Il “diritto cosmopolitico” di Kant è alla radice del buonismo suicida pro-immigrazione

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Che il buonismo masochista e suicida dell’Unione europea e della cultura dominante davanti al fenomeno, programmato e voluto dall’alto e niente affatto spontaneo come ci viene presentato dai media, della immigrazione/invasione africana ed asiatica entro i Paesi del Vecchio continente, abbia le proprie matrici ideologiche nel giusnaturalismo, fondato sul riconoscimento dei “diritti naturali” dell’individuo, e, più ancora, nel cosmopolitismo illuminista, basato sull’assunto che tutta la terra è proprietà collettiva di tutti gli uomini indistintamente, è cosa troppo nota perché valga la pena di ribadirla ulteriormente. Quel che forse non è ben chiaro a tutti, è quanta parte, in esso, abbia giocato il pensiero di colui che è considerato (a torto) il più grande filosofo del XVIII secolo, nonché il vertice dell’intero movimento illuminista, Immanuel Kant, l’autore della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica, il demolitore della metafisica e il distruttore della teologia; in breve: l’uomo che riassume la crociata del Logos strumentale e calcolante contro la tradizione e, particolarmente, contro la philosophia perennis, che da oltre due millenni accompagnava e sosteneva la consapevolezza spirituale della civiltà europea.

È stato Kant, nel suo celebre pamphlet intitolato Per la pace perpetua, a formulare, nella maniera più esplicita, l’idea che l’ospitalità di qualsiasi individuo in qualsiasi Stato è un suo “diritto” imprescrittibile, e ad articolare la sequela concettuale che lo ha portato ad esprimere un tale convincimento, dandogli lo statuto, o, quanto meno, l’apparenza, di una argomentazione filosoficamente rigorosa e inappuntabile; vale la pena, perciò, di seguire i passi di tale ragionamento e di vedere se davvero esso sia così logico e coerente, come il suo autore, ed i suoi molti estimatori, sia di allora che di oggi, mostravano e mostrano di credere.

Per la pace perpetua («Zum ewigen Frieden», 1795) non è un trattato di filosofia politica e nemmeno di etica, ma, semplicemente, uno schema giuridico mirante a fissare alcuni punti sui quali gli Stati potrebbero accordarsi per scongiurare il pericolo di guerre. Kant non crede nella bontà naturale dell’uomo; in compenso mostra di ritenere possibile che quest’uomo, che non è buono per natura, possa imbrigliare i suoi istinti bellicosi mediante una serie di formule giuridiche, il che è una contraddizione in termini. Se l’uomo non è capace di vera bontà, come potrà venirgli la pace dalla sua ragione? La Ragione vive forse di vita propria, o cade sulla Terra dalle altezze celesti?

Lo schema fondamentale dell’opera di Kant gli è stato ispirato, come è noto, dalla pace di Basilea, sottoscritta il 5 aprile 1795 fra il rappresentante della Convenzione termidoriana, François de Barthélemy, e l’ambasciatore prussiano Karl August von Hardenberg: vale a dire fra la prima repubblica rivoluzionaria d’Europa e una tipica monarchia assoluta di Ancien Régime. Buona parte delle clausole del trattato erano in realtà segrete; così come segreto era l’articolo finale del pamphlet kantiano, di puro sapore massonico, nel quale si stabiliva che, in caso di gravi controversie internazionali, i governi degli Stati coinvolti avrebbero consultato il parere dei filosofi.

La pace di Basilea nasceva, in realtà, da un cinico compromesso fra due opposti egoismi e non da un sincero desiderio di pace fra le potenze europee, del resto impossibile, stante la incompatibilità manifesta fra un governo nato dalla Rivoluzione francese e fondato sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, e sul trinomio di “libertà, fraternità, uguaglianza”, e le alte monarchie assolute, ancora fondate sugli ordini privilegiati, che non potevano stare a guardare il trionfo della borghesia, né perdonare il processo e la condanna a morte di Luigi XVI, già re per diritto divino.

Il cinismo del compromesso derivava dal fatto che Federico Guglielmo II di Hohenzollern voleva avere le mani libere a Oriente, per schiacciare la grande insurrezione polacca e fare la parte del leone nella terza e definitiva spartizione di quella sventurata nazione (mentre dovrà cedere Varsavia alla Russia e accontentarsi di un condominio con quest’ultima e con l’Austria, vale a dire, in pratica, del terzo posto); mentre la Convenzione termidoriana aveva un disperato bisogno di assestare il proprio potere nella Francia sconvolta dal biennio 1793-94, dominato da Giacobini e sanculotti, e rafforzare il ceto alto e medio borghese come classe di governo.

Non è chiaro se Kant si sia reso conto che si trattava sostanzialmente di una tregua e che la resa dei conti tra la Rivoluzione e le monarchie dell’Ancien Régime (sostenute per ragioni non ideologiche, ma puramente commerciali e finanziarie, dalla monarchia costituzionale inglese) era solo rinviata, in attesa che le due parti recuperassero le forze, o se davvero abbia creduto che essa “dimostrasse” la possibilità che sistemi di governo radicalmente diversi, potessero stabilire rapporti di buon vicinato e accordarsi per evitare lo scoppio di guerre future.

Da parte nostra, saremmo propensi per la seconda ipotesi: il che, se fosse vero, non deporrebbe a favore della lungimiranza e dell’acume del filosofo di Königsberg, alla cui lucidità facevano velo, evidentemente, tutta una serie di pregiudizi illuministi sulla “naturale” ragionevolezza, se non sulla naturale bontà, degli esseri umani. Resta il fatto che l’aggiunta del famoso articolo segreto smentisce tutto l’impianto dell’opera, così ingenuamente fiducioso nell’efficacia di un sistema di regole giuridiche internazionali che varrebbero a ottenere quel che l’autentico desiderio di pace dei governi, e dei rispettivi popoli, di per sé, non pare capaci di realizzare.

A noi, tuttavia, in questa sede, non interessa discutere la «Pace perpetua», schema velleitario quant’altri mai, partorito dall’ubriacatura razionalistica dell’Illuminismo, se non per soffermare l’attenzione su di un particolare aspetto di essa: il diritto cosmopolitico, ossia il diritto di cittadinanza “universale”, per le sue evidenti e significative convergenze, che non possono essere casuali, con la situazione attualmente determinatasi fra gli organi di governo dell’Unione europea, e molti (ma non tutti) i governi delle nazioni che vi aderiscono, e il massiccio e inarrestabile fenomeno della migrazione/invasione proveniente dall’Africa e dall’Asia, che sta provocando ormai una vera e propria sostituzione della popolazione europea con una nuova popolazione mista, tale da mettere in forse la tradizione culturale e la stessa identità etnica del Vecchio Continente.

Così riassumono le idee kantiane sul cosmopolitismo Simonetta Corradini e Stefano Sissa (Capire la realtà sociale. Sociologia, metodologia della ricerca, Bologna, Zanichelli, 2012, pp. 146-147):

«Il filosofo Immanuel Kant (1724-1804), in un opuscolo dal titolo “Per la pace perpetua” (1795) illustrò un progetto per l’attuazione della pace nel mondo attraverso il diritto. Il testo si presenta come un ipotetico trattato internazionale suddiviso in articoli, distinto in articoli PRELIMINARI e DEFINITIVI.

I preliminari definiscono ciò che gli Stati non debbono fare: non concludere trattati di pace con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura (se no la sospensione della guerra sarebbe un semplice armistizio), acquistare uno Stato indipendente per eredità, scambio, compera o donazione (lo Stato è una società di uomini non un bene), non tenere eserciti permanenti (costituiscono una minaccia per gli altri Stati, incitano a gareggiare negli armamenti), non contrarre debiti pubblici per fare la guerra, non intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato, non compiere nel corso di una guerra atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia in futuro.

L’aspetto più innovativo è costituito dai tre articoli definitivi che rappresentano la parte propositiva del progetto di un ordine internazionale in grado di garantire la pace. Essi riguardano tre distinti piani, quello del diritto costituzionale che regola il rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini (art. 1), quello del diritto internazionale che regola i rapporti fra gli Stati (art. 2) e quello del diritto cosmopolitico (art. 3) per il quale tutti i cittadini del pianeta diventano titolari di diritti e di doveri che vanno al di là della loro condizione di sudditi di un determinato Stato. Il diritto cosmopolitico è una nuova branca del diritto. Gli articoli definitivi sono così formulati:

  1. La costituzione civile degli Stati deve essere repubblicana. Secondo Kant, una costituzione repubblicana, nel senso che il popolo è rappresentato, favorisce la pace, perché se sono i cittadini a decidere una guerra, sapendo che il peso graverà su di loro, saranno molti cauti nelle loro decisioni.
  2. Il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati. L’unico modo di uscire da uno stato di guerra permanente è la costituzione di una lega tra Stati il cui fine è la conservazione della libertà e della sicurezza di uno Stato per sé  e nello stesso tempo per gli altri Stati confederati. Kant non ritiene auspicabile la formazione di un unico Stato mondiale perché potrebbe portare a un terribile dispotismo.
  3. Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità.

OSPITALITÀ significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio altrui a non essere trattato ostilmente. Non si tratta di un diritto di ospitalità al quale ci si possa appellare, ma di un “DIRITTO DI VISITA” spettante a tutti gli uomini, quello cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra”. Il filosofo ricorda come le potenze europee abbiano scambiato il DIRITTO DI VISITA con la conquista delle terre altrui ed esprime una condanna del colonialismo. Egli osserva inoltre che, dati i rapporti che si sono stabiliti tra i popoli della Terra, “la violazione del diritto avvenuta IN UN PUNTO della terra è avvenuta in TUTTI i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma una necessaria integrazione di un codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, al fine di fondare un diritto pubblico in generale e quindi attuare una pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente”.

Secondo il filosofo, tre tendenze presenti nella società favoriscono  questo sviluppo, vale a dire la natura pacifica delle repubbliche, la forza unificante del commercio mondiale e la funzione di controllo da pare della sfera pubblica, cioè della comunità dei cittadini, che, in quanto esseri razionali, sottopongono ad esame e discutono l’operato dei governi».

 Ma vediamo un po’ più da vicino le proposte politico-giuridiche di Kant.

Gli articoli preliminari sono una coroncina di buone intenzioni, che non valgono nemmeno il costo dell’inchiostro con il quale sono stati scritti. Chi, o che cosa, potrebbe impedire che un governo sottoscriva un trattato di pace, con la tacita riserva di riprendere la guerra, non appena le condizioni gli si presenteranno più favorevoli? Chi, o che cosa, potrà impedire a uno Stato di acquisirne un altro mediante eredità, scambio, ecc., cosa che finora era sempre avvenuta, e sulla quale nessuno aveva mai trovato da ridire (come nessuno troverà da ridire sul Trattato di Campoformio del 1797, che divise la millenaria Repubblica di Venezia fra l’Austria e la Francia)? Gli eserciti permanenti: certamente essi sono una minaccia continua alla pace; ma chi potrà impedire agli Stati più forti di imporre il rispetto del loro disarmo, e, quanto a se stessi, ignorarlo bellamente? Non contrarre debiti pubblici per fare la guerra: giusto; ma il debito pubblico può trasformarsi, come oggi vediamo, in un’arma di guerra esso stesso, maneggiato da banche e istituti finanziari senza scrupoli. Al tempo di Kant il debito finanziava le guerre; ai nostri tempi, sono le guerre (finanziarie) a generare il debito pubblico. Il filosofo tedesco non lo aveva previsto: eppure già da un secolo esatto (nel 1694) era nata la Banca d’Inghilterra, e il fenomeno della mondializzazione della finanza era già visibile al suo tempo. E che vuol dire, poi, che gli eserciti, in guerra, devono astenersi da atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nel futuro? Quali sono questi atti? La pulizia etnica, come quella fatta dai Britannici nell’Acadia, a danno dei Francesi; o la guerra batteriologica, come quella fatta, ancora, dai Britannici, ai danni dei nativi americani (le coperte infettate dal vaiolo, regalate da Lord Amherst ai Pellerossa)? Chi può impedire al più forte di adoperare mezzi di guerra particolarmente crudeli e devastanti, se non la forza? Le guerre si fanno per vincerle: sono – diceva Clausewitz – la prosecuzione della politica con altri mezzi. Voler imporre ai militari dei limiti nei mezzi della guerra, per ragioni politiche, è un’idea che nasce dalle buone intenzioni, ma che è letteralmente priva di senso, in pratica. Si veda quel che accadde nella Prima guerra mondiale con la guerra sottomarina tedesca: i politici, cioè il governo, vedevano benissimo che essa avrebbe portato all’intervento degli Stati Uniti, ma essa sembrava efficace, e i militari non erano disposti a rinunciarvi: e fu il loro punto di vista a prevalere, perché, nelle guerre moderne, la decisione ultima tocca agli “specialisti”, e la politica viene necessariamente scavalcata.

Passando agli articoli definitivi, fin dal primo si fa una scoperta a dir poco sconvolgente: il diritto costituzionale deve essere repubblicano. Che cosa significa, in pratica? Che le monarchie, e specialmente le monarchie assolute, devono sparire dalla faccia della Terra? E come, di grazia? Mediante una guerra perpetua da parte delle Repubbliche? Buono a sapersi: Kant auspica, anzi, esige un totalitarismo repubblicano, di chiara matrice massonica e “illuminata”. E perché, poi? la motivazione addotta da Kant è pateticamente insufficiente: perché, nei governo repubblicani, vige la rappresentanza popolare, e il popolo non vorrà la guerra, se si renderà conto che dovrà pagarne esso per primo le amare conseguenze. Quanto buonismo dolciastro, quanto velleitarismo razionalista: c’è odor di pesce andato a male. Punto primo: nelle monarchie costituzionali e parlamentari, non vi è la rappresentanza popolare? Punto secondo: è proprio vero che il popolo, se informato delle conseguenze, non è propenso alle guerre? Punto terzo: nei governi fondati sulla sovranità popolare, non vi sono cento modi per aggirare l’esercizio effettivo della sovranità, e per manipolare l’opinione pubblica, fino a spingere i cittadini a qualsiasi tipo di politica, anche la più contraria ai loro veri interessi?

Passiamo all’articolo 2: una federazione mondiale di liberi Stati? Certo, va riconosciuto a Kant di aver intuito il pericolo gravissimo insito nella costituzione di un unico super-Stato mondiale. Ma la federazione mondiale, cui egli pensa, è davvero cosa molto diversa? Lo stiamo vedendo oggi, nel nostro piccolo, con l’Unione europea; e, in una certa misura, con le Nazioni Unite (sempre propense ad approvare le azioni di guerra del più forte: nel 1950, in Corea, da parte degli Stati Uniti; nel 1991 in Iraq, di nuovo da parte degli Stati Uniti). E che succede se uno Stato decidesse d’entrare, ma poi anche di uscire, da una siffatta federazione? O se rifiutasse al tutto di aderirvi? Bisognerà obbligarla con la forza, cioè con un’altra guerra: anzi, con una serie incessante di guerre, contro tutti gli Stati recalcitranti? Ma se quegli Stati fossero recalcitranti perché i loro popoli, legittimamente e democraticamente rappresentati, non volessero saperne: bisognerebbe passar sopra le loro libere decisioni? Abbiamo visto cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 1861, quando una parte degli Stati aderenti a quella federazione vollero uscirne: sappiamo quale fu la reazione degli altri, cioè dei più forti (quelli del Nord industrializzato): guerra totale. In altre parole: per conseguire la pace perpetua, bisogna inaugurare la guerra permanente? Non sarebbe meno ipocrita lasciare che le guerre si scatenino come sempre è accaduto, senza pretendere di farle in nome del nobilissimo ideale della pace universale? Sia la Prima che la Seconda guerra mondiale sono stare combattute all’ombra di questo ideale; ma esse non hanno affatto scongiurato il pericolo di una terza, e assai più terribile, che potrebbe culminare nell’olocausto nucleare dell’intero pianeta terrestre.

E veniamo al terzo punto. Kant s’immagina di avere inventato chissà quale branca sensazionale del diritto, proclamando che esistono dei diritti umani che precedono, e sono indipendenti, da quelli relativi all’appartenenza a un determinato Stato. E va bene. Poi sembra concentrare tali diritti in un super-diritto, il “diritto di visita”: precisando che non deve equivalere a un diritto di conquista ai danni del Paese ospitante, come  accadde nelle Americhe con i conquistadores. Molto bene. Ma non ha specificato se questa “visita” possa diventare anche permanente, ossia “diritto d’insediamento”: parrebbe di sì, visto che egli proclama esplicitamente un diritto comune al possesso di tutta la Terra. E qui cominciano i problemi, che Kant non chiarisce affatto, dopo averli stuzzicati e fomentati. Se si interpreta questo principio strictu sensu, esso è, né più, né meno che la legalizzazione di qualsiasi invasione – oh, purché “pacifica”! – ai danni di qualunque Stato. Non si distingue fra diritto di alcuni e diritto di tutti: fra “visita” da parte di uno, o da parte di milioni. I buonisti che proclamano, oggi, il dovere di spalancare le porte a milioni di migranti/invasori dell’Europa, sono accontentati: han trovato la loro Bibbia e il loro profeta. Se la Terra è di tutti, non serve chiedere visto d’ingresso: chiunque ha il diritto d’entrare, ad ogni costo, in casa altrui. Anzi: non esistono più le case d’altri.

Strano: per garantire il massimo dei diritti a tutti, si consuma l’ingiustizia più plateale: espropriare ciascun popolo del diritto a decidere il proprio futuro e a custodire la propria identità e tradizione…

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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