Il Populismo secondo de Benoist

La fine della destra e della sinistra

La crisi della democrazia liberale è giunta ad un punto di non ritorno. Le società occidentali, nelle quali essa storicamente si è affermata, sono attraversate da uno iato incolmabile che divide e contrappone l’élite della Nuova Classe dal popolo. Alla mestizia della fine, come sempre accaduto nella storia, si accompagnano speranze di un Nuovo Inizio europeo, di cui, finora, si sono fatti interpreti i movimenti “populisti” comparsi sulla scena internazionale. Un filosofo e politologo del valore di Alain de Benoist, da sempre attento a coniugare l’elaborazione teorica con l’osservazione e l’analisi dei mutamenti sociali,  non poteva rimanere in silenzio. Ha da poco dato alle stampe, dapprima in Francia e subito dopo in Italia, un testo di grande rilevanza, Populismo. La fine della destra e della sinistra, nelle librerie per i tipi di Arianna editrice (per ordini: 051/8554602; redazione@ariannaeditrice.it, euro 14,50).

Il volume è arricchito dalla Prefazione di Eduardo Zarelli che, in esergo, ha una citazione di Jünger, chiarificatrice del senso profondo del fenomeno indagato “Ogni Paese nasconde una parte di sostanza primordiale, che designiamo con il nome di Patria, e mi piace ritrovare ancora questo tipo di integrità. E’ una cosa che può accadere ovunque, anche nel deserto” (p. 5). E’ ciò che sta manifestandosi nel deserto della post-modernità, quale risposta, suggerisce de Benoist, a tre problemi epocali: 1) L’immigrazione di massa, sradicante al medesimo tempo i migranti e i nativi; 2) L’espropriazione della sovranità politica e monetaria dei popoli realizzata attraverso le politiche messe in atto dall’Unione europea; 3) Le conseguenze destabilizzanti indotte dalla globalizzazione. Negli ultimi anni si è registrata una riduzione drastica dell’appartenenza ideologica ai partiti tradizionali della destra e della sinistra. Questi ultimi, si sono impegnati nella corsa al “centro” che, via via, ne ha limato differenze e distanze. Nessuno invoca più la possibile alternativa al sistema, si parla esclusivamente di possibile “alternanza” nella continuità delle scelte di fondo. E’ il trionfo del pensiero unico e del “politicamente corretto”.

Chi si pone idealmente oltre i confini teorico-politici del sistema neo-liberale, entra a far parte dei “reietti”, che vanno ricondotti all’ordine. Tale sorte è toccata ai movimenti populisti, di destra o di sinistra, Lega Nord, Front National, Podemos, inizialmente bollati sic et simpliciter come rigurgiti neo-fascisti, poi quali incubatori di atteggiamenti xenofobi, razzisti, sessuofobi e rancorosi. I partiti tradizionali hanno tradito la loro storia: la destra la nazione, la sinistra il popolo “La sinistra si è insediata nelle classi medie superiori […] confluendo nell’economia di mercato, privilegiando le rivendicazioni marginali a scapito delle aspirazioni di coloro che sono maggiormente minacciati dalla disoccupazione e dall’insicurezza” (p. 19). E così Dominique Strauss-Kahn, esponente di spicco del socialismo francese, è stato chiamato alla direzione del Fondo Monetario Internazionale. Il germe liberale ha contaminato definitivamente le sinistre che hanno letteralmente lasciato  il popolo francese nelle braccia del FN. Il popolo, infatti, ha reazioni spontanee di indignazione, come ha ben spiegato Jean-Claude Michéa, nei confronti di un movimento politico ed intellettuale che, in nome della Modernità “si propone di distruggere l’insieme delle virtù e delle tradizioni morali alle quali esso è  legato” (p. 22).

Alle idee di Michéa, de Benoist dedica uno dei capitoli più interessanti del libro. Lo studioso francese individua nell’affaire Dreyfus, il momento storico in cui il socialismo sposò l’idea del progresso alleandosi, contro la destra monarchica, con le sinistre. Sino ad allora i socialisti non leggevano, in modo univoco e negativo, il passato.  Marx, Proudhon, Bakunin, distinguevano le strutture gerarchiche della società di Antico regime, che rifiutavano, dalle tradizioni consuetudinarie che, al contrario, avevano rappresentato, per secoli, il collante della comunità. Sposare l’idea di progresso implicò accettare il principio liberale per il quale le azioni egoistiche giovano al benessere collettivo. Principio che ha determinato lo sfaldarsi di ogni norma etica “Il legame sociale si disfa, e questo dis-farsi aumenta la vulnerabilità degli individui in un clima di pressione concorrenziale, che equivale a una nuova ‘guerra di tutti contro tutti’” (p. 25). Passo dopo passo, si è così giunti al precariato generalizzato con il quale, la Forma-Capitale, ha sostituito, nella post-modernità, il proletariato, nonché alla mercificazione dell’esistenza che ha per protagonista passivo il narciso-consumatore contemporaneo. Il regime politico che incarna questa metamorfosi è la democrazia “procedurale”, forma di espertocrazia, in cui il popolo non svolge più alcun ruolo, è silenziato. De Benoist mette sull’avviso il lettore! Ad essere in crisi non è la democrazia in senso proprio, la democrazia classica organica, ma la rappresentatività liberale.

I populisti vogliono ridare voce al popolo espropriato, per questo rappresentano un pericolo per l’establishment. Una voce particolarmente significativa, sotto il profilo teorico, in tale congerie ideale, è quella dell’argentino Ernesto Laclau. Egli, vicino al socialismo e muovendo dal peronismo di sinistra, critica il determinismo economicista, ritenendo che le identità politiche dipendono “dalle costruzioni sociali modellate dal discorso” (p. 185). Ogni prassi politica mobilitante passa, come rilevato da Gramsci, dalla conquista del’egemonia. Quando ciò avviene, dall’atomismo sociale liberale sorge un “noi” segnato comunitariamente. Sintesi momentanea dell’afflato agonistico-polemologico che, stante la lezione di Schmitt, connota di sé l’apertura dell’uomo al mondo. La politica è il luogo della decisione, della scelta tra diversi possibili. Nella prassi  populista, la politica riacquista, quindi, la propria autonomia.

Il testo di de Benoist è davvero esaustivo. Offre un’analisi meditata delle posizioni del neo-marxismo di Negri e Hardt, che in realtà è una sorta di alter-capitalismo. Infatti, con Zolo, il pensatore francese giudica l’Impero teorizzato dai due, espressione acefala del Regno dello Spirito, ma mostra l’inanità del riferimento rivoluzionario alle Moltitudini. La Moltitudine, prodotta dal lavoro immateriale, si contrappone al popolo, è espressione del  cosmopolitismo indotto dalla globalizzazione capitalista che, in fondo, Negri ritiene positiva.

Quale sarà lo sbocco cui il populismo giungerà è difficile prevederlo. E’ comunque una possibilità rispetto alla quale, dopo l’esito elettorale francese, è bene praticare la sospensione del giudizio. Macron è esempio teatrale di come sia ancora il “sistema” a creare un “noi”, fantasmagorico ed onirico quanto si vuole, ma capace per ora di vincere.

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Segui Giovanni Sessa:
Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

  1. fabio
    | Rispondi

    Con riferimento al penultimo paragrafo dell’articolo vorrei dire questo: il fatto che Toni Negri veda positivamente il fenomeno della globalizzazione, come da lui stesso ribadito nell’intervista con Paragone nel gennaio 2017, è indicativo di quanto il professore sia poco consapevole della realtà sociale attuale. La globalizzazione, a quanto mi risulta, è un fenomeno di natura capitalistica ed è strumentale al capitale e al mondo della finanza. Dal mio punto di vista il riferimento ad un’egemonia della finanza è da intendersi come fenomeno post-capitalista, come aberrazione genetica del capitalismo stesso che, in parte ne esce ferito. Il capitalismo novecentesco possedeva un proprio alveo politico che era quello liberale, quindi dotato di una veste politica, di conseguenza, figlio di una visione storica e filosofica di ampio respiro. C’è anche da osservare il fatto che l’ideologia marxista e quella socialista hanno trovato proprio nel capitalismo la ragione della loro esistenza intesa come contrapposizione ideologica e ed etica della distribuzione della ricchezza. A mio parere la fine del comunismo, con la caduta del muro di Berlino, era già stata preceduta dall’avvio della fine del capitalismo trasfigurato e smantellato della forza della finanza. La crisi della borsa del 1929 aveva messo delle catene alle banche con un sistema di regole che limitava la loro possibilità di giocare in borsa i risparmi dei loro clienti. Queste catene sono state spezzate prima da Reagan e poi da Clinton, liberando nuovamente il mostro. La globalizzazione porta, in sè un cosmopolismo di persone e mentalità culturali che poco hanno a che vedere con i livelli etici raggiunti in tanti paesi europei, compreso il nostro, attraverso le Carte Costituzionali e le conquiste sindacali. Il mercato, assunto ormai a spiegazione e ragione di tutto, non è altro che un meccanismo di domanda e offerta che se non regolato da una visione politica che rimetta l’uomo al centro sarà destinato a diventare il nostro carnefice sociale.

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