L’America di Julius Evola

Molti hanno tentato, nel corso del tempo, di ridurre il pensiero di Julius Evola a semplicistici schemi ideologici, ma tale operazione, alla lunga, si è rivelata deformante e riduttiva. Infatti, la   produzione complessiva del filosofo, non solo è articolata e diversificata al proprio interno, per la varietà dei temi affrontati ma è, altresì, complessa a causa della stratificazione contenutistica che la contraddistingue. La cosa, è confermata da una recente pubblicazione della Fondazione Evola, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, Controcorrente editore, euro 10,00 (per ordini: controcorrente_na@alice.it, o 081/421349, Via Carlo de Cesare 11, 80132 Napoli). Nella nota introduttiva, Gianfranco de Turris ricorda che gli scritti presentati in questa silloge consentono al lettore di comprendere come l’antiamericanismo evoliano si sia sviluppato su un piano assai diverso da quello espresso dalla Sinistra: esso fu conseguente a una “visione del mondo” e maturò attraverso l’analisi attenta e mirata di fenomeni di costume, della mentalità, nonché dell’etica, espressi dagli USA, nel corso della storia.

Il curatore del volume, Alberto Lombardo, nella prefazione, chiarisce come le opposte interpretazioni di Evola su questo tema, quella liberale e quella no global, si rivelino delle estremizzazioni mistificanti, alla luce dell’esegesi dei quattordici articoli qui raccolti, che furono pubblicati dal filosofo su dieci diverse testate, tra il 1930 e il 1968. Rispetto alla prima delle due letture, è certamente possibile affermare che Evola, nel secondo dopoguerra, giustificò la scelta del MSI di votare a favore del Patto Atlantico, soltanto in funzione di una Realpolitik, che lo indusse a vedere nell’Unione Sovietica un pericolo maggiore, rispetto a quello americano, almeno sotto il profilo politico e materiale. Il che non implicò alcun cedimento in senso liberale, dal punto di vista spirituale: “Su tale piano… dovrebbe restar fermo… che Russia e America rappresentano due facce di uno stesso male” (Difendersi dall’America, in “Il Popolo italiano”, 14 Dicembre 1957, qui p. 67).

Per quanto attiene all’Evola presunto no global, va rilevato come, in questi scritti, emerga, nonostante le evidenti posizioni antieconomiciste del pensatore tradizionalista, l’enorme distanza che distingue le sue tesi da quelle espresse dalla cultura beat e più recentemente no global.  Il discrimine è da individuarsi in ciò che Lombardo definisce il problema della forma: il far riferimento, da parte di Evola, a un centro interiore ordinante, in grado di porre “in forma” la realtà, dopo la distruzione di ciò che ormai non è più portatore di senso.

Dunque, l’importanza del volume è da individuarsi nel fatto che, dalla sua lettura, si evince come l’autore interpreti di fatto l’America: non come la nazione giovane, sempre alla ricerca di nuove frontiere, ma al contrario come una fine. Più precisamente, come la conclusione primitivistica dell’organica civiltà europea. Ciò, alla luce di una morfologia della storia che pone in corrispondenza i caratteri delle fasi ultime di un ciclo, con quelli delle fasi iniziali. Nel modo di vivere americanizzato si manifesta l’evasione dell’animus europeo da se stesso, il suo sottrarsi al reale per accedere ad una dimensione esistenziale sub-reale, che chiude ad aperture verso il superiore, il cui carattere peculiare è l’infantile esaltazione della grandezza materiale in ogni ambito. Il ribellismo anarcoide o il trovar comodo riparo nella melassa del neo spiritualismo, tanto avversati, per la loro costitutiva insufficienza da Evola, sono le uniche alternative che il progetto sociale utilitarista, mirante alla liberazione dal mero bisogno economico, concede agli insoddisfatti del “migliore dei mondi possibili”. A coloro che, pur vivendo in una società opulenta, percepiscono il vuoto dentro e fuori di sé, e si chiedono: “eppure manca qualcosa” (Libertà dal bisogno e umanità bovina, in “Il Secolo d’Italia”, 27 Gennaio 1953, qui pp. 39/42). Simbolo teorico del Nuovo mondo è il filosofo John Dewey, sostenitore di una pedagogia risolutrice, alla luce della quale, attuando determinati accorgimenti tecnico-didattici sarebbe possibile, per tutti, conseguire qualsiasi risultato e obiettivo, a prescindere da quelle qualità interiori, che caratterizzano la personalità in senso proprio e tradizionale. Per questo, come rileverà Augusto Del Noce, la “filosofia dell’esperienza” dell’americano, diverrà, nel secondo dopoguerra, volano culturale in Europa, del sociologismo secolarizzante, base teorica del neo-illuminismo contemporaneo. In questo senso, per Evola l’Americano medio è: “..la confutazione vivente dell’assioma cartesiano “Penso, dunque sono”, giacché essi non pensano, eppure sono” (Civiltà americana, in Asso di Spade, 31 Agosto 1952, qui p. 37). L’Americanismo si manifesta come civiltà dei paria, degli uomini senza qualità e forma che paradossalmente, nell’epoca ultima, tendono al dominio, ricorrendo, finanche, alle “guerre di civiltà”. Il loro modello sociale si fonda su una diffusa anestesia, sull’offesa del bello e dell’organico: tutto è dominato dall’informe e dal meccanico, persino gli istinti primari sono posti sotto controllo, come mostra la diffusa “anestetizzazione sessuale” che per Evola è: “..una trasposizione patologica della libido dalle forme normali di soddisfazione a quelle narcisistiche dell’esibizionismo frigido, della vanità e del culto fisico e afunzionale del proprio corpo” (Moralità americane, in “Meridiano d’Italia”, 15 Febbraio 1953, qui p. 44).

Il filosofo si mostra acuto diagnosta quando rileva i rischi evidenti dell’americanizzazione del mondo e individua la causa della sua sottile ma profonda pervasività, nella supina acquiescenza dei mezzi di comunicazione di massa alla cultura d’oltreoceano. Dall’ambito musicale a quello cinematografico, dalla letteratura popolare alla politica culturale della RAI, il filosofo presenta la progressiva colonizzazione dell’immaginario, realizzatasi in Europa e in Italia, in pochi decenni. Tra i quattordici articoli, tutti estremamente critici nei confronti dello stile di vita americano, vale la pena segnalare Addio America d’altri tempi (In “Meridiano d’Italia”, 3 Luglio 1955, qui pp.55/58), in quanto in esso l’autore sembra nutrire qualche speranza su una possibile “rettifica” politica del democratismo statunitense. Infatti, a parere di Evola, negli USA degli anni cinquanta si stava manifestando, a fronte dei proclami democratici della classe dirigente, una prepotente gerarchizzazione nell’organizzazione degli apparati industriali, che avrebbe potuto essere foriera, quantomeno, di una certa limitazione delle tendenze politiche più regressive di quel paese. Ben presto, però, queste aspettative sarebbero andate deluse. Ben presto, si sarebbero definitivamente affermati quei processi di meticciato e di promiscuità sociale che il pensatore critica, in altri articoli che compaiono in questa raccolta. In un momento di crisi economica internazionale come l’attuale, e in una fase storica in cui le democrazie liberali mostrano il volto oligarchico della governance, le pagine di Evola sull’America e sulla sua “civilizzazione” assumono, pertanto, per il lettore contemporaneo, carattere profetico e chiarificatore.

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Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, da Il Borghese 3 (marzo 2011) – XI n.s., pp. 72-73.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

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