzazione e sradicamento delle popolazioni, secondo quei processi di industrializzazione che già alla fine dell’Ottocento i sociologi avevano studiato nei loro risvolti rovinosi dei tessuti sociali consolidati. D’Onofrio nota che all’ideologia rurale nazionalsocialista parteciparono anche studiosi che, per conto loro, già da tempo avevano proposto delle soluzioni al declino demografico tedesco del primo dopoguerra e allo spopolamento delle campagne dovuto al dilagare delle metropoli.

Arno Breker, Die Partei
Arno Breker, Die Partei (Il Partito).

Demografi e studiosi come Friedrich Burgdörfer, direttore dell’Ufficio di Statistica, già in epoca pre-nazista erano giunti alla conclusione che il regresso delle nascite andava di pari passo con la crisi della popolazione agraria e dell’ideologia conservatrice che ne era il fondamento. E Spengler, fin dal 1918, spese parole di fuoco contro l’avvento della grande città, abitata da “nomadi” e “parassiti” snazionalizzati, del tutto avulsi da contesti di solidarismo comunitario, tipico invece dei fermi legami della società contadina. Il Nazionalsocialismo, su questi temi culturali e di ricerca scientifica, inserì la volontà politica di fare sul serio. Secondo modi che lo storico Domenico Conte, studioso di questi aspetti della Germania moderna, anni fa ha definito “originali”: l’istituzione di un’unica grande corporazione agraria – il Reichsnährstand –, la promulgazione di leggi che regolavano i premi di produzione, i prezzi, i consorzi di produttori, etc. Il tutto, stabilito in base alla programmazione statale – tendenza comune a tutto il mondo industrializzato dell’epoca – e sostenuto dall’ideologia del comunitarismo contadino. Del quale si propagandava l’idea che fosse in grado di autogovernarsi, senza bisogno di venir gestito da interventismi dell’autorità centrale.

Scrive D’Onofrio che, dietro questi intendimenti, batteva un’interpretazione razzistica fortemente versata a considerare il popolo dal punto di vista biologico, quasi zoologico. È quando riporta le opinioni di studiosi come Günther, fiancheggiatore del Blut und Boden e teorico della “purezza razziale” del ceto contadino. Si tratta di una deformazione di prospettiva che, di solito, la storiografia compie, assegnando in esclusiva al Nazionalsocialismo intenzioni che, in quei decenni, appartenevano a molte altre sfere politiche. Per dire: l’igiene razziale (ad esempio, in Italia, promossa tra Otto- e Novecento da progressisti come Lombroso o Mantegazza) era materia di generale consenso, anche in contesti “democratici”. Nella Germania weimariana, protagonisti dell’igienismo razziale erano stati noti esponenti socialdemocratici come Ploetz e Grotjahn. E l’eugenetica – concepita in ambito liberale e darwinista –, in quel periodo divenuta legge di Stato negli USA o in Svezia e rimasta tale fino agli anni Sessanta del Novecento non fu una prerogativa di questo o quell’ideologo nazista, ma ricerca scientifica e prassi politica diffuse. Davvero non si vede, dunque, dove sia il motivo per dichiarare il ruralismo nazionalsocialista più una perversione “biologista”, che non una cultura di tipo tradizionale, modernamente riproposta.

Adolf Wissel, Kalenberger Bauernfamilie (1939)
Adolf Wissel, Kalenberger Bauernfamilie (1939)

Lo stesso D’Onofrio, d’altronde, riporta che il tratto tipico della “utopia” legata alle virtù del contadino tedesco era una forma di neopaganesimo, quindi un’impostazione spiritualista ben prima che “zoologica”. Alle accuse di materialismo rivolte nel 1937 da Pio XI alla «fede nella razza e nell’ereditarietà», i teorici nazisti ribattevano, scrive D’Onofrio, «che le leggi di natura non erano altro che leggi divine e il loro “rispetto” assieme alla cura delle qualità che Dio ci aveva regalato erano, perciò, tra le massime espressioni di religiosità».

Crediamo che il nòcciolo della questione sia quindi un altro. Probabilmente, l’aspetto storicamente più importante del ruralismo – sia nazionalocialista che fascista – sta nella sua lotta alle degenerazioni della modernità. L’aggressione alle identità nazionali prodotta dall’avvento dell’anonimato di massa trovò allora dei critici severi. In questo senso, il Nazionalsocialismo fu un seguace di teorie socialdarwiniste pensate al di fuori del suo contesto, ma anche un singolare anticipatore di argomenti oggi attuali. L’ecologismo ambientalista, ad esempio. Anni fa, la studiosa Anna Bramwell scrisse un’importante biografia di Darré, presentandolo come un profeta del pensiero “verde”. In effetti, la lotta da lui intrapresa all’inquinamento e al disboscamento, la tutela degli equilibri ecosistemici, i divieti di caccia, la creazione dei parchi naturali etc., erano tutte politiche che si affiancavano alla difesa del podere contadino, al miglioramento della salute e dell’igiene popolare, alla protezione della cultura di villaggio e alla cura del territorio. Ivi compresa la nozione di paesaggio come elemento di influenza sul carattere. Darré fu un fiero avversario degli Junker, i grandi latifondisti prussiani. E sempre D’Onofrio, ma in un suo precedente libro sullo stesso argomento, Ruralismo e storia nel Terzo Reich (Liguori), ha precisato che la politica agraria nazionalsocialista venne presentata come una liberazione del contadinato tedesco dai secolari gravami del debito e della servitù sociale. Insomma: il ruralismo, innanzi tutto, come anti-capitalismo. In Razza, sangue e suolo il nostro autore specifica che, attraverso le leggi agrarie e gli strumenti della divulgazione ideologica, come l’autorevole rivista Odal, Darré si prefiggeva lo scopo di opporre al disintegrazionismo progressista la salda tenuta psico-sociale e bio-storica delle aggregazioni tradizionali. In questo, «si sarebbe dovuto ispirare innanzi tutto alla rigida coscienza razziale e biologica del popolo ebraico, per assumere a sua volta una coscienza di unità organica e biologica». Dunque, paradossalmente, il cuore sociale e culturale del razzialismo nazionalsocialista aveva in vista il modello rappresentato dallo storico nemico di razza, da sempre esempio vivente della cultura selettiva e della preservazione delle qualità ereditarie collettive.

Infine, non può neppure esser taciuto il dato che Darré e i ruralisti rappresentavano un aspetto anti-imperialistico e immobilista della realtà sociale del Terzo Reich: non volevano produrre artificialmente la “razza superiore” ma, come è stato più volte puntualizzato dagli storici, volevano difendere un’etnia dalla minaccia di estinzione portata dalla crescita mondiale del cosmopolitismo: tale etnia minacciata, definita nordica dal lessico nazionalsocialista, cioè la “crema” del popolo tedesco, era il patrimonio di “sangue” cui era riservata la protezione della più intima Volksgeist, lo spirito popolare. Diversamente da un Himmler, Darré pensò il ceto contadino come pacifica e ristretta élite dedita al lavoro dei campi, più che a programmi guerrieri di conquista imperialistica. Forse per questo nel 1942 – ma solo allora e non prima – venne di fatto politicamente esautorato.

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Tratto da Linea del 30 maggio 2008.

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