Guareschi, anarchico sentimentale

Guareschi se ne andò la mattina di un giorno balordo. Era un lunedì d’estate rinfrescato da una comune brezza padana. L’Italia istituzionale dibatteva sul Sifar e sul generale De Lorenzo, i giovani stuzzicavano le “masse” e i giornalisti eleggevano la loro miss estiva con tanto di corona. Gioie effimere ed eterni dolori di un Paese moderno. Tutto apparentemente normale dunque tranne che lui, adesso, non c’era più. Lui, Giovannino, aveva vissuto da anarchico della penna anzi da anarchico “sentimentale”, come si andava scrivendo. Anticomunista, monarchico e cristiano più nell’animo che nel cervello.

Era stato un uomo onesto e genuino (ma mai buonista). Una razza in via d’estinzione, preziosa come un canto inedito del Divino poeta. Morì per infarto il 22 luglio del 1968 ad appena sessant’anni, nella sua villetta di Cervia. Malato da anni, fu quella l’ultima occasione in cui il cuore lo tradì.

Aveva cominciato al Corriere emiliano. Umorista per istinto, per sette anni fu redattore-capo del milanese Bertoldo del “commenda” Angelo Rizzoli. Con lui era diventato l’artista che tutti conosciamo. Poi la fine del Fascismo. Tenente d’artiglieria, l’8 settembre fu rinchiuso in un lager tedesco. Non volle farsi “repubblichino” e quando tornò dopo due anni era tutt’ossa. Nel dopoguerra di nuovo con Rizzoli e Giovanni Mosca suo compagno al Bertoldo. Nasce il Candido e nascono le storielle di Peppone e Don Camillo. Giovannino descrive col genio della semplicità le atmosfere della guerra fredda.

Il tema lo conoscono perfino nel Sudafrica dei mondiali di calcio: le zuffe fra un prete e un sindaco falce e martello; sullo sfondo la vita quotidiana di un paesino della Bassa, l’intima religiosissima coscienza di Don Camillo e, come ha scritto Claudio Magris sul Corsera, una «straordinaria carica umana» che nella finzione letteraria finirà per “contaminare” anche il movimento comunista italiano («i suoi valori, la sua schietta vena popolare, che poi si è perduta per tutti e di cui il “popolo” di oggi è una esangue e stupida parodia»).

“Furibondo antimarxista” così però amava definirsi (e furibondo lo era a volte, anche nella vita quotidiana), qualcuno l’ha dimenticato. Sul Candido si era distinto con memorabili vignette e didascalie. Celebri quelle pubblicate nell’imminenza delle elezioni del 1948 durante le quali aveva sposato bon gré mal gré la linea della Dc.

Con la sconfitta del Fronte popolare il più sembrava fatto. La sinistra detestava i modi di questo figlio della “destra” italiana e tutte – o quasi tutte – le sue storiche invenzioni (come i militanti del Pci “trinariciuti”). Facile per uno che avrebbe scritto: «Il comunismo … una volta esaurita la sua iniziale carica di odio contro Dio e contro gli uomini, si comporta come il colossale macigno che, precipitando da una vetta, travolge e sgretola tutto al suo passaggio e poi giace inerte nella valle opprimendo la terra col suo immane peso».

Cittadino di un’Italia sempre più indesiderata e impensierito dallo sposalizio fra Cristo e Marx, Giovannino di Fontanelle aveva presto cambiato rotta. Le “armi” non le aveva mai abbandonate. Si avviò così, dritto per dritto, allo scontro con De Gasperi ma cominciò ad andar male. Nacque una storia circa fantomatiche lettere inviate dal leader Dc agli alleati: in piena guerra civile si chiedeva il bombardamento dell’acquedotto della Capitale. Era un falso (troppe incongruenze lo ha spiegato anche Mario Cervi, sul Giornale, rispondendo a un lettore), scattò la querela e Guareschi venne condannato per diffamazione. Appena quattro anni prima ne aveva subìto un’altra di condanna, stavolta per responsabilità oggettiva. Dal maggio del 1954 farà 400 giorni di carcere a San Francesco di Parma. Un postaccio. Convinto di aver ragione non chiederà né la revisione del processo né la grazia. È l’inizio della fine.

Dell’affaire De Gasperi-Guareschi (uno degli “atti” finali dello statista democristiano) non si è mai smesso di parlare. Anzi di far congetture. Per alcuni, non per molti, le lettere come parte integrante del dossier contenente la corrispondenza fra Mussolini e Churchill risultano autentiche (due missive del ’44 pubblicate anni dopo sul Candido). Un carteggio che per interessi strategici doveva rimanere segreto. Ad ogni costo. In quel ’53 Guareschi avrebbe messo le mani su uno dei primi grandi misteri d’Italia, su qualcosa di molto più grande di lui insomma. 1961, l’Italia è lì lì per essere baciata dalle “fate” del centrosinistra. Per aver pestato i piedi al potere il Candido chiuderà baracca e burattini. Il “commenda” manda tutti a casa prendendo a pretesto le dimissioni di Guareschi. Peraltro Giovannino non dirige più il periodico e dal ’57 ne è “solo” la firma di punta.

Tradotto all’estero meglio e più dei profeti dell’Intellettualità peninsulare (“I” maiuscola), Guareschi è uno degli italiani più noti dell’intero dopoguerra, se non di più. Come Enzo Ferrari e Pavarotti, figli di una terra prodiga di ingegni. Frainteso nell’era del facile inciucio e del buonismo di massa, è stato oggetto di una discutibile ri-scoperta. La solita sinistra auto-destalinizzatasi alla ricerca del buon tempo perduto? Sì certo. Fra i nuovi guareschiani c’è però chi ne usa la popolarità per guadagnarsi gli spiccioli, e chi fa lo gnorri dimentico dell’isolamento nel quale Giovannino era caduto nei Sessanta. Allora dirsi uomo di destra (monarchico poi…) era quanto di peggio potesse accadere. D’accordo per quelli de l’Unità ma perfino i “suoi” cristiani l’avevano abbandonato. Pagò tutto non avendo in Patria riconoscimenti ufficiali. Provate a rintracciarne il nome nelle antologie della letteratura italiana: rimarrete parecchio delusi.

Ma deluso, c’è da crederlo, lo era lui più di tutti. Già dal ’52 aveva preferito la tranquillità della campagna di Roncole di Busseto con moglie e figli.

Gli ultimi anni non furono felici. L’Italia che conta non lo rispettava. Era fuori posto in un Paese ove la severità aveva la meglio sul riso («ritengo che l’Italia sia il Paese più negato all’umorismo e sarebbe bene piantare a ogni posto di frontiera il cartello “proibito ridere”» – 1967). Guareschi era stanco e per un po’ di tempo si trovò disoccupato. Dal 1963 fino agli ultimi giorni di vita Il Borghese – periodico conservatore per eccellenza – diede spazio alla sua voglia di libertà e al suo affilato disincanto («Il fatto che io abbia accettato di comporre la seconda parte di un film della cui prima parte è autore PP Pasolini non significa che anche io abbia aperto a sinistra. Come non significa che PP Pasolini abbia aperto a destra. L’Apertura di PP Pasolini è rimasta quella che era» – 1963). Poi arriverà anche La Notte di Nino Nutrizio. Il Candido rinascerà tre giorni dopo il funerale di Giovannino. Giorgio Pisanò, che lo dirigerà fino al 1992, aveva già offerto a lui la direzione del giornale.

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Tratto da Linea del 3 luglio 2010.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

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