Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico

Ma che cos’è, esattamente, la ragione? È lecito identificarla senz’altro con il pensiero scientifico? E che cos’è il mito? In quale rapporto reciproco stanno il pensiero mitico e il pensiero scientifico? Sono queste, oggi, domande imprescindibili, bombardati come siamo da massicci messaggi pseudo-culturali che tendono a presentare la ragione scientifica come la ragione, e ogni altra forma di ragione e ogni altra forma di conoscenza della realtà come saperi di serie b, se non addirittura come pseudo-saperi, irrazionali e, perciò stesso, antiscientifici.

In realtà, la ragione scientifica è solo una delle forme in cui si esprime la ragione umana; non solo non è l’unica, ma non può neanche pretendere di essere la pietra di paragone di ogni altro approccio nei confronti della realtà. Di più: ciò che noi occidentali moderni definiamo come scienza, è solo una particolare versione della scienza, diversa da quella che l’Occidente ha perseguito per oltre duemila anni e diversissima da quella in cui hanno creduto antiche civiltà come l’indiana, la cinese, e molte altre (cfr. i nostri precedenti articoli La scienza moderna è una degenerazione del vero concetto di scienza e Luigi Fantappié e l’altra idea della scienza). La scienza moderna, da Galilei in poi, è anti-finalistica, materialistica, riduzionistica e meccanicistica: l’immagine dell’universo che ci presenta è quella, parziale e deformante, che in esso non vede altro se non l’opera del caso; un grande, impersonale meccanismo senza senso e senza scopo, che getta gli enti nel mondo e poi li annulla, per ricominciare di nuovo.

Esistono altri modi di usare la ragione ed esistono altre forme di organizzazione dell’esperienza, da quella estetica a quella religiosa, da quella filosofica a quella mitica; e ciascuna di esse ha la sua dignità, la sua coerenza, la sua intrinseca bellezza ed armonia; nessuna di esse è qualche cosa d’irrazionale, ma adopera la ragione non in senso esclusivamente logico-matematico, bensì in una accezione più ampia e comprensiva.

In clima positivistico si è affermata la teoria secondo la quale la ragione scientifica (nel senso galileiano, cioè logico-matematico) sarebbe intrinsecamente più “veridica” delle altre forme del Logos, in quanto basata sulla legge di causa-effetto. Ma, dopo la scoperta delle peculiarità della fisica sub-atomica – a cominciare dal principio di indeterminazione di Heisenberg -, gli scienziati stessi hanno dovuto constatare che tale legge non può essere posta, in senso assoluto, a fondamento della spiegazione della realtà; neppure della sola realtà materiale. Tuttavia, mentre alcuni scienziati moderni cominciavano a divenire più cauti circa la portata e la radicale validità della ragione scientifica, altri hanno compiuto una vera fuga in avanti, sostenendo di essere a un passo dal comprendere “la mente di Dio” e dall’individuare la legge unificata che tiene insieme le forze dell’Universo (cfr. il nostro articolo Ma è sempre la stessa arroganza la molla dello scientismo). In questo senso, poco importa se la speculazione degli scienziati erettisi a filosofi vada in una direzione tendenzialmente ateistica, come nel caso di Stephen Hawking, oppure tendenzialmente teistica, come in quello di Paul Davies; ciò che conta è la hybris, ossia la dismisura di una scienza che pretende di travalicare dall’ordine di riflessione che le è proprio – quello della materia – per giungere al perché ultimo della realtà, al cuore del problema ontologico.

A ciò si aggiunga il fatto che tutta una pletora di divulgatori scientifici più o meno informati, più o meno intellettualmente onesti, si sono impegnati in una sistematica crociata di tipo scientista, banalizzando e ridicolizzando ogni forma di approccio non scientifico alla realtà e avvalorando il quadro, distorto e presuntuoso, di una scienza come sapere assoluto e definitivo, al di fuori del quale non c’è verità e neanche un minimo di serietà. I giovani, specialmente, vengono letteralmente sommersi da una quantità di pubblicazioni e di programmi televisivi il cui sottinteso è sempre il medesimo: solo il Logos logico-matematico è il vero Logos; solo la scienza è in grado di spiegare adeguatamente la realtà intorno a noi; solo la scienza è capace di portare la società verso il progresso e verso il benessere, materiale e spirituale. Consapevolmente o meno, questi divulgatori si sono posti al servizio di una nuova religione materialistica, che pretende di liquidare i vecchi dei in nome di una ragione infallibile e divinizzata.

Il pensiero mitico, che storicamente precede quello scientifico, non è affatto una forma “primitiva” e “immatura” del Logos; è, piuttosto, una forma di pensiero radicalmente diversa, basata su diversi presupposti e su una diversa percezione della realtà. I suoi elementi di base sono differenti da quelli della scienza, non però inferiori; e, fra tutti, il più importante è il concetto di tempo: ciclico ed eternamente presente quello del mito; lineare e scandito in passato, presente e futuro, quello della scienza. Ad esempio, in una cerimonia sacra l’evento mitico che ne costituisce il nucleo non è semplicemente ricordato, bensì viene attualizzato, cioè reso presente in una dimensione assoluta. Si pensi ai miti di fondazione della polis antica, oppure ai culti misterici collegati alla dimensione dionisiaca della religiosità antica; ma si pensi anche (senza entrare nel merito del valore di verità, in senso storico, degli uni o dell’altro) al mistero cristiano per eccellenza, l’eucarestia.

La scienza, invece, pretende di collocare ciascun evento in un tempo storico ben preciso; e, così facendo, colpisce al cuore l’essenza stessa della concezione mitica del mondo, perché l’evento storicizzato non è più suscettibile di rivivere nel presente; esso è consegnato alla storia, al passato, per sempre. I legami che lo collegano al nostro mondo vengono recisi e, con essi, vengono recisi i legami spirituali che lo rendono vitale e vivificatore. Al tempo stesso, però, la visione meccanicistica della scienza moderna distrugge i legami di coesione e armonia che tengono insieme il mondo, nei suoi elementi spirituali non meno che in quelli materiali. Che senso ha parlare di Axis mundi, Asse del mondo, in un contesto puramente materialistico e riduzionistico; e che senso ha sostenere che ciascuno di noi coopera, o meno, al suo mantenimento, se si nega che i nostri pensieri e le nostre azioni abbiano un’influenza potente e diretta sull’insieme della realtà, oltre che sulla sfera immediata del nostro ambito specifico?

È opinione abbastanza diffusa, sia tra i dispregiatori che tra i sostenitori della validità del pensiero mitico, che la distruzione di esso abbia avuto inizio, in sostanza, con l’avvento della Rivoluzione scientifica moderna e cioè con Francesco Bacone, Galilei, Cartesio e, più tardi, Newton. In realtà, questo non è affatto vero; essa ha avuto inizio già nell’antica Grecia, ad opera di una schiera di logografi, mitografi e studiosi di genealogie – quali Ecateo, Ferecide, Ellanico e numerosi altri – i quali, sforzandosi di contestualizzare cronologicamente, ossia di storicizzare, i fatti del mito, ne hanno decretato l’inevitabile dissoluzione.

Ne è convinto, fra l’altro, Kurt Hübner, epistemologo tedesco nato a Praga nel 1921 e libero docente presso l’Università di Kiel, uno di quegli studiosi di filosofia della scienza che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, hanno criticato la concezione neopositivistica ed affermato la pari dignità, rispetto alla scienza, delle forme di pensiero extra scientifiche, a cominciare, appunto, dal mito. Meno famoso di Carnap, Popper, Lakatos, Sneed-Stegmüller, Kuhn e Feyerabend, egli è stato tuttavia un validissimo precursore; e i suoi testi si raccomandano per la chiarezza espositiva, non meno che per l’ammirevole lucidità concettuale.

Il vasto pubblico italiano lo conosce soprattutto per la traduzione del suo libro La verità del mito (Milano, Feltrinelli, 1990). Noi desideriamo invece riportare – a conclusione delle riflessioni sin qui svolte – il passaggio conclusivo di un’altra sua opera notevole, anche se meno conosciuta: Critica della ragione scientifica (titolo originale: Kritik der wissenschaftlichen Vernunft, Friburgo-Monaco, 1978; traduzione italiana di Marco Buzzoni ed Evandro Agazzi, Milano, Franco Angeli Editore, 1982, pp. 319-321).

“In quale modo, ci dovremo ora chiedere, noi possiamo compiere una scelta tra gli elementi a priori del mito e quelli della scienza? Come possiamo deciderci tra le rappresentazioni mitiche della causalità, della qualità, della sostanza, del tempo ecc. da una parte, e le corrispondenti rappresentazioni scientifiche dall’altra?

“È proprio il tipo di rappresentazione scientifico, in quanto cioè la scienza stessa ne diviene oggetto, che induce a comprendere che qui si tratta in entrambi i casi di qualcosa che soltanto rende possibile l’esperienza e che, quindi, non può essere assolutamente giudicato tramite l’esperienza. In nessun luogo noi afferriamo qualcosa come la realtà in sé quale tertium comparationis, poiché essa è sempre già considerata miticamente o scientificamente, appunto perché esiste tanto l’esperienza scientifica quanto quella mitica. La stessa cosa vale però per la ragione. Entrambe, esperienza e ragione – e con ciò i criteri per la verità e la realtà – sono già condeterminate, tra l’altro, da particolari rappresentazioni causali e temporali. Nulla sarebbe quindi più falso che attribuire al mito, come spesso accade, l’irrazionalità, cui la scienza si contrappone come qualcosa di razionale. Anche il mito ha la sua razionalità, che opera nel quadro del suo proprio concetto di esperienza e di ragione, quale è dato intuitivamente e categorialmente nel modo che abbiamo mostrato. (Che in esso questa razionalità non si assolutizzata, come nella tecnica, è un’altra questione.) Esso ha dunque anche, in modo corrispondente, il suo particolare tipo di armonizzazione dei sistemi che gli sono immanenti, come ordinamento di tutti i fenomeni nel contesto complessivo, ed ha anche la ‘logica’ del suo ‘alfabeto’ e delle sue figure fondamentali. La luminosa chiarezza dell’antichità greca, se questo paragone è consentito, rende questo in parte addirittura afferrabile sensibilmente, da tutto ciò però segue che l’esperienza mitica e quella scientifica, la ragione mitica e quella scientifica, sono in certo senso incommensurabili. In certo senso significa: possiamo sì confrontarli, come appunto è qui accaduto, possiamo comprenderli in quanto alternative; ma non possediamo alcun criterio, che si estenda ad entrambi, sulla cui base potremmo valutarli. Ogni valutazione partirebbe sempre già dal punto di vista mitico o scientifico.

“Non siamo dunque qui assolutamente in grado di prendere una decisione? Ma è stata tuttavia presa una decisione già da millenni, si risponderà a questa domanda. Certo, soltanto che non la si dovrebbe fare troppo facile con le ragioni di questo gigantesco mutamento, e non si dovrebbe vedere ogni cosa dal nostro punto di vista. Con i concetti generalizzati di esperienza, ragione, verità e realtà, come si è dimostrato, non si compie qui molta strada. Perciò dobbiamo rappresentarci anche il passaggio dal mito alla scienza come una mutazione (…), e quindi come storia di sistemi. Facendo ciò non dobbiamo certamente perdere di vista il fatto che in tal modo possiamo afferrare questo evento soltanto entro certi limiti. Come infatti l’uomo mitico non poteva concepire il suo mondo di dei al pari di una moderna teoria, in quanto a priori dell’esperienza del mondo, così non gli era possibile pensare consapevolmente entro quei binari che il tipo di pensiero della storia dei pensieri attribuisce agli attori storici. Noi perciò, in una certa misura inevitabilmente, vediamo il mito con una sorta di considerazione dall’esterno; ma considerate dal suo punto di vista, altrettanto inevitabilmente, le cose si raffigurano diversamente. Qui si apre un vuoto, del quale in ogni caso sappiamo che esso non può mai essere colmato senza interruzioni. Ciò che è incommensurabile non può essere mediato in modo completo.

“È dunque proprio la prospettiva scientifica che, da un lato, non può contestare completamente al mito la legittimità e che, da un altro lato, considera il suo tramonto storico come razionalmente concepibile nel suo significato, cioè in quanto condizionato nel senso della storia dei sistemi. Noi non possiamo certamente, e neppure vogliamo tornare semplicemente al mito, poiché è impossibile reintrodurci in un mondo che non conosceva la nostra esperienza organizzata in modo completamente diverso attraverso la scienza, e che quindi non aveva neppure le nostre particolari esperienze. Eppure la domanda circa la verità nella scienza, che oggi è esplosa così violentemente, proprio perché include quella circa la verità nel mito, potrebbe condurre a considerare di nuovo più seriamente ciò che è mitico e, con esso, il numinoso e l’arte. Poiché, come è stato osservato (…), il numinoso e l’arte hanno appunto in esso la loro radice comune. Non vi è comunque alcuna ragione teoricamente cogente di supporre che tutto il mondo in un lontano futuro debba relegare il tipo di considerazione mitica in quanto tale, cioè sciolto dalle particolari condizioni storiche del mito greco, nel regno delle fiabe, a meno che, per così dire, non si voglia perdere il lume della ragione.

“Nondimeno nessuno può oggi prevedere se e in qual modo ciò che è mitico, in un ulteriore ampio cambiamento di orizzonte, possa realmente di nuovo essere universalmente vissuto e sperimentato. Possiamo però certamente affermare questo: è importante identificare una mera possibilità di questo tipo, e venire a sapere di essa, in quel momento in cui è meno riconoscibile che in passato la grandezza, ma più di quanto sia accaduto sinora gli aspetti problematici del mondo unilateralmente tecnico-scientifico in cui viviamo.”

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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