L’antiamericanismo di Evola non è pregiudizio, ma parte d’una visione coerente del mondo

Recentemente la Fondazione Julius Evola ha curato la seconda edizione (dopo quella del 1983) dell’antologia di testi evoliani dedicati alla civiltà statunitense, a cura di Alberto Lombardo, intitolata Civiltà americana.

Si tratta di una raccolta di quattordici scritti, apparsi fra il 1930 e il 1968, ossia da prima dello scoppio della seconda guerra mondiale a pochi anni prima della scomparsa del filosofo, avvenuta nel 1974. Il primo testo è il celebre «Noi antimoderni»; l’ultimo s’intitola «Suggestione negra». Fra i più significativi, come appare già dai rispettivi titoli, «”Libertà dal bisogno” e umanità bovina» (del 1952) e «Difendersi dall’America» (del 1957).

Molto è stato detto e scritto sull’antiamericanismo di Evola, nonché sulla circostanza, invero eloquente, che la sua produzione su questo tema è perfino più abbonante di quella dedicata all’anticomunismo; per cui riteniamo che questa ripubblicazione di una serie di scritti evoliani, dispersi su svariate riviste oggi in gran parte introvabili, sia di per sé una operazione culturale meritoria e di alto profilo.

Coglie perfettamente nel segno Alberto Lombardo allorché osserva che tutta la discussione in merito è sostanzialmente viziata dal fatto che americanismo e antiamericanismo, nel panorama politico e culturale italiano (ed europeo) , hanno finito per assurgere al ruolo di bandiere di due co0ntrapposte – ma non opposte – visioni del mondo, che neppure la fine della Guerra Fredda, in apparenza, è riuscita a comporre o a rendere obsolete.

E questo per la buona ragione che tanto gli americanisti quanto gli antiamericanisti continuano a muoversi entrambi sul medesimo terreno culturale, proprio della modernità intesa in senso puramente quantitativo: democrazia, capitalismo, egualitarismo, cultura dei diritti, scuola di massa, dominio di una vociante “opinione pubblica” che non si rende conto di essere strumentalizzata, dietro la maschera della demagogia più sfrenata, da una rete occulta di “poter forti” di matrice finanziaria ed economica.

In questo senso, ha ancora ragione Lombardo quando osserva che l’antiamericanismo superficiale e viscerale di casa nostra non è affatto una alternativa ai valori, se così vogliamo chiamarli, rappresentato dalla civiltà americana, perché, in ultima analisi, si riduce ad un americanismo purgato dai fast-food di McDonald’s e dalla Coca-Cola.

La vera alternativa all’americanismo non è, pertanto, una modernità che vorrebbe accettare tutto il regno del quantitativo, rappresentato allo spirito americano, ma senza i suoi simboli più vistosi e appariscenti, per non dire più chiassosi e volgari; ma un lucido, ragionato rifiuto di tutto l’universo spirituale (o piuttosto anti-spirituale) sotteso a quella civiltà.

Diversamente, l’antiamericanismo nostrano si riduce a quella misera cosa che in realtà è: una servile accettazione della sua essenza profonda, pretendendo però di nascondere alla vista – ipocritamente – certe forme esteriori.

Osserva, infatti, Alberto Lombardo a questo proposito (op. cit., 16-18):

«L’antiamericanismo, che un autore apprezzato dagli americanisti nostrani ha definito “una malattia psicologica”, non è sufficiente ad accostare Evola al movimento no/new global o ad altre correnti di pensiero. In Evola l’avversione al modello di civiltà propugnato dagli Stati Uniti non è un pregiudizio, come vorrebbe Massimo Teodori, ma parte da un’autentica visione del mondo e della storia. Già in due capostipiti della rivoluzione conservatrice tedesca, Oswald Spengler e Arthur Moeller van der Bruck, vi è una critica all’occidentalismo di marca anglosassone che è il risultato di un’analisi storica e geopolitica; analoghe posizioni si trovano in Johann von Leers e in Carl Schmitt. Vi è, soprattutto, il richiamo alla tradizione politica europea e la teorizzazione di una sua rinascita in forme nuove. Al contrario, tanto nei laudatori dell’americanismo che nei suoi detrattori, si osserva un’attitudine prona e remissiva che altro non è che una forma di disfattismo o di incoscienza. Anche i più accalorati antiamericani infatti non dubitano della validità dei dogmi egualitari, della sacralità della democrazia, dell’importanza del meticciato come mezzo per abbattere le costrizioni di un modo che ha ancora troppe differenze. Entrambi, americanofili e americanofobi, sognano un mondo con più ricchezza diffusa, meno frontiere e più libertà di scambi e movimenti, con la peculiare variante della presenza, o meno, delle catene dei McDonald’s o della Coca-Cola.
La recente elezione negli Stati Uniti del primo Presidente di colore della storia avrebbe certo dato lo spunto a Evola per qualche articolo, non tanto per la persona considerata in se stessa (Barack Obama), quanto per il valore simbolico e sintomatico del fatto. Non vi è alcun dubbio che vedesse nella componente di colore della popolazione nordamericana la componente più tipica dello “spirito americano”: “L’America è ‘negrizzata’ in termini non semplicemente demografici, ma altresì di civiltà e di sensibilità, quindi anche quando non esistono che scarse relazioni col sangue negro” (in “Il popolo italiano”, 12 luglio 1957). Evola avrebbe indubbiamente interpretato questo fatto come una conferma della degenerazione spirituale americana, tanto più considerando che è stata una maggioranza bianca ad eleggere un presidente negro.
Comunque non è paradossale che proprio in America, a partire dagli anni Novanta del secolo corso, Evola abbia goduto di una marginale ma non del tutto trascurabile fortuna, dovuta soprattutto alla traduzione delle sue opere principali da parte della casa editrice Inner Traditions, oltre che alla presentazione del pensiero evoliano (in termini assai diversi) da parte di Thomas Sheehan, Richard Drake e Joscelyn Godwin. Ed è piuttosto significativo che in internet, dove il nome di Evola compare in centinaia di migliaia di pagine in tutte le lingue, uno dei primi testi integralmente tradotti e disponibili in inglese (così come in altre lingue) sia stato proprio il volumetto Civiltà americana.
A ben vedere, infatti, l’autentica opposizione al modello americano è proprio quella teorizzata da Evola, che punta al primato della qualità sulla quantità, dello spirito sulla materia, dell’organicità sull’individualismo e della politica sull’economia. Però, così come la Tecnica è per sua natura universale, lo sono anche il modello economico capitalistico e l’ideologia egualitaria. Storicamente, laddove un’idea particolare si oppone ad una universale, la prima è destinata a venire travolta. Il messaggio fondamentale di Evola è proprio quello di interpretare e vivere i valori tradizionali in una prospettiva più che storica, assolutizzarli: solo con ciò potranno essere opposti a quelli dominanti, indipendentemente a ogni effettiva speranza pratica».

Quello che non può trovarci d’accordo, nel pensiero di Evola sulla civiltà americana, è, d’altra parte, il suo atteggiamento nei confronti della questione degli afroamericani, che risente di un biologismo estraneo, a ben guardare, alle stesse motivazioni ideali del pensiero del filosofo e che si presta ad una lettura in chiave francamente e inaccettabilmente razzista.

Se la questione si riducesse ad un fatto puramente biologico, allora l’ultimo uomo politico europeo apertamente evoliano sarebbe Berlusconi, con la sua mediocrissima battuta sull’«abbronzatura» di Barack Obama.

Invece, per le stesse ragioni per cui non è accettabile una critica all’americanismo che ne lasci intatte le basi ideologiche e si fermi ad alcuni simboli e funzioni materiali, del pari ci sembra non sia accettabile una lettura in chiave razzista della questione afroamericana.

Al contrario, ci sembra che proprio la sorte dei due gruppi umani che più hanno sofferto della intrinseca malignità dello “spirito americano”, sempre camuffata dietro una roboante enfasi retorica, i neri vittime della schiavitù e gli indiani vittime della “pulizia etnica”, dovrebbe essere vista come un perenne monito contro le sirene di quella ideologia che proclama diritti e libertà per tutti, ma non esita a spazzar via con le bombe al napalm chiunque osi attraversarle il cammino, come si vede, anche ai nostri giorni, per esempio, in Iraq e in Afghanistan.

Occorre demistificare l’intrinseca ipocrisia del “sogno americano” e la brutalità, eretta a sistema, dello “spirito della frontiera”, entrambe versioni rivedute e corrette di quel “destino manifesto” che ha fatto del nazionalismo statunitense la molla di una feroce volontà di sopraffazione a livello planetario, realizzata attraverso le immani distruzioni di due guerre mondiali, l’uso spregiudicato dei bombardamenti a tappeto e delle bombe atomiche, la cinica dottrina della “guerra preventiva” e la regia occulta delle lobbies politiche e finanziarie che hanno i loro centri nevralgici non solo a New York, ma anche a Londra e Gerusalemme.

E che il pensiero di Evola non sia immune da una certa vena razzista, lo dimostrano le pagine dedicate alla questione dell’apartheid nell’Africa australe; ove ad alcune osservazioni giuste e condivisibili, si intrecciano altre, che dovrebbero ripugnare non diciamo ad una coscienza cristiana – ed Evola è stato, infatti, un pensatore dichiaratamente pagano -, ma anche a quel tanto di coscienza morale che l’umanità ha comunque elaborato sotto l’influsso del Cristianesimo, anche senza rendersene conto o magari, come nel caso dell’Illuminismo, in antitesi ad esso e in aperta polemica contro di esso.

Queste riflessioni ci riconducono anche al discorso sulla posizione di Evola di fronte all’alternativa fra capitalismo di matrice americana e comunismo di modello sovietico. Per lui, si tratta di una falsa alternativa, e questa è la ragione per la quale rifiuta di farsi arruolare, sotto ricatto, nelle file degli “americanisti”. Capitalismo e comunismo non sono alternativi, proprio come, per Nietzsche, non lo sono liberalismo e marxismo: al contrario, si tratta di ideologie simmetriche e complementari, frutto, entrambe, della degenerazione quantitativa della modernità e dell’avvento di una concezione materialista, economicista, radicalmente laicista e avversa all’idea stessa del sacro, della gerarchia, del primato spirituale.

Alberto Lombardo osserva che, quando un’idea particolare si scontra con una universale, finisce per essere travolta. Come è stato fatto notare da diversi studiosi, la forza dell’americanismo sembra consistere proprio nel suo apparente universalismo; che, ad esempio, rende simili a penose battaglie di retroguardia gli sforzi della Francia di preservare la propria identità linguistica e culturale, dato che una strategia rigida soccombe sempre davanti ad una elastica.

Ebbene, si tratta di mostrare che il re è in mutande e cioè che l’americanismo, lungi dall’essere quella ideologia universalistica che cerca di apparire, è, in effetti, la più compiutamente particolaristica e la più ottusamente nazionalistica fra tutte quelle finora apparse durante il processo della modernità: l’ultimo e più abnorme frutto di una parabola degenerativa e non già il primo di un’epoca nuova e di un mondo nuovo.

Del resto, la cosa è evidente anche a livello puramente numerico. Estendere il “sogno americano” all’umanità intera, ad esempio a quei due miliardi e mezzo di Cinesi e di Indiani che bussano energicamente per sedere anch’essi alla tavola del capitalismo trionfante, prima che venga sparecchiata, è cosa semplicemente impossibile, e gli Stati Uniti saranno disposti a qualunque cosa pur di opporvisi.

A quel punto, però, dovranno gettare la maschera e tutto il mondo potrà vedere che l’americanismo altro non è ce un meschino nazionalismo elevato all’ennesimo potenza e che, per oltrepassare le sue mendaci promesse, occorre ripensare radicalmente il posto dell’uomo nel mondo, il ruolo dell’economia e della tecnica, e soprattutto la dimensione trascendente dell’anima, che la cultura materialista e liberale ha voluto rinnegare e che ha cerato in ogni modo di estinguere.

Molto di più che una questione puramente politica, dunque: ma una vera e propria rifondazione dei valori ideali e perenni dello spirito umano.

In questo senso, ci sembra che la rilettura degli scritti di Evola sulla civiltà americana, nonché del saggio introduttivo di Alberto Lombardo, possa costituire un utile laboratorio di riflessioni e una autentica miniera di spunti critici per chi voglia porsi in maniera consapevole, e al tempo stesso propositiva, nei confronti della sempre più allarmante deriva nichilista di questa nostra tarda modernità.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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