Involuzione autogena ed eterogena

1. Andamento storico della distribuzione razziale. I pigmei quali ‘decaduti puri’, gli altri selvaggi insorti per meticciato.

Si riprendono degli argomenti già sfiorati al Cap. 1 della I parte, per esaminare il problema di quale possa essere stato l’andamento storico della distribuzione delle razze.

Si è già menzionato come Carleton Coon (1) indicasse che nel pigmeo (africano) ha da vedersi il ‘vero’ negro, mentre le altre stirpi subsahariane sarebbero il risultato del meticciato di questo ‘negro primordiale’ con elementi europidi (e, secondo sempre il Coon, anche boscimaneschi) ad esso fisicamente e culturalmente superiori. Questo, sembra essere confermato dalla paleontologia umana. Pierre Bertaux (2) ci informa che le razze negre non sono molto antiche e che i primi reperti negroidi, provenienti dal Neolitico antico del bordo meridionale del Sahara, sono posteriori ad almeno quattro altri tipi umani presenti tutti in Africa: pigmei, boscimani, mediterranei ed ‘etiopi’, questi ultimi di “tipo misto” (ma quindi non misto di negro con qualcos’altro, visto che negri ancora non ce n’erano). Vittorio Marcozzi (3) indica che i conosciutissimi due scheletri della grotta di Grimaldi, trovati nell’Europa mediterranea, hanno caratteristiche prevalentemente negroidi ma non sono ‘veri negri’ (4); mentre lo scheletro di Asselar (Africa ex-francese) indica un “intermedio fra l’uomo di Grimaldi e il negro moderno” (è più ‘negroide’ dell’uomo di Grimaldi, ma non è ancora del tutto negro). E i numerosi scheletri trovati a Shukbah-Athlit, in Palestina, sarebbero di “tipo mediterraneo con tendenza a quello negro” (qui, con ogni probabilità, si ha da vedere dei protosemiti).

In Asia sud-orientale e negli arcipelaghi dell’Indonesia e dell’Oceania – lo documenta il medesimo Carleton Coon (5) – gli abitanti originali furono i pigmei, sommersi dopo da altre ondate di popolazione. Sia Vittorio Marcozzi (6) che Robert Suggs (7) indicano un’importante impronta razziale ainu nelle popolazioni oceaniche e, in particolare, fra i polinesiani; e moltissimi antropologi vollero scorgere nell’australiano un ainu ‘declassato’ (8). In quelle zone, più tardi, dovette sopraggiungere anche un importante elemento mongoloide proveniente, in origine, dalla zona ‘artica’ dell’Asia orientale.

Anche in America si è potuto percepire un elemento ainu nella popolazione aborigena (9); e in America meridionale si è già visto che ci sono indicazioni della possibile esistenza, in tempi arcaici, di genti pigmee.

Ogni cosa indicherebbe quindi che, storicamente, il popolamento della fascia tropicale, quale esso è stato descritto dagli studiosi moderni di etnologia e di antropologia, può essere ipotizzato come segue. Ci dovevano essere delle popolazioni pigmee molto diffuse e più numerose di quanto potessero esserlo le loro vestigia incontrate in tempi storici; nelle quali hanno da vedersi i ‘decaduti puri’, residui di genti che, in ragione di degenerazione psicologica e poi somatica, si sono ridotte in quelle condizioni fisiche e culturali con il trascorrere di eoni cronologici difficilmente valutabili (cfr. il Cap. 5 della I parte). Poi, genti provenienti per infiltrazione o per conquista dal Nord del Mondo, arrivate nei loro territori, diedero origine per meticciato ai tipi selvaggi incontrati e studiati nella fascia tropicale in tempi storici. E ogni cosa sembrerebbe indicare che si trattò essenzialmente, almeno nelle fasi iniziali, di mediterranei (cioé: genti appartenenti al ramo mediterraneo/occidentale della razza europide) per quel che riguarda l’Africa e l’Asia occidentale; di ainu per quel che riguarda l’Asia orientale, l’Oceania e forse le Americhe.

Gli antartidi hanno probabilmente da essere visti come residui, ormai sul bordo dell’estinzione naturale, di prodotti di meticciato enormemente arcaici, sul conto dei quali difficilmente si possono fare ipotesi.

2. Mediterranei e ainu

Avendo indicato come i mediterranei e gli ainu potrebbero essere stati le componenti ‘superiori’ che, per meticciato con quelle ‘inferiori’ pigmoidi hanno dato origine al mondo selvaggio quale noi lo conosciamo; vale la pena di soffermarsi sull’argomento della natura di questi due tipi umani, dal punto di vista culturale e storico. Non si scorge in essi alcun tratto di inabilità intellettuale: dotati di acuta intelligenza, gli uni sono venuti a formare parte della popolazione europea – in certe zone essi sono preponderanti – e gli altri fanno parte importante della sostanza razziale dei giapponesi, senza che alcuno ne abbia risentito minimamente dal punto di vista intellettuale. In compenso in ambedue si possono forse scorgere dei caratteri di ‘stanchezza’, di lunarità, che da alle loro manifestazioni culturali un’aura di crepuscolarità. Inoltre, non sembra che questi tipi umani abbiano mai visto nel meticciato un fatto particolarmente esiziale, a differenza di quanto poté essere il caso, fino a tempi recenti, di altri tipi europidi e mongoloidi. – Questa loro ‘fragilità’ sembra essere confermata dal fatto che le loro lingue e le loro specificità culturali, salvo sopravvivenze sotterranee e sincretistiche, nonché le loro strutture politiche, ebbero la tendenza a sfasciarsi irreversibilmente sotto spinte esterne anche apparentemente lievi. Gli ultimi ainu ancora riconoscibili come tali – Giappone settentrionale e isola di Sachalin -, già prima del loro assorbimento da parte della popolazione giapponese, erano stati acquisiti, culturalmente e linguisticamente, dall’ecumene nord-est-siberiano: non c’è traccia di quella che pure dovette essere una loro propria forma culturale e linguistica. Qualcosa di analogo toccò ai mediterranei, sui quali ci si dilungherà subito.

Il tipo mediterraneo fu la sostanza genetica portante di quell’affascinante e crepuscolare ‘mondo indo-mediterraneo’ che si estendeva dalle Colonne d’Ercole all’Indo, identificato da Vittore Pisani (10) ancora nell’anteguerra e poi studiato in dettaglio, nella sua parte europea centrata nei Balcani, da quella brillante archeologa che fu Marija Gimbutas (11). Esso era caratterizzato da tratti culturali specifici (12) e in esso venivano parlate lingue appartenenti a una superfamiglia parimenti specifica alla quale appartennero le lingue iberiche e liguri, l’etrusco, il pelasgo della Grecia pre-ellenica, svariate lingue dell’Asia Minore, il sumero, l’elamita dell’Iran e il harappiano dell’Indo (del quale le moderne parlate dravidiche sono un residuo) (13). E civiltà mediterranee, tutte lunari e crepuscolari, furono quelle dei megaliti, quella arcaica dei Balcani, quelle egizia, sumera, elamita, harappiana, spesso rivelatesi come centri statici di civiltà in un contesto di popolazioni selvagge (principalmente quella harappiana) (14). Esse furono tutte travolte facilmente dagli indoeuropei.

Qualcosa di analogo si può osservare per le civiltà americane e per quella polinesiana, anch’esse civiltà di alto livello ma di estrema fragilità (si è già menzionato che questo era stato osservato da Julius Evola [15]) e che furono travolte con estrema facilità e in modo irreversibile dalla colonizzazione europea. Si può ipotizzare che esse avessero l’ainu come ‘sostanza genetica portante’, almeno per quel che riguarda le loro classi dirigenti.

Ma fra ainu e mediterranei si possono forse rintracciare delle continuità culturali, soprattutto dallo studio di alfabeti arcaici e misteriosi. Una difficoltà, viceversa, potrebbe essere posta dalla spiccata solarità delle religioni americane, di contro alla lunarità mediterranea. (Se invece nei facitori di megaliti in Melanesia [16] si vogliono vedere degli ainu o degli ainu-mongoloidi, il loro culto del serpente avvicinerebbe queste genti ai mediterranei).

Nell’Europa del VII – VI millennio a.C. erano generalizzati una notevole quantità di alfabeti, imparentati fra di loro e non ancora decifrati, usati dai costruttori di megaliti e dalla civiltà dei Balcani, con propaggini in Asia minore e nel Medio Oriente (è probabile che la scrittura cuneiforme sumera derivasse da questo tipo di grafie; e quindi anche le lettere fenicie) (17); e al medesimo filone appartenne la scrittura dell’Indo (18). (Si tratta di un tipo di scrittura cosiddetto ‘nucleare’, completamente diversa da ogni altra già interpretata, sia essa fonetica o geroglifica.) – Dei parallelismi perfetti sono stati trovati fra la scrittura dell’Indo e quella polinesiana, parimenti non ancora decifrata (19). In Polinesia, fino al secolo XIX, c’era una scrittura generalizzata, appannaggio di una classe sacerdotale che la utilizzava per testi liturgici, e che andò perduta con la scomparsa di quella classe come conseguenza della colonizzazione e del missionarismo monoteista, confessionale e laico (20). La sua varietà più conosciuta è il rongo-rongo dell’Isola di Pasqua (21), della quale rimangono le tracce più abbondanti, su legno, in quanto là essa fu usata fino a più tardi. Nel resto degli arcipelaghi, le iscrizioni su foglie di palma sono andate quasi interamente perdute.

È quindi tutt’altro che fuori luogo ipotizzare una continuità culturale e quindi anche razziale fra il Mditerraneo arcaico e l’Oceano Pacifico, attraverso il tramite dell’Asia meridionale. – Difficile invece fare ipotesi per quel che riguarda le Americhe. In Perù (ma anche nella Colombia meridionale), fino al secolo XVI fu usata la scrittura a corde annodate, i cosiddetti quipu (22); ma secondo una tradizione orale peruviana essi avrebbero sostituito, in un imprecisato ma remoto passato, un’altra scrittura, ancora più arcaica, sul conto della quale la tradizione ha poco da dire, salvo che era scritta su un qualche tipo di pergamena. Anche gli irochesi dell’America settentrionale usavano una ‘scrittura’ tipo quipu, a base di rosari di conchiglie multicolori. E ci sarebbe dell’evidenza che delle scritture del genere erano in uso in Messico (prima dell’adozione della scrittura geroglifica) e, nel IV – III millennio a.C., anche in Polinesia, in Bengala, in Cina, in Mongolia e perfino in Tibet (dove, nel VII secolo d.C. esse furono abbandonate in favore dell’alfabeto sanscrito).

Come si vede, un’interpretazione non stereotipa – da establishment – dei fatti empirici non solo rivela un panorama del tutto nuovo sull’andamento cronologico della preistoria e della protostoria; ma potrebbe anche aprire degli affascinanti nuovi campi di ricerca che a tutt’oggi sono praticamente vergini.

3. Gli indoeuropei e la ‘razza nordica’

Si è già parlato degli indoeuropei (o indogermani) come dell’ultima manifestazione della ‘luce del Nord’ (23). La loro provenienza artica (dedotta, già agli inizi del Novecento, dal tedesco Krause e dall’indiano Tilak sulla base delle indicazioni astronomiche date dalle loro tradizioni religiose) è perfettamente assodata. La Russia meridionale fu un loro centro secondario di irraggiamento, come lo fu più tardi l’Europa nord-occidentale (né si può escludere che, in parte, l’Europa settentrionale sia stata da loro raggiunta direttamente dall’Artide [24]).

Una determinata corrente di pensiero, che fu predominante nell’anteguerra, della quale il principale esponente fu Hans F. K. Günther, identificava senz’altro la popolazione indoeuropea con la ‘razza’ nordica (ma sarebbe stato e sarebbe più esatto dire: il tipo nordico della razza europide), passando poi alla conclusione che ancora adesso il tipo nordico sarebbe ‘l’umano per eccellenza’. Questo, non nel senso di una superiore intelligenza (differenze di ‘quoziente intellettivo’ non ne sono state riscontrate, né allora né adesso, fra i principali tipi genetici europidi o nord-est asiatici, né il Günther suggerì mai niente del genere), ma in ragione di certe proprietà caratteriali che renderebbero il tipo nordico (identificato con quello indoeuropeo), nel modo più naturale, un signore e un dominatore. – L’identificazione in questione era (ed è) per lo meno esagerata; ma è assodato che il tipo nordico doveva essere molto frequente, se non proprio predominante, fra gli indoeuropei arcaici e predominante, se non proprio esclusivo, nelle loro classi dirigenti. Ne segue che la percentuale di sangue indoeuropeo in una determinata popolazione doveva (e deve) essere strettamente correlazionata alla proporzione di elementi nordici in essa riscontrabile, concentrati prevalentemente nelle sue classi dirigenti. Quando lo studioso-principe della fenomenologia storica della deindoeuropeizzazione – in Europa meridionale e in Asia, accompagnata dal riemergere del substrato pre-indoeuropeo inizialmente sottomesso -, Hans F. K. Günther (25), prende come indicatore di questa tendenza la diminuzione della percentuale di individui di tipo nordico, egli adotta un’ipotesi di lavoro sicuramente valida.

Le cose, però, si potrebbero essere messe altrimenti nei tempi contemporanei/moderni. Già negli anni Trenta Julius Evola (26) osservava che i popoli nordici contemporanei “presentavano qualità fisiche, di carattere, di coraggio, di resistenza (…) ma atrofia dal lato spirituale” (27), per poi soggiungere che la facilità con cui quelle popolazioni avevano accettato il cristianesimo prima e il protestantesimo dopo non deponeva certo a loro favore – e difatti, fatta la splendida eccezione dei sassoni, le genti germaniche (le più nordiche esistenti) resistettero alla cristianizzazione molto meno che certe popolazioni delle Alpi o del Baltico, che sangue nordico ne avevano meno. (Quanto al protestantesimo, per dovere di esattezza, va fatta la puntualizzazione che il mondo nordico per eccellenza – la Germania settentrionale e la Scandinavia meridionale – si fermò al luteranesimo. Portatore del calvinismo – la forma finale del protestantesimo – fu piuttosto quel tipo misto mediterraneo-nordico, con netta predominanza del tipo mediterraneo, che faceva e fa la base della popolazione dell’isola inglese.)

Già ai tempi suoi, Hans F. K. Günther era stato contestato, in certe sue conclusioni, da altri studiosi tedeschi che avevano indicato come, in Germania, le caratteristiche ‘asiatiche’ della componente alpina della popolazione avessero dato alla nazione tedesca delle qualità di stabilità psicologica che non le furono se non utili (28). E a una conclusione analoga arrivò, forse suo malgrado, lo stesso Günther (29) riguardo ai romani prischi (un misto 2/3 nordico, 1/3 alpino), ai quali la componente alpina avrebbe dato una tempra di stabilità e un’inclinazione all’operosità e alla sistematicità, abbinata a un forte senso pratico, che se appiattì la loro mitologia, li rese idonei a successi militari e politici che mai più ebbero l’uguale.

È probabile che adesso anche le residue genti nordiche, trascinate dal gorgo della decadenza che è caratteristico dei nostri tempi, abbiano preso la via del tramonto e che poco possano servire come riferimento per rovesciare il vedico Kali Yuga (fine del ciclo storico-cosmologico). I nordici, o parzialmente tali, sono addirittura divenuti, forse, un pericolo, in quanto qualche volta (vedi il mondo americanofono) hanno messo e mettono le loro residuali qualità animiche (fino a tanto che ancora le avranno) al servizio dell’accelerazione della decadenza (30).

* * *

(1) Carleton Coon, Las razas humanas actuales, Guadarrama, Madrid, 1969.
(2) Pierre Bertaux, Africa, Feltrinelli, Milano, 1968.
(3) Vittorio Marcozzi, L’uomo nello spazio e nel tempo, Ambrosiana, Milano, 1953.
(4) Hans F. K. Günther (Rassenkunde Europas, Lehmann, München, 1926; edizione italiana Tipologia razziale dell’Europa, Ghenos, Ferrara, 2003) ipotizzava la stabilizzazione, ancora dalla preistoria, di una sacca negroide o protonegroide nel Sud del Portogallo. Questa ipotesi, pure plausibile, è ancora da dimostrare.
(5) Carleton Coon, Razas, cit. e anche Giorgio Melis, Mondo malese, Longanesi, Milano, 1972.
(6) Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(7) Robert Suggs, Island …, cit.
(8) Per esempio, Heinrich Driesmans, Der Mensch der Urzeit, Strecker und Schröder, Stuttgart, 1923.
(9) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit. (10) Vittore Pisani, L’unità culturale indo-mediterranea anteriore all’avvento di semiti e indoeuropei, Scritti in onore di Alfredo Trombetti, Torino, 1938.
(11) Marija Gimbutas, Old Europe in “Journal of indo-european studies” I, 1973 e Il linguaggio della dea, Neri Pozza, Vicenza, 1997 (originale 1989).
(12) Per quel che riguarda il lato religioso, di ottima consulta è Alain Daniélou, Siva et Dionysos, tr. it. Ubaldini, Roma, 1980.
(13) Cfr., per esempio, Carleton Coon, Razas, cit. Secondo questo autore ci sarebbero delle convergenze fra le lingue ‘mediterranee’ (per quel che se ne può ancora sapere) e quelle caucasiane/alarodiche (georgiano ecc., ma anche basco). Se questo fosse vero, si potrebbero ipotizzare anche analogie razziali a livello arcaico; ma le convergenze suggerite dal Coon sono ben lontane dall’essere dimostrate.
(14) Come un gruppo razziale intellettualmente superiore ma non eccessivamente aggressivo possa perpetuarsi in ambiente degradato può forse essere esemplificato da due casi tratti da quello che adesso è il mondo islamico. Nei paesi del Medio Oriente, un tempo mediterranei e poi semitizzati, rimangono delle minoranze cristiane che hanno caparbiamente rifiutato l’islamizzazione (l’islam è una forma particolarmente involuta di monoteismo) e che sono l’unica parte di quelle popolazioni che ‘serva a qualcosa’ (circa 10% in Siria, quasi 20% in Mesopotamia, 50% nel Libano, 5 – 10% in Egitto). C’è da credere che si tratti della parte razzialmente meno semitizzata della popolazione. – In Algeria e in Marocco forse il 10 – 12% della popolazione, arroccata nella parte più alta dell’Atlante, pure ormai islamizzata, ha rifiutato l’arabizzazione. Questi discendenti, ancora più o meno puri, di quella che un tempo doveva essere la popolazione maggioritaria dell’Africa del Nord, sono, anche lì, gli unici che ‘servano a qualcosa’.
(15) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1969 (originale 1934).
(16) Cfr. Alphonse Riesenfeld, The megalythic civilizations of Melanesia, Bril, Leiden, 1950.
(17) Cfr. Patrick Ferryn et Ivan Verheyden, Chroniques des civilisations disparues, Laffont, Paris, 1976 e anche Harald Haarmann, On the nature of european civilization and its script, “Studia indogermanica lodziensia” (Lodz), vol. II, 1998.
(18) Harald Haarmann, cit.
(19) Cfr. Thomas Barthel, Pre-contact writing in Oceania, in Thomas Sebeok (a cura di) Current trends in linguistics, vol 8 (Oceania), Den Haag-Paris, 1971; Robert von Heine-Geldern, Die Osterinselschrift, in “Orientalischer Literaturzeitung”, N. 37, 1938 e id., The Easter Island and the Indus Valley scripts, in “Anthropos”, N.33, 1938.
(20) Cfr. Robert Suggs, Island …, cit.
(21) L’ipotesi fatta da un autore americanofono, Steven Fischer (Rongorongo, Clarendon Press, Oxford [Inghilterra], 1997) a proposito della scrittura pascuana è sufficientemente ridicola per potere essere riportata: i pascuani, fino ad allora analfabeti, venuti in contatto per la prima volta con degli europei – spagnoli – nel 1770 e avendoli visti scrivere, avrebbero intuito al volo che la scrittura aveva delle interessanti possibilità ‘magiche’ e, sui due piedi, avrebbero proceduto a svilupparne una di propria.
(22) Cfr. Clara Miccinelli e Carlo Animato, Quipu, ECIG, Genova, 1989.
(23) Sull’argomento, indispensabile è la sintesi di Jean Haudry, Gli indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova, 2001 (originale 1982).
(24) Cfr. Jean Haudry, Indoeuropei, cit. e anche Lothar Kilian, Zum Ursprung der Indogermanen, Habelt, Bonn, 1983.
(25) Hans F. K. Günther, Rassenkunde Europas, cit.; Lebensgeschichte des hellenischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1965; Lebensgeschichte des römischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1966.
(26) Julius Evola, Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941).
(27) Julius Evola, Rivolta, cit.
(28) Cfr. l’introduzione all’edizione italiana di Rassenkunde Europas, cit.
(29) Hans F. K. Günther, Lebensgeschichte des römischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1966.
(30) In riguardo, di utile consulta è Silvio Waldner, La deformazione della natura, Ar, Padova, 1997.

Il presente scritto costituisce il capitolo 2 della terza parte del libro di S. Lorenzoni Involuzione. Il selvaggio come decaduto, di prossima pubblicazione da parte delle Edizioni Ghénos di Ferrara.

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3 Responses

  1. GIOVANNI
    | Rispondi

    Non si capisce come abbia un meticciato tra Europoidi e Pigmei/Boscimani essere cosi' prolifico..forse si e' trattato di Idiovariazioni facilitate dalla convivenza tra questi due tipi di Razze e devono essersi aggiunti elementi neomorfi altrimenti non e' chiaro come dalla fusione di Mediterranei e Pigmei/Boscimani escano fuori razze di pelle piu' scura e statura piu' elevata di entrambi.Sarebbe opportuno chiarire secondo il Bertaux in che senso gli Etiopi fossero di tipo misto visto che Negroidi ancora non c'erano e sarebbero derivati dal meticciato Europoide/Pigmoide.Quanto ai Semiti..Gobineau non li considerava Bianchi? (I 3 Rami Ariani Camiti Semiti)..secondo il Lorenzoni la Razza Desertica/Orientalide e quella Armenoide/Levantina sarebbero dei meticci non-bianchi?E allora anche i Dinarici..i Mediterranei/Occidentali e gli Alpinoidi.I veri Arya erano molto piu' i Bianchi PaleoIranici che le razze Nordico-Germaniche attuali che comunque a prescindere dalla purezza biologica (assai discutibile per giunta) non hanno nello Spirito nulla di Arya o comunque non piu' e ormai neanche nell'Anima..perche' infatti prima hanno messo le qualita' animiche al servizio del Kali-Yuga ed ora stanno perdendo anche quelle.Le popolazioni mediorientali che ancora servono a qualcosa non vanno identificate grossolanamente con la fascia Cristiana (anche tanti Bantu' sono Cristiani) mentre elementi pregiati Bianchi e Arii sono sopravvissuti proprio nell'Islam (assai piu' nello Sciismo) ma se il Waldner non vuole avere noie eccessive coi Sionisti qualcosa dovra' pur concederGLI .

    • ilia
      | Rispondi

      la genetica tuttavia smentisce il Gobineau: semiti e camiti non hanno correlazione genetica con gli ariani,nel caso dell’ ebreo poi i markers negroidi lo fanno clusterizzare con i Lemba bantu… cosa che nessun Indoeuropeo ha in comune…

  2. gigi
    | Rispondi

    Un dubbio mi rimane: dal Portogallo al Bengala ho trovato gente simile in tutto a noi italiani,scuri di capelli, lineamenti regolari,affatto biondi ( ma molti bambini,quanti in afganistan)non assimibilabili alle popolazioni evidentemente negroidi, le quali sono comunque la maggioranza in India. Sono stato confuso coi locali in Turchia, in Iran, in Afganistan,in India, per non dire di Spagna e Portogallo;pertanto mi rimane il dubbio sulle nostre reali origini, mescolanze, discendenze. Apprezzo questo commento di Giovanni ma, per favore, non confondiamo l'Islam col pensiero Arya!!!!

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