Il filo aureo del mito. L’ultimo libro di Veneziani

Marcello Veneziani, nella sua vastissima produzione letteraria, ha sostenuto un corpo a corpo con il senso comune contemporaneo. Ha attraversato pagine di autori desueti, controcorrente e, a volte, poco noti perfino al lettore abituale dei suoi libri. Nell’ultima fatica, ci pare, se abbiamo ben letto, essersi posto un obiettivo più ambizioso. Presentare i limiti desolanti, sotto il profilo esistenziale e spirituale del nostro tempo, in uno con la possibile uscita di sicurezza da esso, individuata nel recupero del mito. Ci riferiamo al volume, Alla luce del mito, da poco nelle librerie per l’editore Marsilio (euro 16,50). Per la verità, il tema compare in gran parte delle opere dell’autore o, comunque, era in esse implicito. Tale consuetudine tematica ha giocato un ruolo significativo nella riuscita del nuovo esperimento.

Al termine dalla lettura, siamo stati colti da una piacevole sensazione. Nell’effimero tempo del leggere, ci siamo sottratti al brusio da officina dei nostri giorni, al presente deprivato di profondità proprio dell’età della mercificazione universale, al clamore mediatico che avvolge eventi senza spessore. Il testo di Veneziani appartiene di diritto, infatti, alla trattatistica erudita che, aliena dalla pesantezza della saggistica accademica, è animata dalla ricerca di simboli che alludano alle verità ultime.

La concezione che sostiene il libro, può essere ravvisata nell’esperienza che, del tempo, ebbe il mondo antico. Gli uomini dell’età classica avvertivano in modo chiarissimo e con tragica sensibilità, il duplice mostrarsi del tempo: il suo defluire, nel vario susseguirsi delle stagioni, e il suo confluire, nell’unico stare dell’eternità. Per loro non era difficile convincersi che il tempo fluisce in una dimensione super storica e, al medesimo tempo, nella caducità, connessa alla dimensione esistenziale-politica, nella quale l’uomo nasce, cresce e muore. Per riattualizzare tale sensibilità, ricorda Veneziani con Eliot, bisogna sbarazzarsi del “provincialismo del nostro tempo”, della pretesa “di ritenere assoluta e perenne la concezione imperante nella propria epoca” (p. 67) e convincersi che, in noi, scorrono due vite parallele: la vita “piccola” chiusa nella riserva limitata dei giorni, dell’ego e della ratio calcolante e la vita “grande” che riluce nel mito.

Il mito concede agli uomini la possibilità di una vista ulteriore, posta oltre il vedere sensibile. In essa si dà la comunità dei viventi, dei passati e dei futuri, che i Romani celebravano nel Foro attorno al Mundus. Il mito in quanto precedente autorevole su cui sintonizzare la nostra azione nel mondo, fa vivere, nel susseguirsi delle generazioni, la Tradizione. La facoltà mitopoietica ci concede non solo di raccontare i miti, ma di abitarli, di dar loro esistenza. Dobbiamo immaginare la vita umana svilupparsi su due piani di una stessa abitazione, prosegue l’autore: al primo dimora lo spirito di realtà, ma solo dalla terrazza si scorgono cielo e stelle. Questa è la Dimora cui tendiamo, perché in essa incontriamo il nostro destino stellare, il grande escluso del tempo presente “si de-sidera e si con-sidera, si respira un’altra aria” (p. 11). L’ossigeno del mito è indispensabile per uscire dal dis-astro moderno, sostenne Jünger. Lo sguardo dell’ulteriorità mitica è analogico, scorge corrispondenze ed interconnessione tra fatti, rispetta archetipi e rituali, ma soprattutto è magico, in quanto consente di partecipare ad eventi che tengono in uno micro e macrocosmo.

Nel mito si incontra il meraviglioso, l’irruzione dell’Essere nell’effimero della   vita, con il quale ci accostiamo e guardiamo negli occhi gli dei. Veneziani distingue i miti in discendenti, mitofanie o manifestazioni di forze divine, e ascendenti, prodotti dall’assolutizzazione di un’immagine, come nel caso dell’amore descritto da Stendhal. Inoltre, e ciò ha davvero rilevanza, nel mito la centralità dell’Io viene meno, esso non è più centro o scopo della visione del mondo, ma semplice frammento. Il mito si pone oltre la verità e l’errore. In una parola, è semplice figurazione ed icona della verità, incapace di annullare la realtà, rinvia alla dimensione dell’Inutile che sostanzia di sé l’esistenza “Ogni mito evoca la fondazione del mondo e la sua rigenerazione periodica in rapporto all’origine” (p. 20), donando l’unica immortalità concessa ai mortali.

Come ben compresero Proust e Benjamin, il passato “reca in sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione” (p. 23), è il sentiero lungo il quale si incontra l’origine. Mito e infanzia possono essere pensati quali sinonimi, regni del sempre possibile e della giovinezza del mondo. Ma il mito è A-more, il senza morte. Infatti, “gli innamorati abitano un’altra dimora carnale ed eterea, al riparo dal mondo ma esposta alle stelle”(p. 31). Le poesie di Prevert, ci pare, confermino tale asserzione. I suoi innamorati vivono nell’eterno presente, senza escludere passato e futuro,   “avvampati nella compresenza di aspettative, ricordi e timori” (p. 31). Veneziani, in piena sintonia con Hillman, vede nel mito la corretta terapia per lasciarci alle spalle la liquidità contemporanea. Il mito assolve funzioni essenzialmente antimoderne: fonda identità, fornisce valori, genera appartenenza comunitaria.

Per la sua impersonalità è il solo competitore della Tecnica: “Suscita altre motivazioni, altre visioni…Rispetto all’era della tecnica compie una radicale rivoluzione di mentalità” (p. 38). Il Mito è visione. La Tecnica manipolazione del mondo. La filosofia, se vorrà salvarsi dallo scacco in cui sta precipitando per il prevalere delle scuole analitico-epistemologiche, dovrà porsi al servizio del mito.  Indicazioni significative sono state fornite da Heidegger, nell’attesa del pensiero-poetante. Veneziani, sulla scorta di un aforisma di Andrea Emo, auspica il primato del mitopensiero. Emo, in proposito, così si è espresso: “Lo scopo della filosofia è di condurre con la sua razionalità fino alla zona del mito, là dove il mito è purissimo…là dove esso è pura esperienza”(p. 51). Ma, attenzione! Anche tale percorso può presentare dei rischi: perdersi nel mito è pericoloso quanto “perdere” il mito “La vita si allarga quando il possibile eccede sul reale, si restringe quando l’essere vive sotto la tirannide del dover essere” (p.60).

L’autore discute le tesi degli autori che di mito si sono occupati, da Eliade a Lévi-Strauss, da Lévi-Bruhl a Girard, da Colli a Pavese, da Otto ad Evola, per citarne alcuni. Ecco, rispetto a quanto detto riguardo ad Evola, ci permettiamo di dissentire. Non ci pare che nelle sua opera il mito assuma una coloritura prevalentemete negativa e che venga ridotto alla sua accezione moderna. Al contrario! Ci sembra, inoltre, che  Evola abbia perfettamente incarnato l’ideale del Cavaliere di Dürer-Cau, evocato da Veneziani in una delle pagine più belle del libro. Evola sa, proprio alla luce del mito, che “Ciò che vale nella vita non è la vita stessa, ma ciò che se ne fa…Della vita va salvato il mito che la proietta, la eleva e la trasforma in epos” (p. 92).

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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