Giarabub di Goffredo Alessandrini

La battaglia di Giarabub è un episodio della seconda guerra mondiale che le nuove generazioni, probabilmente, non hanno mai sentito nominare; ma che, in un Paese normale, dovrebbe essere conosciuto da tutti e insegnato nelle scuole; non per una becera forma di nazionalismo o di militarismo, ma semplicemente per rispetto della verità storica e per rispetto di quei soldati che caddero eroicamente nel compimento del proprio dovere, strappando parole di ammirazione allo stesso nemico.

Situata nel deserto della Cirenaica, presso il confine con l’Egitto, a circa 200 km. dalla costa del Mare Mediterraneo, l’oasi di Giarabub costituiva un punto strategico di notevole importanza, difeso da poco più di 2.000 soldati fra Italiani e ascari libici, al comando del colonnello Salvatore Castagna.

Dopo che, partendo da Sidi el Barrani, gli Inglesi ebbero lanciato l’offensiva che travolse le nostre difese e respinse il generale Graziani fino alla Tripolitania, la guarnigione di Giarabub, che disponeva solo di pochi pezzi d’artiglieria di piccolo calibro, si trovò isolata, a partire dal settembre del 1940.

All’inizio di gennaio gli Inglesi gettarono centinaia di volantini dagli aerei, invitando il presidio alla resa; ma, non avendo ottenuto quanto sperato, iniziarono una serie di durissimi attacchi, che vennero tutti respinti, e che si protrassero fino al 21 marzo 1941, allorché, sopraffatti dal numero e a corto di armi e munizioni, gli ultimi difensori vennero neutralizzati, respingendo fino all’ultimo le offerte di resa.

Il colonnello Castagna, ferito, venne fatto prigioniero; le perdite erano state alte da entrambe le parti, a testimonianza dell’accanimento con cui era stata condotta la battaglia, spesso con le bombe a mano e all’arma bianca.

A questo eroico episodio, riportato nel nostro bollettino di guerra numero 288 del 22 marzo 1941, il regista Goffredo Alessandrini decise di ispirarsi per girare un film destinato a ricordare il sacrificio di quei valorosi. Nacque così Giarabub, che fu realizzato nel 1942, ma che gli Italiani ebbero l’occasione di vedere per poco; sopraggiunta la sconfitta, ragioni politiche consigliarono – a torto, crediamo – di non far circolare troppo questa imbarazzante pellicola, che esaltava la guerra voluta dal fascismo e presentava gli Alleati come i nemici e non come i liberatori, secondo la vulgata resistenziale e democratica.

Eppure era un bel film, e Goffredo Alessandrini era stato un regista di tutto rispetto; e, quand’anche si vogliano prendere per buone le ragioni che suggerirono una larvata censura della pellicola dopo il 1945 (ma adesso, a sessantaquattro anni dalla fine del conflitto, ci domandiamo perché sia ancora tanto difficile vederla, almeno su qualche rete televisiva), resta il fatto che ragioni puramente artistiche consiglierebbero di non tenere nascosta un’opera che fa onore alla miglior tradizione del nostro cinema.

Goffredo Alessandrini, nato a Il Cairo nel 1904 – figlio di un ingegnere italiano che dirigeva i lavori della diga di Assuan – e morto a Roma nel 1978, aveva lavorato come assistente del regista Alessandro Blasetti; e aveva poi esordito, a sua volta, nella regia, con il film La segretaria privata, del 1931, remake di una commedia tedesca, che aveva ottenuto un vasto successo di pubblico.

In seguito aveva firmato una serie di film importanti, tutti bene accolti dagli spettatori: Don Bosco (1935); Cavalleria (1936, da molti ritenuto la sua opera migliore); Luciano Serra pilota (1938); Abuna Messias (1939); ed, infine, il famosissimo Noi vivi – Addio, Kira (1942, dal romanzo di Ayn Rand): negli ultimi dei quali, come si può capire già dai titoli, aveva pienamente sposato l’ideologia del regime fascista e si era adoperato per propagandarla, senza per questo scadere ad un livello artistico deteriore.

Dopo la guerra, come è ovvio, Alessandrini farà molta fatica e reinserirsi nel mondo del cinema; e tuttavia riuscirà ancora a girare due film di ottimo livello: L’Ebreo errante (1948) e Camicie rosse (1952); in quest’ultimo chiamerà a interpretare la parte di Anita Garibaldi l’attrice Anna Magnani, che fu, per un breve periodo, sua moglie.

Nel film Giarabub (85 minuti in bianco e nero) Alessandrini aveva chiamato a recitare un gruppo di attori di notevole bravura ed esperienza: Carlo Ninchi (nel ruolo del comandante Castagna), Mario Ferrari, Doris Duranti (nella parte di una prostituta che non si sa se sia un personaggio storico o di fantasia), Carlo Romano, Annibale Bertone, Vittorio Duse, Carlo Duse, Emilio Cigoli, Erminio Spalla. C’è perfino un giovane Alberto Sordi che interpreta…il tenente Sordi. Un secondo personaggio femminile, una prostituta interpretata da Diana Torrieri, è stata poi soppresso in fase di montaggio, per ragioni che non risultano ben chiare (se queste ragioni erano di tipo morale, perché lasciare la Duranti, in un ruolo del tutto analogo?).

Anche la sceneggiatura era stata il frutto della collaborazione di una équipe altamente specializzata, formata da scrittori e giornalisti del calibro di Oreste Biancoli, Alberto Consiglio, Gherardo Gherardi, Asvero Gravelli, Gian Gaspare Napolitano e Orio Vergani.

Dire che nel film non sia presente, e in dosi massicce, l’elemento propagandistico, sarebbe semplicemente ridicolo: siamo nel 1942, in piena guerra; anzi, siamo quasi alla vigilia del crollo del regime e della nazione. Ma è più importante il fatto che, nonostante la presenza di tale elemento, il film si regge benissimo sulle sue gambe, e per ragioni squisitamente artistiche, che nulla hanno a che fare con la politica; e che, se talvolta sconfina nella retorica, si tratta pur sempre di retorica realistica, nel senso che molti episodi riportati nel film sono realmente accaduti – come, ad esempio, l’alzata del tricolore italiano per tutta risposta alle offerte di resa degli Inglesi -, anche se oggi, alla nostra smaliziata sensibilità post-moderna, possono risultare un po’ incongrui e, per certi aspetti, addirittura quasi incomprensibili.

Sono molti i pregi artistici del film, dalla recitazione alla fotografia; ma, fra tutti, uno spicca in modo particolare: il formidabile senso dell’azione, che – come è stato osservato – ricorda, e quasi certamente non per caso, il miglior cinema «western», con il classico fortino nel deserto assediato dalle orde dei Pellirosse e difeso eroicamente, fino all’ultimo uomo, dalla guarnigione votata al sacrificio.

Così pure, è stato osservato – da Giuseppe De Santis, per esempio – che in Giarabub si respira quella atmosfera di cosa vera che è propria dei documentari di guerra; e non si tratta di un riconoscimento da poco, visto che, anzi, la cosa più difficile, in un film di guerra, è proprio quella di riuscire a creare quel clima realistico, capace di restituire situazioni e personaggi alla dimensione della storia, piuttosto che proiettarli in quello della imitazione.

La battaglia decisiva per il possesso dell’Oasi di Giarabub è stata così ricostruita dal suo protagonista, il colonnello Salvatore Castagna (in: La difesa di Giarabub, Milano, Longanesi & C., 1967, pp. 202-14):

«21 marzo [1941]. ll ghibli, verso le quattro, era aumentato. Destai i militari del rincalzo di settore, ch’erano assopiti, e feci chiamare il tenente Cribari e il sottotenente Rossett, che avevano comandato i disciolti reparti libici ed erano rimasti alle mie dirette dipendenze, perché eseguissero a turno il servizio dei posti di sbarramento e delle colonne celeri. Intanto, accompagnato dal mio attendente caporale libico Califa, inizia la ispezione dei posti avanzati del caposaldo uno.

Verso le cinque, improvvisamente, contro il caposaldo si scatenò un uragano di fuoco. Le granate provenivano da sud, sud-est e nord-est, e l’intero caposaldo era investito. Uomini e armi in postazione furono colpiti. Durante quarantacinque minuti le postazioni furono bersagliate dal tiro di non meno di quaranta cannoni da 88/27, che spararono oltre diecimila colpi, e da quello di numerose bocche da fuoco di piccolo calibro e mortai da 81.

I nostri pochi cannoni da 77/28 e da 47/32 rimasti efficienti risposero, colpendo le truppe pronte sulla base di partenza.

Attendevo, sperando in una pausa, ma a un certo punto la sempre crescente intensità del fuco non mi lasciò alcun dubbio sull’imminente attacco nemico. Ritornai al posto di comando. Chiamai al telefono, ma tutte le linee, ad eccezione di quella del capitano Caccamo, comandante del caposaldo numero uno, erano state interrotte dal tiro. Inviai perciò presso ogni comandante dei portaordini, con l’ordine che si tenessero pronti. Incaricai i tenenti Cribari e Rossett di preparare il rincalzo.

Telefonai al capitano Caccamo e gli dissi che la minore intensità di fuoco contro la “ridotta vecchia” mi faceva supporre che in quel settore vi fossero già truppe nemiche avanzate. Ritenevo, perciò, che lo sforzo principale sarebbe stato effettuato in quella direzione.

Alle cinque e quarantacinque, quando avevo appena finito di dare gli ordini, il tiro venne allungato contro i capisaldi numero due e numero quattro. Subito dopo, un grosso reparto riuscì a rompere tra i capisaldi numero uno e numero due, e si portò decisamente sul rovescio del caposaldo numero uno (nei pressi del comando di settore). Era ancora un po’ buio quando gli assalitori, gridando come forsennati, aprirono il fuoco contro il posto di comando, e dopo una scarica d bombe a mano, si lanciarono all’assalto.

Le nostre mitragliatrici investirono il reparto nemico, obbligandolo ad arrestarsi. Lanciai al contrattacco il sottotenente Napoleone Di Vincenzo, comandante di uno dei plotoni di rincalzo, che riuscì a respingere l’avversario. Nuovi attacchi in quella direzione furono sempre stroncati. Il nemico attaccò in forze contemporaneamente l’intero caposaldo numero uno, da sud e da sud-ovest.

Come avevo già previsto, bisognava difendersi da tutti i lati.

Fermi ai loro posti, i difensori opposero salda resistenza nonostante i frequenti inceppamenti delle armi automatiche, causati dalla sabbia del ghibli, che bloccava gli otturatori.

Anche la visibilità era sempre più limitata.

Le spinte nemiche, appoggiate dal fuoco di tutte le armi, che tenevano le nostre posizioni sotto una continua pioggia di proiettili, si susseguirono senza sosta. I cannoni da 47, rimasti efficienti, sparavano alle minime distanze tra i varchi aperti nel reticolato.

Gli aeroplani, volando a bassa quota, bombardavano e mitragliavano.

Alla fine il nemico riuscì ad infiltrarsi anche tra i capisaldi numero uno e numero quattro; ma l’intervento di una parte del rincalzo lo fermò.

Verso le sette e trenta la lotta si accese anche davanti ai capisaldi due e quattro. Ad eccezione del caposaldo numero tre, tutta la rimanente fronte della difesa era premuta dalle forze nemiche che tentavano di rompere il cerchio. Ma diventò più violenta nel caposaldo numero uno. Verso le otto, il nemico irruppe in parecchi punti dello stesso caposaldo. Occorreva impedire che esso dilagasse.

Due plotoni del rincalzo di settore, ho già detto, erano impiegati, uno per impedire che fossero presi alle spalle i difensori del caposaldo numero uno, l’altro per stroncare il tentativo di irruzione tra i capisaldi uno e quattro. Questi reparti, con ripetuti assalti, erano riusciti allo scopo.

Avevo perciò alla mano solamente i libici. Li lanciai contro i reparti penetrati da sud-est, e che erano giunti al comando tattico di settore, dove non c’era nessuno, perché anche i portaordini erano stati impiegati sul rovescio della posizione.

Ormai tutto era gettato nella lotta. I difensori del caposaldo, stretti da vicino e accerchiati nelle loro postazioni, si opposero fino a che ebbero esaurito le bombe a mano. Si difesero poi con le baionette.

Gli altri capisaldi cercarono di dare il migliore appoggio con il loro fuoco, fino a quando anch’essi non furono investiti direttamente.

Mentre il combattimento continuava nel caposaldo numero uno, nuove forze attaccavano il numero due. Reparti, nemici, appoggiati dall’artiglieria, attraversando a sbalzi il vecchio campo d’aviazione (lato Fredga), si portarono a contatto di quest’ultimo caposaldo.

Vennero fermati dal tiro delle nostre armi che, malgrado i continui inceppamenti, riuscivano a far partire delle raffiche.

Il tenente Migliorini dalla Gara del Diavolo prendeva d’infilata, con la sua mitragliera da 20, le truppe annidatesi nel fosso anticarro. Sebbene minacciato da vicino, e battuto dall’artiglieria, continuò sino alla fine a tenere sotto il tiro il nemico, infliggendogli gravi perdite.

I cannoni da 47 e le mitragliere da 20 del caposaldo numero due, rispettivamente al comando dei tenenti Bracci e Dragotti, non soltanto bloccarono il nemico, ma intervennero a favore del caposaldo numero uno.

Anche i posti di sbarramento di Garet el Barud e di Garet el Cuscia erano stati attaccati all’alba, dopo forti concentramenti di artiglieria.

Il posto di Garet el Barud respinse più volte l’avversario, finché una compagnia rinforzata da autoblindo riuscì a penetrare. La lotta era durata alcune ore.

Cadde da eroe il sergente maggiore Burrasca. Altri soldati trovarono la morte in quel posto, che in dieci mesi di lotta il nemico non era riuscito a superare. Anche il posto di Garet el Cuscia, dopo una lunga resistenza, fu sopraffatto.

Alle nove e trenta, sebbene il nemico fosse riuscito a occupare la ridotta vecchia e le alture più elevate del caposaldo numero uno, installandovi mortai da 81, pezzi di piccolo calibro e cannoni contraerei, la lotta continuava, ed era sempre più accesa.

Le infiltrazioni nemiche tra le varie postazioni avevano spezzato in più punti la linea di resistenza, obbligando i difensori a combattere isolatamente.

Le mitragliatrici, sempre a causa del ghibli, non funzionavano più.

Esaurite le bombe a mano, non rimasero che i fucili e le baionette.

Le perdite erano gravi da ambo le parti; ma mentre noi non potevamo colmare i vuoti, il nemico continuava a gettare nella mischia truppe fresche.

Il capitano Perricone, comandante della decima GAF, lottando in mezzo ai propri soldati, fu colpito a morte.
Il sottotenente Donati, della stessa compagnia, pur essendo da un pezzo ricoverato all’ospedaletto da campo, per malattia, aveva voluto partecipare al combattimento, ed era rientrato il giorno precedente al suo reparto. Attaccato, lui pure oppose, con i pochi uomini al suo comando, tenace resistenza. Stretto sempre più da vicino, passò al contrassalto, finché in un disperato corpo a corpo morì.

Il plotone del tenente Mattia (decima GAF), dislocato sul tratto sud-ovest del caposaldo, fu investito ripetutamente. I fanti, dopo aver reagito col fuoco dei propri fucili, passavano al contrassalto, allargando la morsa. In un successivo contrassalto il tenente Mattia fu pure ucciso.

Nei pressi della ridotta vecchia erano il plotone del tenente Morello, già dei disciolti reparti libici, ed in servizio presso la decima GAF, e il plotone della terza GAF, precedentemente a disposizione del comando di settore quale rincalzo.

Questi due reparti respinsero valorosamente tutti gli attacchi, mentre li appoggiava la mitragliera da 20 del sergente Osso, della ventisettesima batteria, ch’era in posizione avanzata tra i capisaldi uno e due. Gli uomini del bravo sottufficiale furono i primi ad essere investiti. Si difesero prima con le bombe a mano, poi con le baionette. Nessuno degli artiglieri rimase illeso. Il caporal maggiore Mancuso, dopo aver consumato tutte le munizioni, guidò i propri uomini al contrassalto e cadde in un corpo a corpo. Anche il sergente osso fu ferito gravemente. Dopo di che, il nemico oltrepassò la posizione.

Il tenente Morello, completamente accerchiato, passò più volte al contrassalto. Fu visto incitare i suoi soldati, ma a un certo punto scomparve, e nessuno seppe più nulla di lui. Dopo il combattimento non fu possibile fare ricerche. Certamente egli ora riposa tra le sabbie del caposaldo numero uno, in mezzo ai suoi soldati.

Anche il plotone della terza GAF si difese eroicamente. Caddero alcuni soldati, e il sergente comandante del plotone fu ferito.

Superate le posizioni avanzate, il nemico irruppe nell’interno del caposaldo numero uno, investendo le postazioni dei cannoni da 47, al comando del tenente Ennio Goduti e del sergente Binda Di Falco. I cannoni, che in un primo tempo avevano agito in cooperazione con i fanti investendo le ondate nemiche, furono poi costretti a far fuoco alle minime distanze, finché ebbero esaurito le munizioni. Dopo di che i soldati si difesero anch’essi con le bombe a mano e con le baionette, lanciandosi ripetutamente al contrassalto. Tutti i soldati del tenente Goduti furono colpiti. L’ufficiale fu gravemente ferito da schegge di bombe a mano. Si risollevò e si lanciò ancora sul nemico, trascinando i suoi soldati, finché fu nuovamente colpito e cadde da eroe.

I sergenti Di Falco e Di Giovanni, dopo aver ugualmente tenuto a distanza il nemico con il pezzo da 47, e più volte contrattaccato, in un corpo a corpo, colpiti da baionette furono uccisi. Raggiunto l’interno del caposaldo, il nemico investì il posto di medicazione. Il sottotenente Della Rosa ed il suo aiutante di sanità ed il suo aiutante resistettero e alla fine furono pure uccisi.

Non meno aspra fu la lotta sul tratto sud-sud-est dello stesso caposaldo, nelle posizioni tenute dal tenente Aderito Fornasier, già dei disciolti reparti libici ed in servizio presso la decima GAF quale comandante di plotone. Pressato sempre più da vicino dal nemico continuò a lottare, lanciandosi con i suoi uomini al contrassalto, ma venne sopraffatto. Neanche di lui si ebbero più notizie. Senza dubbio egli pure riposa in mezzo ai suoi soldati.

Tra i capisaldi uno e quattro dove era impegnato fin dall’alba una parte del rincalzo, il nemico continuò a premere incessantemente. Sulla antistante posizione, mitragliatrici avversarie battevano d’infilata le postazioni per armi e le trincee occupate dallo stesso rincalzo. Il sergente maggiore Carboni, sottufficiale di contabilità della seconda automitragliatrici, fu ferito gravemente, poi morì.

Alle dieci, i tre quarti del caposaldo numero uno erano in mano al nemico. Rimaneva ancora in nostro possesso il rovescio di tale caposaldo, ch’era difeso da una parte del rincalzo. Io mi trovavo su questa posizione, tra un incessante scroscio di bombe a mano e sotto il tiro mirato de cecchini, che davano la caccia all’uomo. Mortai da 81, messi in postazione sulla ridotta vecchia, colpivano uomini ed armi.

Il nemico aveva ora concentrato tutti i suoi mezzi di fuoco contro questo scoglio, che le forze penetrate nel caposaldo continuavano a investire.

Contro i reparti che agivano alee spalle erano impegnati il sottotenente Di Vincenzo, comandante di un plotone della settima GAF, ed i tenenti Manganaro, Cribari e Rossett, a mia disposizione. Sul lato est erano invece i tenenti Farfaglia, Savino e Messina. Contro le forze penetrate nell’interno del caposaldo operavano i libici.

Il sottotenente Di Vincenzo, respinti numerosi attacchi, si lanciò al contrassalto. Colpito alla testa da una pallottola di fucile e trasportato in un ricovero, poco dopo morì.

Gli altri ufficiali del mio comando trascinarono più volte al contrassalto i pochi nazionali e i libici rimasti illesi, riuscendo ad arginare, in un primo tempo, l’ondata nemica.

Speravo ancora di riuscire a mantenere queste ultime posizioni sino a sera. Avrei preso degli uomini dagli altri capisaldi, e contrattaccato durante la note per rioccupare le posizioni dominanti del caposaldo, ch’erano la chiave della difesa del presidio. Lanciai, perciò, più volte i libici rimasti alle mie dipendenze. Essi rallentarono l’urto nemico, ma malgrado il loro valore, non riuscimmo ad allargare la morsa, che sempre più ci stringeva attorno.

In un assalto venne colpito a morte il mio attendente, caporale libico Califa, che tante prove di valore aveva dato durante tutto il combattimento.

Dalle alture che ci sovrastavano, il nemico colpiva le nostre posizioni con scariche di bombe a mano. Essendo a noi venute a mancare anche le bombe a mano, ci si difendeva con scariche du fucileria e con contrassalti.

Una bomba cadde vicino a me. Il soldato Barbagallo, mio portaordini, che aveva seguito la traiettoria, mi si mise davanti. L’esplosione lo ferì gravemente. Io fui ferito alla testa.

Questo eroico soldato aveva prima partecipato al contrassalto col plotone del sottotenente Di Vincenzo. Era stato lui che, accortosi che l’ufficiale era ferito, l’aveva raccolto, sotto il fuoco, e trasportato nel ricovero, dove era spirato. Poi mi era sempre stato vicino, e aveva preso parte ad altri assalti. Quando si accorse che anch’io ero ferito, mi rivolse parole d’incoraggiamento. Seppi successivamente che, fatto prigioniero, dopo un lungo periodo di permanenza all’ospedale guarì.

Durante tutto il combattimento l’aviazione nemica aveva bombardato e mitragliato da bassa quota. Le nostre mitragliere da 20 reagirono sino a quando ebbero munizioni. Stesi un marconigramma per il comando superiore, riassumendo la situazione. Il libico, offertosi volontariamente per portare il messaggio alla radio fissa della ridotta Marcucci, attraversò il terreno sotto il fuoco mirato dei cecchini. Tuttavia vi riuscì.

La lotta continuò con violenza sino alle undici. Il sergente maggiore libico Brahim fu più volte lanciato al contrassalto con i pochi libici rimasti illesi. Ferito, continuò a combattere.

Nel caposaldo, i pochi uomini ch’erano ancora incolumi continuarono a lottare, finché il nemico penetrò dappertutto, catturando i superstiti. Allora fui catturato anch’io.

I soldati degli altri capisaldi avevano dato fino alla fine il loro appoggio.

Durante il combattimento non fu possibile trasportare i feriti al posto di medicazione, per non sottrarre uomini alla lotta. Essi furono medicati dai compagni, nei vicini ricoveri. Furono ancora medicati dagli ufficiali dopo il combattimento. Molti avevano ferite gravi di baionetta e di schegge di bombe a mano. Successivamente furono inviati dagli inglesi ai loro ospedali da campo.

Alle dieci e quarantacinque apparve un aereo tedesco, che eseguì a bassa quota azioni di mitragliamento.

Seppi poi che l’aereo fu costretto ad atterrare nelle vicinanze dell’oasi, essendo stato colpito dalle armi contraeree installate dal nemico sulla ridotta vecchia.

Lasciando il caposaldo numero uno vidi che il nemico irrompeva negli altri capisaldi, anche da tergo. I nostri, però, si difesero per oltre tre ore, passando spesso al contrassalto, mentre il nemico li batteva d’infilata dalle alture del caposaldo numero uno, che dominavano l’intero settore.

Il tenente Manzella, comandante di una mitragliera da 20, sebbene l’arma fosse continuamente bersagliata, continuò a far fuoco fino a quando non vene sopraffatto.

I cannoni e le mitragliere da 20 ancora in efficienza non avevano più munizioni. Non una bomba a mano era rimasta.

Il ghibli impediva di usare le armi automatiche.

Avrei perciò potuto trattare la resa che mi era stata offerta dopo la mia cattura ed ottenere l’onore delle armi.

Volli, invece, dimostrare ancora una volta al nemico che, malgrado la sua enorme superiorità, doveva pagare a duro prezzo l’ostinato proponimento di sopraffarci.

Tutti i miei dipendenti, nessuno escluso, anche i due civili nazionali che stavano a Giarabub, si comportarono in modo degno di ammirazione.

La bandiera che da dieci mesi sventolava sulla torre della ridotta Marcucci venne abbassata e bruciata al cospetto del nemico, che concentrò le sue ultime raffiche sui soldati che avevano l’incarico di compiere questo estremo gesto.

Da ogni petto uscì un grido: “Viva l’Italia!”.»

Sono pagine eloquenti, ove non c’è posto per la retorica, perché questo è stato uno di quei casi in cui la realtà, la realtà della storia, supera la fantasia di scrittori, pittori o registi.

Se un episodio storico del genere avesse visto come protagonisti dei soldati americani, o inglesi, possiamo star certi che nessuno studente di quelle nazioni lo avrebbe ignorato, perché la cultura ufficiale ne avrebbe fatto uno di quegli episodi che scandiscono le pagine di gloria della propria storia nazionale.

Il pubblico americano, ad esempio, continua a essere bersagliato da sempre nuove rielaborazioni – letterarie, cinematografiche e televisive – della battaglia di Alamo: forse perché fu uno dei pochissimi casi in cui gli Americani dovettero battersi in condizioni di chiara inferiorità, sia in fatto di uomini che di mezzi.

Ma in Italia, quanti ragazzi sanno che cos’è stata la battaglia di Giarabub?

E quanti appassionati della decima musa hanno potuto vedere e apprezzare, nel nostro ingrato Paese dalla memoria corta, il bel film di Goffredo Alessandrini?

È mai possibile che, al contrario, le nostre sale cinematografiche continuino incessantemente a essere inondate da film americani – quelli sì, scopertamente propagandistici, e raramente riusciti sul piano artistico – dedicati alla battaglia aeronavale di Midway, o al «proditorio» attacco di Pearl Harbour (che in realtà gli aggrediti conoscevano in anticipo, ma avevano bisogno del «casus belli») o allo sbarco in Normandia, o alla battaglia delle Ardenne, con i soliti soldati tedeschi e giapponesi cattivissimi?

E tuttavia, non vogliamo fare un discorso ideologico, ma artistico.

Giarabub è un bel film, e per questo merita di essere visto e conosciuto.

E quanti non lo vorrebbero ricordare, quelli sì, sono mossi da un pregiudizio ideologico; un pregiudizio meschino, come se, a quasi settant’anni da quelle vicende storiche, non fosse ancora possibile confrontarvisi con animo rasserenato ed equanime.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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