L’erede di Baabek

Sergio Valzania
Sergio Valzania

La narrativa, e soprattutto quella “di genere”, ha i suoi cliché, i suoi luoghi comuni, i suoi topoi, le sue convenzioni, i suoi stereotipi di fatti e personaggi che la critica delle diverse tendenze ha abbondantemente analizzato e classificato. Diciamo di più: ogni narrativa “di genere”, per essere considerata tale, deve uniformarsi a ben determinati canoni; di conseguenza il problema che si pone ad ogni scrittore “specializzato” che non voglia essere banale e ripetitivo, è quello di restare all’interno delle convenzioni prescelte e allo stesso tempo rinnovarle e/o trasgredirle. Ciò vale per il poliziesco e il “rosa”, per la spy story e l’orrore, per il western e la fantascienza. E naturalmente anche per l’heroic fantasy, che negli ultimi quindici anni ha avuto nei paesi anglosassoni un enorme successo con un moltiplicarsi incredibile di collane e autori, e che solo ultimamente sta passando il “testimone” all’horror.

Il problema diventa più difficile e complesso per lo scrittore italiano il quale intende cimentarsi con la narrativa “di genere” che – per definizione – viene ritenuta “d’importazione”, cioè tipicamente americana e inglese: da qui la sin troppo facile accusa di “imitazione”, di “copia”, di “mancanza d’originalità”. Come fare a restare nell’alveo del “genere” prescelto e allo stesso tempo creare qualcosa d’inedito, di personale? Come ho avuto occasione di accennare in altre occasioni, le vie da percorrere – volendo – sono due: quella tradizionale che si inserisce nei canoni classici del “genere” scelto; quella più nazionale, che predilige lo scenario autoctono, per così dire. Inoltre, in entrambi i casi, si può far leva, separatamente o contemporaneamente, su stile e trama, linguaggio e contenuti.

L’erede di Baabek di Sergio Valzania mi pare un’ottima prova di come si possa scrivere una heroic fantasy inserita nel solco tradizionale con numerosi spunti di originalità che derivano dalla formazione culturale dell’autore, appassionato non soltanto di letteratura fantastica e fantascientifica scritta e disegnata, ma anche di giochi e boardgames, nonché di problemi logico-tattici e storici. Questa “specializzazione” ha conferito al suo romanzo un taglio del tutto particolare e inedito rispetto non solo ai modelli stranieri, ma anche rispetto alla produzione italiana di fantasia eroica.

L’erede di Baabek, infatti, si inserisce perfettamente nell’ambito dei “mondi secondari” tolkieniani: la realtà in cui agiscono i protagonisti (non si sa se in altro tempo, in un’altra dimensione o in un altro pianeta) è autosufficiente e avulsa dal contesto del lettore e dell’autore, e di essa si danno per scontate molte cose, senza che per questo la comprensione ne venga disturbata, anzi in tal modo sollecitando l’immaginazione del “fruitore” a completare con la propria fantasia il quadro di quest’Altra Realtà. A veder bene, ad esempio, i pfir, bestioni volanti spesso in primo piano, non vengono mai descritti (e personalmente li immagino come la cavalcatura di cui fa uso Arzak/Harzac, il personaggio dei fumetti di Moebius), così come i bomp, cavalcatura a sei zampe, o il trosko (strumento musicale), o il gorb (un cibo), o il map (una bevanda), o il poghin (una pianta), o il filiir (un animale commestibile). Come sono fatti? Che dimensioni forme, colori, grandezza hanno? Valzania non ce lo dice, ed è lasciato a noi aggiungere i particolari che definiscono meglio il suo accenno. Questa caratteristica ci fa capire come, a differenza di altre opere di heroic fantasy “alla Tolkien”, qui poco si parli di mitologia, di religione, di costumanze, cui sono dedicati soltanto rapidi cenni, mentre si privilegia invece il colore locale, le descrizioni d’ambiente, le curiosità particolari, e soprattutto un certo tipo alternativo di organizzazione sociale stile Medio Evo affidata più al buon senso che alla forza bruta (la vendetta non è “la prima regola di vita”), e ad un tipo di mentalità che ricorda quello dell’antica Roma lanciata alla conquista del mondo (“i confini del regno di Torem si allargavano senza che lui lo volesse e dietro di loro si muoveva la sua organizzata amministrazione. Si costruivano strade, istituivano mercati e corti di giustizia, un esercito efficiente e disciplinato garantiva la sicurezza di tutti. I commerci prosperavano e la ricchezza aumentava”).

Soprattutto, però, ed è questo uno dei tratti distintivi del romanzo, si privilegia l’aspetto militare, nonostante che uno dei protagonisti, Torem, sia un guerriero riluttante perché in fondo è un mago: la descrizione non soltanto dei duelli individuali, ma degli assedi e degli scontri in cielo, dei piani a tavolino e degli sviluppo sul terreno, dei meccanismi mentali dei comandanti e della truppa, è quasi da manuale, nella sua estrema logicità, tanto da far pensare che non si sarebbero potuti svolgere altrimenti, non avrebbero potuto portare che alle conclusioni cui in effetti giungono. La bravura di Valzania, a mio parere, sta nell’aver portato in un romanzo gli schemi dei giochi fantasy di ruolo, con qualche buona reminiscenza fumettistica, senza dover ricorrere alla “novellizzazione” di un preesistente boardgame, come hanno fatto ad esempio Margaret Weis e Tracy Hickman per i sei romanzi della serie Dragonlance.

Altra novità de L’erede di Baabek è l’essere condotto su due piani paralleli, narrando alternativamente le vicende dei due protagonisti: i capitoli, non lunghi, essenziali quasi, ma non certo succinti, narrano di volta in volta la storia di Kunt e la storia di Torem, che partite cronologicamente sfalsate (Kunt circa 17 anni dopo la caduta di Baabek; Torem circa 15 anni dopo tale caduta) confluiscono soltanto nel decisivo capitolo finale, che scioglie, come giusto, tutti gli enigmi. Il tema di fondo, pur se sdoppiato, è più che tradizionale: la cerca della propria identità da parte dell’eroe attraverso gli anni di formazione, grazie anche alla presenza di un mentore (Abeo per Kunt, Orgunt per Torem), la riconquista del trono legittimo da parte del re ingiustamente spodestato.

Si veda l’iter parallelo:

Kunt → paggio → sguattero → guerriero →erede al trono

Torem → contadino → mago della guerra → condottiero → conquistatore.

Non so quanto volutamente, ma con questi due personaggi Sergio Valzania ha rappresentato in fondo due delle tre funzioni fondamentali della società indoeuropea teorizzate da Georges Dumézil nei suoi studi: la regalità guerriera e la regalità sacerdotale (qui: magica), che confluiranno nelle ultime pagine del romanzo con una scelta in linea proprio con i canoni gerarchici di certe culture tradizionali (anche se non di tutte e se non delle migliori).

Ne consegue che nella ricostruzione di questo suo “mondo secondario” non possono mancare alcuni simbolismi, spesso riferiti all’aspetto guerriero e militare. Interessante, ad esempio, il tema della trasmissione della regalità di Baabek tra padre e figlio, che avviene soltanto se il primo muore combattendo in difesa del suo trono e della sua discendenza; ed il fatto che il senso profondo di tale regalità persiste negli anni a livello popolare (i sudditi, anzi gli ex sudditi) tramite appunto simboli come può essere la bandiera (dice Torem: “’Avete seguito fin qui la bandiera, adesso bisogna portarla. Per la propria bandiera si combatte, la magia da sola non ha mai vinto’. Dette queste parole s’incamminò, con Orgunt a fianco, alla volta del castello. Dalle file dei contadini uscì fuori Quoz che afferrò la bandiera e li seguì. Tutti gli altri gli tennero dietro. Marciavano inquadrati per sei, mantenendo il passo, tale era il potere della vecchia bandiera di Baabek”), o un semplice grido di battaglia sino ad allora solo ricordato dai più fedeli (“Il nuovo esercito di Baabek raggiunse in assoluto silenzio le posizioni di partenza, a ridosso dell’accampamento nemico, poi fu lanciato il grido di battaglia da tanto tempo inascoltato: Baa-Baa-Baa-Beeeeek! E l’armata contadina si lanciò fra le tende colpendo e uccidendo con armi di ogni tipo”).

Torem è “il giovane di origini umili che sembrava destinato dalla sorte a sconvolgere il mondo”. Kunt dice di sé stesso: Sono diventato principe ereditario del più grande regno esistente, da paggio che ero, come trasportato da una forza misteriosa”. Entrambi i ragazzi sono dunque dei predestinati e, attraverso di essi, agiscono delle potenze, quella guerriera e quella sacerdotale, che mirano ad un unico fine: la restaurazione di Baabek, un regno vinto, come afferma Abeo, “da quelle che si potrebbero chiamare le forze del male, in ogni caso da chi non se lo meritava”. E, come in ogni società di tipo tradizionale, c’è un rapporto organico fra il sovrano, la sua terra ed il suo popolo: così, sotto gli usurpatori Baabek “va in rovina”, mentre sotto il re legittimo prosperava. Controprova è quel che si produce sul Reale una volta che i due tipi di regalità, quella magico-sacerdotale e quella guerriera, giungono finalmente a contatto, sia fisico sia soprattutto simbolico.

Si veda la consapevolezza che a questo riguardo sorge, anche per merito di Orgunt, in Torem: “Sei un signore”, dice infatti il vecchio mago al giovane incerto, “hai dei doveri nei confronti della tua gente; non la puoi lasciare in balìa dei primi saccheggiatori che arrivano. Dimostrandoti pronto a difenderla conquisti la sua fiducia e magari anche l’aiuto che ti serve per sconfiggere Krat”; e dice Torem, ormai conscio della sua nuova posizione, a due signorotti che chiedono di non essere a lui assoggettati: “Non ho voluto io la battaglia di ieri. Chi l’ha voluta se n’è pentito. So che avete rifiutato di parteciparvi e non m’interessa sapere se è stata la paura o un altro sentimento a farvi prendere questa decisione. Non posso però accettare la vostra proposta di buon vicinato, che fino a due giorni fa mi sarebbe stata più che gradita. Se l’accogliessi offenderei la memoria di centinaia di uomini che ieri hanno dato la vita per me”.

I sentimenti dell’onore, della fedeltà e della lealtà, dominano in genere la società immaginata da Sergio Valzania ne L’erede di Baabek, sentimenti che non vengono sbattuti in faccia al lettore, ma sono insiti, connaturati nei personaggi, sia vincitori che vinti, quasi in diretta polemica con la società attuale che tali sentimenti ha del tutto dimenticato o distorto. E così dice Torem allo sconfitto Otove: “Poni uno strano dilemma. Lasciarti il tuo feudo, come se tu non avessi impugnato le armi contro di me, o ucciderti, come se la vendetta fosse la mia prima regola di vita. Nessuna delle due soluzioni mi piace. Hai combattuto contro di me, valorosamente te lo concedo, ma hai perduto e tu stesso avevi messo in palio tutti i tuoi beni, contro i miei. Sei però un bravo soldato, capace e coraggioso, e sei venuto spontaneamente a offrirmi la tua fedeltà, non voglio la tua morte. Ti faccio una proposta: resta al mio servizio”. E lo sconfitto Hugrudo, pur nella disfatta, si comporta con dignità nei confronti di coloro che sono stati leali con lui sino all’ultimo: “Non sono stato un buon re, forse, ma non posso abbandonare adesso i pochi che mi sono rimasti fedeli sino alla fine”.

Le storie di Kunt e Torem, le guerre, le magie, i colpi di scena sono descritti con uno stile limpido e lineare, accattivante: Valzania, appassionato di fumetti e di giochi di ruolo, è a suo perfetto agio nei vicoli dell’affollata Baabek come nei campi di battaglia, ma sbaglierebbe chi pensasse ad una freddezza, ad una oggettività nel raccontare che non è sua: si pensi solo alla scena dell’assalto suicida contro la torre che custodisce la chiarina magica, veramente impressionante per lucidità e coinvolgimento.

Stile e linguaggio che sono un altro punto a favore dell’originalità del romanzo e la cui motivazione potrebbe risiedere nella sua… storicità! Proprio così. E questo per due motivi. Il primo lo indica lo stesso autore: la sua opera si presenta come “il racconto autentico della vita e delle imprese” di Aark di Baabek, ricostruito grazie al lavoro collettivo dei maghi della Città Santa del Sapere, anni dopo la sua scomparsa. Da qui non soltanto lo stile lineare e “neutro” (ma non freddo) da “cronaca”, come si è già notato, ma anche una cornice complessiva in cui il contesto viene inserito: infatti, la diciamo così “storicizzazione” di una leggenda o di un mito dell’eroe fondatore (o meglio: ri-fondatore) di una dinastia pone alcuni problemi metodologici (cosa si deve intendere per verità, cosa accettare della storia, del mondo, dell’uomo, della vita, il rapporto sensi/esterno, ecc), che vengono di volta in volta esposti in brevi premesse ad ogni capitolo, avendo di solito specifica attinenza con il contenuto di essi. Queste premesse “esterne”, che inquadrano tutta la narrazione che s’immaginano compilate dai biografi di Aark, si dimostrano un altro degli aspetti originali del romanzo: di solito sono ben centrate, basandosi generalmente su di un buon senso ed un pragmatismo esemplari, in poche occasioni risultano un po’ vaghe e ripetitive (quelle sul valore della “verità”), ed in un’unica occasione sono a mio parere fuori centro (quella sul rapporto nomi/cose ritenuto falso, il che contrasta con una delle regole fondamentali della magia).

Il secondo motivo deriva dal distico che chiude la narrazione: “Questa è una storia vera perché si basa a sua volta su antichissime fonti storiche, su libri di cronache precedenti ad esso. Il racconto della vita e delle imprese di Aark di Baabek, afferma Valzania, è una storia vera: lo è perché egli stesso l’ha narrata (e quindi riattualizzata) nel suo romanzo, e perché si fonda sulle ricerche dei biografi dei personaggi alle quali egli ha attinto. Ma anche perché nella memoria di chi la tramanda e nella fantasia di chi la rivive ogni volta che l’ascolta…

Il mito di Aark diviene verità nella “storicizzazione” dei maghi della Città Santa del Sapere, la biografia di Aark resta verità nel romanzo di Sergio Valzania che la riporta. Una storia di una storia di una storia: quindi tre volte vera. In ogni caso, uno dei romanzi italiani di heroic fantasy più originali e maturi.

Roma, agosto 1990.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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