Da quando l’Illuminismo ha incominciato a predicare la continua perfettibilità dell’uomo, giungendo al suo corollario inevitabile, che il progresso è il motore della storia e che esso è per sua natura illimitato, l’Occidente – e, al suo rimorchio, un po’ alla volta, il mondo intero – si è avviato per una strada che non può non condurre all’implosione.
Un progresso illimitato è una contraddizione in termini, sia sul piano materiale, sia sul piano spirituale. Sul piano materiale, perché un pianeta dalle risorse limitate non può offrire materia ad esso sufficiente (e una eventuale colonizzazione di altri corpi celesti non farebbe che spostare temporaneamente il problema); sul piano spirituale, perché pretende di spostare sul piano del quantitativo ciò che, per sua natura, non può che essere esclusivamente qualitativo: prima cosa fra tutte, appunto, la qualità della nostra vita, che non si misura in base al P.I.L. o ad altri indicatori economici, anzi non si può misurare affatto.
La libertà, il grande feticcio dei tempi moderni, dopo aver prodotto innumerevoli ecatombi e crudeltà, si è rivelata infine per quel che era: un vuoto simulacro, una parola d’ordine dietro la quale fa capolino la schizofrenia di una ideologia che, per garantire la massima fruizione di essa al maggior numero di persone, giunge al tragico paradosso di toglierne quote sempre più rilevanti ai cittadini, proprio in nome della difesa dell’ordine senza il quale la libertà stessa non può concretamente esistere.
Prima, dunque, si è predicato che la società ad altro non serve che ad assicurare la libertà a tutti, intesa come godimento del maggior numero possibile di diritti; poi, per poter mantenere la promessa, si è introdotta una legislazione sempre più restrittiva della libertà medesima, al fine di tutelarne il godimento, si dice, da parte dei cittadini virtuosi che la rispettano, e contro i cattivi cittadini che ne abusano. Fatto sta che l’erosione della libertà colpisce tutti indiscriminatamente e che le istituzioni coercitive (giudici, tribunali, forze dell’ordine) stanno invadendo, su mandato dei parlamenti democraticamente eletti, spazi sempre più ampi della vita privata dei cittadini, guardati ormai tutti con sospetto dalle autorità, quali possibili sovvertitori dell’ordine costituito.
Il serpente si morde la coda. Si voleva sempre più libertà per godere di sempre maggiori diritti; ma, nello stesso tempo, si pretende sempre più ordine pubblico, perché l’esercizio della libertà sia possibile: il risultato è la tendenza verso una società poliziesca, sul modello del Grande Fratello orwelliano, dove le cose proibite, non solo in ambito pubblico, ma perfino in quello privato o semi-privato (di fatto, in molti casi la distinzione netta è impossibile) diventano talmente numerose, che al comune cittadino diviene praticamente impossibile conoscerne e rispettarne l’elenco completo, trovandosi così perennemente esposto ai rigori della legge.
Questa è una delle aporie della moderna società “democratica”, esemplarmente messe a nudo nel nuovo libro di Luigi Iannone, Il profumo del nichilismo. Viaggio non moralista nello stile del nostro tempo (Chieti, Solfanelli, 2012), preceduto da una ricca presentazione di Alain de Benoist e scandito in quattro agili ma incisivi capitoli che passano in rassegna, con un taglio sociologico che ricorda un po’ gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, gli aspetto più invasivi e allarmanti di questa tarda modernità: «Il paese dei balocchi», «Civili e democratici», «L’insostenibile leggerezza delle idee», «La comunicazione globale».
Il libro è una vera miniera di spunti di riflessione: argomentato con logica stringente, ma anche con ironia e un certo qual humour che ricorda un po’ Cioran, un po’ il Leopardi delle Operette morali, persegue una tesi che non perde mai di vista, pur nella discussione degli aspetti particolari, e che si può riassumere in questa formula: in nome di una tecnologia disumana che avrebbe dovuto portarci il Paradiso in terra, stiamo costruendo volonterosamente, pezzo per pezzo, giorno per giorno, qualche cosa che finirà per somigliare molto, ma molto, all’Inferno.
Così Iannone in un passo particolarmente efficace (pp. 80-82; ma avremmo potuto sceglierne parecchi altri):
«… in una società che si vorrebbe senza rischi e in cui il primato ella ragione dovrebbe sovrastare ogni cosa, la libertà personale è sempre minata da divieti moralizzatori che tentano di influenzare nel profondo il modo di agire e di pensare, palesando una impercettibile ma incombente tendenza totalitaria. […]
Nel 2009, “The Independent” aveva avvertito i turisti inglesi con una frase perentoria: “Se una cosa è divertente, l’Italia ha una legge che lo vieta”. Eppure, proprio perché ideologico, è un declivio di portata mondiale. Quasi tutte le città occidentali vanno infatti dietro un modello leggibile e lo perseguono con tenacia, perennemente insoddisfatte del livello di ordine sociale raggiunto, e quindi facilitano obblighi e divieti.
Quando anche New York, che ancor oggi nell’immaginario collettivo funge da terra promessa delle libertà, diventa – come ci ricorda Marcello Foa – il ricettacolo di tutti i divieto possibili, allora si palesa cin tutta la sua forza lo snodo cruciale delle tesi che ho fin qui sostenuto: proprio in questa città si passati dalla TOLLERANZA ZERO, che aveva delle sue precipue motivazioni di ordine pubblico e di decoro urbano, alla continua erosione di quote di libertà in cambio di sicurezza.
Proposte in apparenza strambe e in molti casi inapplicabili (il divieto di fumo nei parchi ma esteso alle spiagge; l’idea, davvero peregrina, di vietare il sale nelle pietanze dei ristoranti; di ascoltare gli iPod durante la maratona, ma un senatore aveva chiesto di estendere il divieto ai pedoni newyorchesi per tutto l’anno; di bere bibite troppo gasate; di baciare la ragazza in strada, di sbattere la scopa anche su un cortile interno ad un palazzo, e così via) possono farci gettare uno sguardo lungimirante sulle regole del gioco, su quelle che si stanno preparando per il futuro e sule finalità che alimentano percorsi solo apparentemente privi di logica.
Ora, al di là dell’ironia che per fortuna ancora marca il confine fra lecito e surreale e fa apparire tutto ciò meno invadente di quanto in effetti sia, sembra chiaro che le sanzioni possono rappresentare un deterrente efficace per regolare i confini del vivere civile e la loro legittimità un cardine della convivenza da cui non possiamo prescindere. Ciò che però preoccupa non è la ricerca disperata dell’ordine ma l’intento censore, soprattutto quando ostentato come valore dominante e all’interno del quale i divieti sono solo la precondizione, la parte più superficiale di una battaglia della restrizione delle libertà individuali che si gioca su più campi.
Ecco perché deve farsi largo la convinzione che il più orribile dei fantasmi potrebbe impadronirsi del nostro tempo. E cioè, una generalizzata tendenza alla perfezione che si caratterizza per le grandi opportunità economiche e sociali offerte dalla competizione globale e, contemporaneamente, una non percezione del moltiplicarsi delle limitazioni e dei divieti. Insomma, il delirio delle libertà».
Ed era inevitabile che così avvenisse, viste le premesse.
L’ideologia del progresso illimitato porta al conformismo di massa e, a sua volta, il conformismo di massa porta all’individualismo di massa; per reagire ai cui effetti distruttivi non resta che innalzare un idolo all’Ordine pubblico, delegandolo a fare da super-guardiano dei cittadini, nei quali non si è voluto, saputo o potuto gettare nemmeno un seme di spirito critico individuale, unica radice del senso di responsabilità che rappresenta la vera garanzia del vivere civile.
Abbiamo eliminato i doveri dal nostro codice etico; anzi, abbiamo gettato via l’etica, considerata, al pari della metafisica, una anticaglia del passato; abbiamo creduto che, per garantire i diritti di tutti, fosse sufficiente stabilire una società perfettamente ordinata. Ora ci stiamo accorgendo che l’ordine presuppone il senso del dovere e non solo la coscienza dei propri diritti; ma, invece di comprendere l’errore commesso e tornare a parlare dei doveri, consumisti fino all’ultimo, stiamo preferendo affidarci al “deus ex machina” della legge, che ci salverà dall’anarchia e farà rigare dritto anche i soggetti meno propensi al bene comune.
Insomma: se gli uomini non vogliono diventare perfetti con le buone, allora bisognerà renderli tali con le cattive, magari costringendoli sul letto di Procuste; perché è certo che non ci si può accontentare di niente di meno della perfezione. Infatti, una volta tolta di mezzo la scomoda, ingombrante figura di un Dio che tiene l’uomo in un perpetuo stato di minorità e che gli proibisce di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del Bene e del Male, a chi dare la colpa del fatto che il Paradiso in terra non sia stato ancora realizzato seguendo i dettami della Ragione?
Rimane, in mezzo ai fumi dell’individualismo di massa, con tutti i suoi miti e i suoi discutibili riti, una diffusa carenza di senso del bene comune: questo è il problema più urgente che la nostra società dovrebbe affrontare, prima ancora della crisi economica che ci attanaglia: perché questa nasce da quello, e non viceversa.
E tuttavia, da dove potrebbe mai scaturire il senso del bene comune, se l’ideologia dominante non ha fatto altro che battere e ribattere sul tasto dei diritti privati, della libertà privata, dell’edonismo individuale? Se non ha fatto altro che insegnare che la società esiste per garantire al singolo individuo il massimo della libertà possibile, del profitto possibile, della felicità possibile?
Si raccoglie quel che si semina…
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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
vate
Vi è un bel laghetto formatosi in un cava dimessa dove vige il divieto di balneazione, non perché l'acqua sia inquinata, ma perché è privo di bagnino. Questo fa capire che vi sono ancora dei vincoli privatistici, ma quand'anche così fosse ciò che non si riesce a capire è cosa sia rimasto al mondo di pubblico ed ancor meno cosa significhi pubblico.
Da un po' di anni nel veneto è vietato accendere il falò la notte dell'epifania quando manca la presenza dei vigili del fuoco. Molti borghi hanno dovuto rinunciare a quello che rimaneva di una tradizione più che millenaria.
Il divieto di fare una cosa piacevole in un luogo dove non si disturba nessuno per una demagogia di prevenzione che sente l'obbligo di tutelare quei cittadini che potrebbero annegare o provocare terribili incendi, è tristemente ridicola. Fatto sta che in tali casi si denota un attentato gratuito a quel poco che resta della libertà dei singoli, imponendo delle regole sproporzionate prima di tutto perché non tengono minimamente conto (o forse proprio perché ne tengono conto) di cosa sia la libertà.
Immergersi nell'acqua fresca e pulita in luoghi mantenutesi abbastanza naturali, consente un rapporto con l'elemento acqua insostituibile per l'attualizzazione dell'esperienza naturalistica vissuta come continuità con l'ambiente, che sprigiona il senso della libertà in quanto essendo noi stessi elementati, conoscendo gli elementi conosciamo noi stessi.
Ancor peggio quando ci si accorge della sistematicità nel sopprimere tutto quello che, seppur residuale, poteva indicare la tradizione, come appunto il ritrovarsi attorno al fuoco allo scadere del vecchio anno, quasi ipnotizzati dalle sue fiamme che lanciano nel cielo la volontà delle comunità a dar man forte alla fatica del sole a sopraffare le tenebre e vincere l'inverno. Una festa quindi rivolta all'identità e solidarietà tra cosmo ed individuo che lo assume in se.
La limitazione a certe cose, per quanto possano aver perduto la loro potenza, è un sottrarre spazio al piacevole in quanto l'effetto edonistico è pur sempre pedagogico; un diniego all'esperienza della consustanzialità tra essere ed ambiente. Così negando le opportunità di conoscersi nei modi più semplici e naturali, si nega la libertà di essere, cioè la libertà per definizione.
Ma quello che è più penoso è che non si ha più la capacità di reagire alla sottrazione della libertà, al massimo scatta una reazione verbale ad incrementare le innumerevoli denunce che rimangono li, quasi vi fosse una comune rassegnazione, un accordo masochistico a subire l'annullamento di se stessi come un fatto meno importante dell'effimera sopravvivenza del cadavere di se stessi.
Probabilmente siamo talmente addomesticati a questo che certe volte quasi ci scandalizziamo verso chi è stato capace di un gesto assoluto, di dare tutto ciò che umanamente possedeva per non perdere nulla della sua libertà. Troppo spesso non si tiene conto che essa coincide con la stessa possibilità di essere, ed ogni volta che rinunciamo anche soltanto ad una minima parte, andiamo a togliere valore alla realtà di noi stessi.
augusto
L'eccesso di regole ed il loro uso intransigente nasce da uno stato ladro che sovraintende un paese di disonesti.
Si pensa di affidare alla norma un potere di mascheramento del malaffare.
Si confonde la giustizia con un assetto normativo stupido ed aggressivo.
Negli altri paesi si interpreta con imparzialita' in accordo alla situazione, in Italia dato che non esiste moralita' e vera autorita', si applicano le disposizioni in modo becero.
Noemi
Ci stanno uccidendo con la motivazione di fare il nostro bene. Ci hanno spinto in una realtà illusoria, intrattenendoci con giochi da ragazzi. Doppio il fine: alimentare degli ego fittizi e voraci a vantaggio del mercato; svolgere in pace i loro affari. Il rapporto con l’autorità – e non credo solo in Italia – è quello fra adulto e bambino. Ora, dopo aver annichilito le coscienze, ci dicono che se non righeremo dritto faremo una brutta fine e, per renderla già visibile, ci hanno messo le orecchie d’asino. In verità, già da tempo siamo stati trasformati in Lucignolo, in sudditi-asini.
Fulvio
Forse in fondo ha ragione l'agente Smith…siamo diventati un virus per questo Pianeta…chissà però quale sarà la cura..se uomini che ritornino a una dimensione più naturale oppure una veloce estinzione…