«Il deserto dei Tartari» di Valerio Zurlini

Con l’abituale spocchia del critico affermato che si sente ormai onnisciente e onnipotente, Paolo Mereghetti ha definito il capolavoro di Valerio Zurlini Il deserto dei Tartari come una «lunga e scolastica versione del romanzo omonimo di Dino Buzzati, appesantita da episodi e personaggi assenti nel libro. Più televisivo che kafkiano».

Invece, a dispetto della supponenza e della prosopopea di certi Soloni della critica cinematografica, noi osiamo sostenere che la trasposizione per il grande schermo del celebre romanzo di Buzzati è un’opera di altissimo livello, piena di poesia e di intensità drammatica; e che, se il cinema internazionale dei nostri giorni ci presentasse ancora opere del genere, al posto dei soliti filmacci hollywoodiani costruiti su misura per qualche star del momento e per il narcisistico compiacimento di qualche tecnico degli effetti speciali, faremmo il cambio più che volentieri e ci augureremmo che fosse solo l’inizio di una salutare inversione di tendenza.

Tanto per cominciare, il cast degli attori scelto da Zurlini, che poteva disporre dei larghi mezzi di una co-produzione italo-franco-tedesca, è di tutto rispetto. Jacques Perrin è un tenente Drogo efficacemente perplesso ed introverso; intorno a lui Vittorio Gassman (conte Filimore), Giuliano Gemma (maggiore Matis), Philippe Noiret (generale), Jean-Louis Trintignant (maggiore Rovine), Max von Sydow (capitano Hortiz), Helmut Griem, Laurent Terzieff e Fernando Rey (tenente colonnello Rathanson) formano una galleria di ufficiali e sottufficiali che, nell’ambiente stranito e quasi allucinato della Fortezza Bastiani, creano una atmosfera convincente e fedele allo spirito del romanzo.

Molto più condivisibile di quella di Mereghetti ci sembra la recensione di Tullio Kezich, un critico signorile, intelligente e non spocchioso (Il Millefilm. Dieci anni al cinema, 1967-1977, Milano, Mondadori, 1983 vol. 1, p.186):

«Dino Buzzati è uno scrittore che ha avuto poca fortuna con il cinema: dei suoi numerosi romanzi e racconti, nessuno ha fornito pretesto a un fil memorabile; e la sceneggiatura originale di Il viaggio di G. Mastorna, scritto a quattro mani con Fellini, è rimasto nel cassetto. A pareggiare i conti arriva ora un film molto impegnativo di Zurlini, che finalmente traduce in splendide immagini il più popolare romanzo dello scrittore bellunese, Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940. Alle soglie della guerra Buzzati immaginò, con uno strano misto di attrazione per la vita militare e di repulsione per il militarismo, la favola esistenziale del tenente Giovanni Drogo, che consuma la propria vita in una lontana fortezze fra le montagne e il deserto, nell’attesa di un nemico che non arriva. Forse pensando alle radici lombardo-venete dell’autore, Zurlini ha inquadrato il racconto in una atmosfera da “finis Austriae”. Si comincia infatti nel 1907 e si arriva a ridosso della guerra mondiale (nel libro l’azione dura trent’anni), in chiave metastorica piuttosto che fantastica. Se il romanzo era “fatto della materia di cui sono intessuti i sogni”, con obbligatorio riferimento a Franz Kafka, il film sembra ispirarsi piuttosto a una narrazione a sfondo storico tipo La marcia di Radetzky di Joseph Roth. Intorno a Perrin, che ha il merito di aver portato avanti il progetto nel ruolo di produttore, si è riunita una schiera di mostri sacri forse un po’ troppo attenti a conquistarsi uno spazio individuale».

Condividiamo quest’ultima osservazione; ma forse era inevitabile che ciò accadesse: davvero troppe star in uno spazio così ristretto, per riuscire a piegarle a un gioco di squadra; nemmeno un regista più bravo di Zurlini ci sarebbe facilmente riuscito. Questi sono i limiti delle co-produzioni; di essi fa parte la scelta di Perrin nei panni del protagonista, che, forse, avrebbe recitato meglio in un ruolo, se non meno impegnativo, tuttavia più defilato.

Ma Zurlini è riuscito nell’obiettivo principale: quello di rendere, in modo quasi tangibile, la forza misteriosa che trattiene nella Fortezza Bastiani tutti i nuovi arrivati, nonostante l’impatto iniziale riesca sgradevole e quasi allucinante. Così è per Giovanni Drogo, che ha firmato per un servizio di soli due anni e che, appena arrivato, si sente respinto da quell’ambiente indecifrabile e stralunato, dove tutti attendono un nemico che non compare mai all’orizzonte.

Poi, però, poco a poco, anch’egli viene coinvolto da quella strana, inspiegabile attrazione che contagiata ogni ufficiale, fatta di impossibili sogni di gloria e di romantica aspettazione; e finisce per rinnovare la ferma per ben trent’anni, consumando nella vana attesa dell’attacco la sua intera vita e riducendosi a morire, solo e dimenticato, in un alberghetto di provincia, mentre i suoi commilitoni si preparano, finalmente, a sostenere l’assalto dei Tartari, ma senza di lui.

L’arte registica di Zurlini è splendidamente assecondata dalla fotografia di Luciano Tovoli e dalle musiche di Ennio Morricone, oltre che dalla sceneggiatura di André G. Brunelin e di Jean-Louis Bertuccelli. La durata complessiva del lungometraggio, 141 minuti (una volta e mezza la durata media di un film), testimonia la complessità dello sforzo del regista, teso a calare lo spettatore all’interno del mondo struggente e claustrofobico della vicenda.

Così Dino Buzzati, nel penultimo capitolo del suo romanzo, descrive il triste commiato del tenente Drogo (divenuto ormai, ma inutilmente, maggiore) dalla fortezza in cui ha consumato la sua intera giovinezza, pieno di speranze e di ambizioni; e che ora deve abbandonare, malato e in fin di vita, proprio nel momento in cui, dagli estremi confini dell’orizzonte, una nuvola di polvere sembra annunciare l’evento tanto atteso da tutti i difensori: l’arrivo dei Tartari (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Milano, Mondadori, edizione 1987, cap. XXIX, pp. 246-50):

«Come carrozza era effettivamente una dignitosa carrozza, perfino esagerata su quelle rustiche strade. Poteva sembrare di un ricco signore se non ci fosse stati sugli sportelli lo stemma di un reggimento. In serpa erano due soldati, il cocchiere e l’attendente di Drogo.

Nessuno, in mezzo al trambusto della Fortezza, dove già arrivavano i primi scaglioni di rinforzi, fece molta attenzione a un ufficiale magro, dal volto smunto e giallastro, che scendeva lentamente le scale, si avviava all’andito di ingresso e usciva fuori dove era ferma la carrozza.

Sulla spianata, inondata di sole, si vedeva avanzare in quel momento una lunga schiera di soldati, di cavali e di muli, provenienti dalla valle. Benché stanchi per la marcia forzata, i militari acceleravano il passo quanto più si facevano vicini alla Fortezza e i musicanti, in testa, furono visti togliere le fodere di tela grigia agli strumenti come se si accingessero a suonare.

Qualcuno intanto salutava Drogo, ma pochi e non più come prima. Tutti sapevano, pareva, che egli ormai se ne stava andando e che oramai non contava più niente nella gerarchia della Fortezza. Il tenente Moro e qualche altro vennero a dargli il buon viaggio; fu però un saluto brevissimo con quella affettuosità generica ch’è propria dei giovani verso le vecchie generazioni. Uno disse a Drogo che il signor comandante Simeoni lo pregava di aspettare, in quel momento era impegnatissimo, il signor maggiore Drogo avesse la bontà di pazientare qualche minuto, il signor comandante sarebbe venuto senza fallo.

Salito che fu in carrozza, Drogo diede invece subito ordine di partire. Aveva fatto abbassare il soffietto per respirare di più, si era avvolto attorno alle gambe due o tre coperte scure sulle quali spiccava lo scintillio della sciabola.

Traballando sui sassi, la carrozza si avviò per la sassosa spianata, la via di Drogo volgendo così all’ultimo termine. Voltato da un lato sul sedile, la testa dondolando a ogni urto delle ruote, Drogo fissava i muri gialli della Fortezza che si facevano sempre più bassi.

Lassù era passata la sua esistenza segregata dal mondo, per aspettare il nemico egli si era tormentato più di trent’anni e adesso che gli stranieri arrivavano, adesso lo cacciavano via. Ma i suoi compagni, gli altri che giù nella città avevano menato una vita facile e lieta, eccoli adesso arrivare al valico, con superiori visi di sprezzo, a far bottino di gloria.

Gli occhi di Drogo fissavano come non mai le giallastre pareti della Fortezza, le sagome geometriche di casematte e polveriere. Lacrime lente e amarissime calavano giù per la pelle raggrinzita, tutto finiva miseramente e non restava nulla da dire.

Nulla, proprio nulla restava disponibile a favore di Drogo, egli era solo al mondo, malato, e l’avevano cacciato via come un lebbroso. Maledetti, maledetti, diceva. Ma poi preferiva lasciarsi andare, non pensare più a niente, altrimenti un insopportabile rigurgito d’ira gli si gonfiava nel petto.

Il sole era già sulla via discendente, pur rimanendogli parecchia strada da fare, i due soldati in serpa chiacchieravano tranquillamente, indifferenti al rimanere o al partire. Essi avevano preso la vita come veniva, senza angustiarsi con pensieri assurdi. La carrozza, di ottima costruzione, una vera carrozza da malato, oscillava ad ogni buca del terreno come delicata bilancia. E la Fortezza, nell’insieme del panorama, si faceva sempre più piccola e piatta, sebbene le sue mura risplendessero stranamente in quel pomeriggio di primavera.

L’ultima volta, molto probabilmente – pensò Drogo quando la carrozza giunse al ciglio della spianata, là dove la strada cominciava a immergersi nella valle. “Addio Fortezza”, si disse. Ma Drogo era un po’ instupidito e non ebbe neppure il coraggio di far fermare i cavalli, per dare ancora uno sguardo ala vecchia bicocca, che solo adesso, dopo secoli, stava per cominciare la giusta vita.

Per un istante ancora rimase negli occhi di Drogo l’immagine delle mura giallicce, dei bastioni a sghembo, delle misteriose ridotte, delle rupi laterali nere per il disgelo. Parve a Giovanni – ma fu un infinitesimo di tempo – che le mura si allungassero improvvisamente verso il cielo, balenando di luce, poi ogni vista fu tolta brutalmente dalle ricce erbose entro cui sprofondava la strada.

Giunse verso le cinque a una piccola locanda, là dove la strada correva sul fianco della gola. In alto, come un miraggio si levavano caotiche creste di erba e di terra rossa, monti desolati dove forse mai era stato l’uomo. Nel fondo correva il torrente.

La carrozza si fermò sul breve piazzale dinanzi alla locanda proprio mentre passava un battaglione di moschettieri. Drogo vide passargli attorno volti giovanili, rossi per il sudore e la fatica, occhi che lo fissavano con meraviglia. Solo gli ufficiali lo salutarono. Sentì una voce, fra quelli che si erano allontanati: “va comodo, il vecchietto!”. Non seguì però nessuna risata. Mentre loro andavano alla battaglia, lui scendeva alla pianura vile. Che ridicolo ufficiale, pensavano probabilmente quei soldati, a meno che non gli avessero letto sul volto che anche lui andava a morire.

Non riusciva a liberarsi di quel vago intontimento, simile a nebbia: forse era stato il dondolio della carrozza, forse la malattia, forse semplicemente il dolore di veder finire miseramente la vita. Non gli importava più di nulla, assolutamente. L’idea di rientrare nella sua città, di girare a passi strascicati per la vecchia casa deserta o di giacere in un letto per lunghi mesi di noia e di solitudine gli faceva paura. Non aveva nessuna fretta di arrivare. Decise di passare la notte nella locanda.

Aspettò che il battaglione fosse interamente passato, la polvere sollevata dai soldati ricaduta sui loro passi, il rombo dei loro carriaggi coperto dalla voce del torrente. Poi scese adagio dalla carrozza, appoggiandosi alle spalle di Luca.

Sulla soglia era seduta una donna, intenta a lavorare di calza, e ai suoi piedi dormiva, in una rustica culla, un bambino. Drogo guardò stupito quel sonno meraviglioso, così diverso da quello degli uomini grandi, così delicato e profondo. Non erano ancora nati in quell’essere i torbidi sogni, la piccola anima navigava spensierata senza desideri o rimorsi per un’aria pura e quietissima. Drogo stette fermo a rimirare il bambino dormiente, una acuta tristezza gli entrava nel cuore. Cercò di immaginare se stesso immerso nel sonno, singolare Drogo che mai egli aveva potuto conoscere. Si prospettò l’aspetto del proprio corpo, bestialmente assopito, scosso da oscuri affanni, il respiro greve, la bocca socchiusa e cadente. Eppure anche lui un giorno aveva dormito come quel bambino, anche lui era stato grazioso e innocente e forse un vecchio ufficiale malato si era fermato a guardarlo, con amaro stupore. “Povero Drogo”, si disse, e capiva come ciò fosse debole, ma dopo tutto egli era solo al mondo, e fuor che lui stesso nessun altro lo amava».

È noto che, in base a quanto confidò lo stesso Buzzati, l’idea del romanzo sarebbe venuta allo scrittore bellunese dalle lunghe, inutili attese di un servizio importante, durante il suo lavoro notturno alla redazione del «Corriere della Sera» (del quale divenne in seguito una delle firme più prestigiose, fino alla morte, avvenuta nel 1972). Lo scrittore, pertanto, non ebbe la soddisfazione di assistere alla trasposizione cinematografica del suo capolavoro o di occuparsi della sua sceneggiatura.

Per Zurlini, regista prestigioso, che aveva già dato la misura delle sue qualità in opere sobriamente intense, come Estate violenta del 1959 (di cui ci siamo già occupati in un apposito articolo, reperibile sempre sul sito di Arianna Editrice), Il Deserto dei Tartari è stato un po’ il testamento spirituale, perché il regista bolognese si sarebbe spento pochi di lì a pochi anni, nel 1982.

Ma già Zurlini aveva portato sul grande schermo un inquietante presentimento della morte nel suo precedente film, La prima notte di quiete, del 1972: nel quale, come appare già dal titolo, la morte è vista, foscolianamente, come un porto di quiete dopo gli affanni tormentosi e deludenti della vita.

Ci piace riportare, a conclusione del discorso, la recensione di Mariapaola Pierini sul film di Zurlini, da cui dissentiamo solo per quanto riguarda la presunta coralità della recitazione, mentre sottoscriviamo tutti gli altri aspetti (da: Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, La letteratura, Milano, Paravia, 2007, vol. 6, p.520):

«Valerio Zurlini (1926-1982) è un regista che nel panorama del cinema italiano del secondo dopoguerra riveste un ruolo importante e significativo. Con La ragazza con la valigia, suo terzo lungometraggio del 1961, Zurlini mostrò di saper ritrarre paesaggi e personaggi con uno stile che riunisce felicemente l’indagine psicologica con una estrema cura figurativa e formale. Nel corso della sua carriera, Zurlini ha spesso esplorato i rapporti tra il cinema e la letteratura, e Il deserto dei Tartari, trasposizione del romanzo di Buzzati, è il film che meglio esprime questa notevole sensibilità del regista, che qui riesce nel difficile compito di trasferire sullo schermo il mondo metafisico della Fortezza Bastiani, attraverso immagini al contempo realistiche e dense di simbolismo.

Il film riprende piuttosto fedelmente la trama del romanzo, anche se il regista sceglie di caratterizzare in maniera più netta l’ambientazione storica e i tratti dei personaggi. Giovan Battista Drogo, tenente di fresca nomina, viene comandato presso la sperduta Fortezza Bastiani, ai confini dell’impero austro-ungarico. Lì, sul limitare del deserto, una guarnigione militare attende l’arrivo di un nemico che sembra non doversi mai materializzare. La fortezza è un luogo remoto e inaccessibile, e il suo isolamento fisico ed esistenziale sono resi con grande efficacia dalle immagini del film. Gli spazi assolati e ventosi del deserto si alternano con gli interni angusti e bui delle stanze e dei corridoi. Un clima di attesa e di sospensione pervade l’intera pellicola, e il silenzio surreale in cui è avvolta la Fortezza è rotto solamente dai suoni dei passi, delle trombe, delle armi e degli ordini che scandiscono la vita militare.

Il film ha un andamento lento, i dialoghi sono intervallati da lunghe pause, accompagnate dai temi musicali di Ennio Morricone. La Fortezza è un mondo a sé stante, con regole rigide e codici comportamentali rigidamente rispettati. I volti anonimi dei soldati semplici si distanziano con nettezza dagli altri gradi della gerarchia militare che comanda la Fortezza: una galleria di tipi umani, di volti e di sguardi, attraverso cui far filtrare la complessa rete di tensioni e rivalità, ambizioni di carriera e dimostrazioni di eroismo, sottesa all’apparente quiete della vita dell’avamposto militare.

Riunendo un gruppo di attori di varie nazionalità e di grande prestigio, il film acquista di intensità e profondità grazie a un andamento corale della recitazione, che non sacrifica però la personalità dei singoli interpreti. Pur nella rigidità rituale propria della disciplina militare, espressa da corpi e volti spesso impassibili e statici, a ciascun personaggio è riservato lo spazio per mostrare la propria umanità, la propria tensione sotterranea. Jacques Perrin è un dimesso e vibrato Drogo, mentre Vittorio Gassman mette l’imponenza della sua figura e l’enfasi della sua voce al servizio di un personaggio, quello di Filimore, che coniuga durezza e sensibilità.

L’immobilità della Fortezza è scossa da un lento ma inesorabile precipitare degli eventi. L’uccisione di un soldato, l’ammutinamento delle truppe, la morte del tenente von Hamerling, il trasferimento graduale di parte del contingente in altre sedi, trasformano la Fortezza in un luogo sempre più remoto e sinistro. Drogo, combattuto tra il desiderio di allontanarsi e l’obbedienza agli ordini dei superiori, resterà fino all’ultimo, benché consumato da una misteriosa malattia che colpisce gli abitanti della Fortezza. La morte del protagonista giungerà proprio nel momento in cui sarà costretto ad abbandonare per sempre la sua guarnigione, che dopo anni di attesa e di silenzio, scorge finalmente il nemico all’orizzonte e si appresta a fronteggiarlo».

Ma che cosa simboleggia la snervante attesa di Giovanni Drogo e di tutti gli altri ufficiali e soldati che, nella fortezza, vivono con le armi al piede, pronti ad opporsi a una irruzione dei misteriosi Tartari dal fondo dei loro deserti strani?

Probabilmente, si tratta di un simbolo equivalente alla attesa del signor K., ne Il processo di Kafka: una allegoria della stessa esistenza umana, che ci consuma inutilmente nell’attesa di un evento liberatorio (e sia pure temuto e oscuramente minaccioso), capace di conferirle dignità e significato.

Un evento che, però, continuamente sembra sottrarsi; per poi identificarsi con una morte tanto inattesa, quanto poco gloriosa e così diversa da come era stata immaginata.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

2 Responses

  1. Lotzen
    | Rispondi

    Grazie Francesco, ancora una tua testimoninaza di estrema maturità, in un panorama moderno dove l' infantilismo, l' americanismo, e l' ignoranza fanno da padroni. Mi permetterei di aggiungere,( sapendo bene che quetsa mia aggiunta è irrilevante, ai fini di un giudizio globale su Zurlini), che il regista bolognese (cioè, Zurlini), risulta essere stato grandemente ispirato da Visconti. Nel guardare "Il deserto dei Tartari", e "La prima notte di quiete", non posso non pensare a quanto Visconti abbia influito su Zurlini, il quale arriva addirittura a proporre i vari attori tipicamente Viscontiani, quali Alain Delon, Sonia Petrovna, Helmut Griem, Giancarlo Giannini, Renato Salvatori, ecc. Zurlini è chiaramente affascinato dal fatto che, essendo Visconti un nobile, il regista milanese risulta particolarmente capace la dove si deve parlare di nobiltà, (ad esempio, "Il Gattopardo", "Ludwig", ecc.), scene di carattere militare, (ad es. "La caduta degli Dei"), e aspetti "romantici" ma sempre intrisi in una cupa atmosfera di morte, nichilismo, disperazione, ma tutto visto in senso "elegante"…., cioè ad una distanza enorme da come Pasolini vede la realtà. In sintesi, vedo Zurlini e Visconti da una parte, e dall' altra Pasolini. Sarebbe molto interessante sapere cosa tu, Francesco Lamendola, cosa tu pensi di Pasolini, dal momento che, ammirando Zurlini, sarà difficile per te amare anche un personaggio per molti versi opposto a Zurlini e Visconti, cioè, Pasolini.

  2. maurizio crucci
    | Rispondi

    Confesso che quando vidi il film( avevo gia letto, con pazienza il libro) all'ultimo minuto tirai ,non da solo un sospiro di sollievo. Appariva finalmente il tanto atteso nemico! Nel romanzo non è questo il finale, ben più sconsolato.
    Zurlini ha veramente saputo trasfondere in quel film il senso del romanzo, l'attesa logorante , la speranza delusa, il bilancio negativo di tutta una vita e gli si perdona il tradimento finale
    Buzzati l'avrebbe approvato secondo me.
    PS E' vero che Zurlini ebbe una infelice relazione sentimentale, che lo rattristò molto ; quasi come quella che ebbe Pavese?
    PS Che bel film " Estate violenta, che splendidi attori

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