Delio Cantimori nacque il 30 agosto 1904 nel paese di Russi in provincia di Ravenna dal padre Carlo e dalla madre Silvia Mazzini.
Il padre, Carlo, fu un intellettuale di spicco del Repubblicanesimo romagnolo, e poi insegnante e preside di liceo che faceva proprio il corpus ideologico mazziniano, per aderire in seguito alle idee dannunziane, che poi trovarono la loro massima espressione, a livello d’azione politica, con l’impresa di Fiume. L’influsso delle idee di stampo repubblicano del padre che erano per lo più progressiste e socialiste fu fondamentale nella formazione sia politica e poi storica del giovane Carlo e si intrecceranno lungo tutta la sua vita.
Oltre all’influsso paterno, ad esercitare una prima influenza sul futuro intellettuale sono gli influssi dati dall’ambiente liceale, dall’anno 1919 al 1924, del Ginnasio e poi del Liceo Classico di Ravenna. Per concludere poi gli studi nel Liceo-ginnasio Giovanni Battista Morgagni di Forlì ove ottenne la maturità classica nel 1924 per essere ammesso, sempre nello stesso anno, alla Normale Superiore di Pisa. In questi anni di formazione pisana egli si avvicinerà al fascismo.
Cantimori vedeva il fascismo come un movimento rivoluzionario capace di andare oltre la reazione, specialmente quella di impronta cattolica, e il comunismo d’ispirazione marxista. In questo periodo della Normale di Pisa, egli collaborò al Mensile “Vita Nova” diretto da Giuseppe Saitta, allievo di Gentile, e fondato da Leandro Arpinati. Il fascismo veniva visto come uno Stato autoritario anti-capitalista, quindi di fatto rivoluzionario, nonché come coronamento della vicenda risorgimentale italiana, come del resto era “di moda” fra molti intellettuali e storici dell’epoca come Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile e lo stesso Giuseppe Saitta.
Come scrive lo studioso Eugenio di Rienzo, riprendendo un testo di Gisella Longo1 sugli intellettuali vicini all’epoca al Partito Nazionale Fascista e al suo regime, Cantimori apparve come “l’impaziente corporativista […], il collaboratore di spicco di <Civiltà fascista> ancora durante il secondo conflitto mondiale, il convinto assertore del modello totalitario messo in essere dal fascismo, grazie alla capacità di assorbire e oltrepassare nella sua dinamica rivoluzionaria le vecchie parole d’ordine della sinistra europea2.”
Questo giudizio dell’epoca fu indicato da Giovanni Gentile come presente in alcuni esponenti intellettuali, anche se minoritari del così detto “fascismo di sinistra3” come il Cantimori, il quale asserì che “Chi parla oggi di comunismo in Italia, è un corporativista impaziente delle more necessarie dello sviluppo di un’idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e più vera di quello che si può attendere dal comunismo.4”
Il corporativismo e l’idea di Stato del fascismo venivano visti come il coronamento delle idee del Risorgimento Italiano concepito nella sua accezione socialista, rivoluzionaria, anti-capitalista e totalitaria. Era proprio questa interpretazione del fascismo come compimento di quella “rivoluzione italiana” incarnata dal Risorgimento che aveva incoraggiato intellettuali come Cantimori ad appoggiare il regime italiano.
Durante il suo periodo giovanile, Delio Cantimori fu particolarmente debitore del suo Professore di Filosofia alla Normale di Pisa Giuseppe Saitta, che come accennato in precedenza, fu uno degli animatori principali e direttori di “Vita Nova” insieme a Leandro Arpinati, che fondò la rivista. Saitta viene ricordato soprattutto per il suo carisma, la sua bravura nell’insegnamento e la sua capacità attrattiva verso i giovani. Nelle parole di Cantimori:
«Così si sviluppò quella tendenza a preferire la scuola di storia della filosofia [di Saitta] dove la preparazione di tipo scolastico e le esigenze tecniche erano minori, ma dove si sentiva un calore ideale, una passione filosofica, un fervore per la verità, e una forza di convinzione spesso dura, e più che dura, ma più vicina a quei sentimenti e a quelle esigenze giovanili, una decisione innovatrice suggestiva e che sembrava offrire un orientamento non meramente accademico per la soluzione di quei problemi.5»
La lettura del pensiero umanistico proposta dal Saitta coincideva con il pensiero di Gentile sull’hegelismo italiano; il tutto veniva interpretato in chiave laica e nazionale spesso con polemiche anti- clericali, tipiche di un certo fascismo [quello di “sinistra” appunto, opposto, se si vuole, ad altre concezioni come quella offerta da Julius Evola del fascismo, polemica nei confronti Gentile e la sua interpretazione dell’hegelismo6]. Questo genere di fascismo verrà assorbito dallo stesso Cantimori, che faceva proprie le istanze rivoluzionarie e socialiste in chiave corporativa della collaborazione fra classi in senso antitetico alla concezione marxista.
Nel giugno del 1928, Cantimori si laurea alla Normale Superiore di Pisa con una tesi su Ulrico di Hutten e le relazioni tra Rinascimento e Riforma7, dedicata al cavaliere ed umanista teutonico Ulrico di Hutten (1488-1523) che lottò contro il Papato per il rinnovamento dell’Impero. La tesi in questione, verrà poi pubblicata nel 1930 con il titolo, rimaneggiato, di Ulrico Von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma. Questa tesi discussa con il Saitta costituirà il punto di svolta degli interessi di Cantimori nei riguardi del Rinascimento.
In questo periodo, Cantimori, sulla scia dell’attualismo gentiliano nonché del suo primo maestro, Giuseppe Saitta, riprende anche nello stesso saggio dedicato a Ulrico Von Hutten la critica al connubio fra Stato e Chiesa, in un’epoca in cui il fascismo si stava avvicinando ad una posizione conciliante verso la Chiesa Cattolica Romana. Lasciando da parte l’anti-clericalismo che aveva caratterizzato le sue prime istanze, il movimento fascista era approdato a posizioni di avvicinamento nei confronti del mondo cattolico, sia per compiacere quella maggioranza della popolazione italiana che era di fede cattolica, sia per l’esigenza di costituire un comune fronte contro il bolscevismo visto, al pari di un certo capitalismo, come un nemico da parte del Regime. Questi erano anche gli anni in cui da altri intellettuali, opposti a Cantimori come Julius Evola, venivano pubblicati testi polemici sul riavvicinamento fra Chiesa Cattolica e il Regime fascista. Come è noto Evola pubblicò il famoso pamphlet Imperialismo pagano8. Cantimori, sulla scia del maestro Saitta, concordava con ciò che egli aveva scritto sul sistema teocratico; esso era visto come il “mostruoso connubio della Chiesa-Stato, alla costrizione anti-naturale e anti-umana di conciliare e fondere la Chiesa con lo Stato” in una struttura ove “ogni forza creatrice dello spirito sia da essi [la Chiesa e lo Stato] scrutata, condannata, annullata9”. Questa interpretazione del connubio Stato-Chiesa come mortificatore della libertà di spirito verrà esplicata dal giovane Cantimori nella già citata tesi sul Von Hutten. Uno studioso d’oltralpe, tale Werner Kaegi argomentò come la figura del cavaliere teutonico fosse interpretata dal giovane Cantimori alla luce della sua vita, in cui cultura, poesia ed azione politica diventano un atto creativo e rivoluzionario volto a risvegliare la coscienza nazionale germanica cui aveva contribuito anche la riforma religiosa luterano-protestante10.
La tesi su Von Hutten, certamente, rappresentò l’inizio di uno studio sul Rinascimento e la Riforma da parte del Cantimori che però aveva già iniziato a scrivere e ad interessarsi sul tema in questione. Nel 1927 scrisse una tesina (pubblicata nel 1929 un anno dopo la tesi di laurea) sulla figura di Bernardino Chino, eretico del ‘500, appartenente all’ordine dei cappuccini; la tesina in questione venne pubblicata con il titolo “il Bernardino Ochino, uomo del Rinascimento e riformatore11”. In seguito, Cantimori concepì partendo dalla figura di Bernardino un progetto di studio riguardante gli eretici italiani del ‘500, cui dedicherà uno lavoro pubblicato nel 193912 di cui si parlerà sotto.
2.2. Il fascismo, la guerra, l’interesse verso il nazionalsocialismo ed il mondo germanico e il proseguo sugli studi sul fenomeno ereticale
Delio Cantimori iniziò a scrivere i primi articoli, prima della sua tesi e dei suoi studi storiografici sui fenomeni religiosi, sulla rivista “Vita Nova” dell’Arpinati e del Saitta come sopra specificato, in questa rivista dedicò alcuni articoli al fenomeno fascista in Italia ed alle rivoluzioni nazionali analoghe in Europa, soprattutto per quello che riguardava il mondo germanico ad esempio sul fenomeno dei Corpi Franchi (Freikorps) che si opposero e soffocarono il tentativo di insurrezione comunista in Germania negli anni ’20. Sulla “Vita Nova” ad esempio scrisse l’articolo Fascismo, rivoluzione e non reazione europea13: nel testo Cantimori, sulla scia di quel fascismo di “sinistra” anti-clericale ed ancorato alla tradizione sansepolcrista, illustra una nuova nozione di società civile che vedeva il pluralismo politico del vecchio stato democratico e liberale come obsoleto e prerivoluzionario ed esponeva una nuova prospettiva totalitaria opposta alla vecchia prassi del mercato auto- regolato opposto che veniva superato dal corporativismo. Il fascismo, per Cantimori, riprendeva il carattere etico e missionario del pensiero mazziniano a cui accostava la polemica anti-democratica, anti-borghese, anti- capitalistica; in sintesi opposta tanto al bolscevismo che al capitalismo liberale volta alla cooperazione fra classi e ad una rivoluzione del nuovo Stato autoritario fascista che con la sua vocazione autoritaria nazionale ed europea veniva proposta come continuazione risorgimentale e coronamento della Storia nazionale.
Cantimori come tutta l’intellighenzia più socialista e di “sinistra” del Partito Nazionale Fascista (PNF) iniziò un graduale distacco dall’attualismo di matrice gentiliana, che tuttavia non voleva essere una rottura dal suo passato filosofico ed ideale, ma una più ampia ricerca intellettuale intorno ai temi della politica. Nel 1934, gli venne offerto da Giovanni Gentile, il posto all’Istituto di Studi Germanici di Roma come assistente e direttore della rivista dell’Istituto e della Biblioteca, in questo periodo iniziò in egli un interesse per l’articolarsi del movimento nazionalsocialista che aveva preso il potere in Germania nel 1933 e che veniva giudicato positivamente dall’autore e che stese, pure, la voce di questo movimento per il Dizionario di Politica del Partito Nazionale Fascista14. Il nazionalsocialismo ed il suo apparato di politica razziale e sociale e del lavoro venivano giudicati positivamente da Cantimori che vedeva nel movimento hitleriano un socialismo solidaristico che metteva al centro il lavoratore in un contesto di “rivoluzione totale” organizzata in “modo soldatesco” nel suo carattere “militare-educativo15”. Delio Cantimori si interessò particolarmente alla filosofia del giurista cattolico approdato al nazionalsocialismo, Carl Schmitt, e pubblicò per Sansoni una serie di suoi scritti sotto il titolo “Principii politici del nazionalsocialismo16” inoltre recensì sulla rivista Il Leonardo17l’edizione italiana edita da Bompiani del Mein Kampf di Adolf Hitler18 ove criticò la traduzione; nelle sue parole: “La traduzione non è sufficiente; in ogni caso la fatica che il traduttore-riduttore s’è data non è commisurata all’importanza del documento politico e storico che è Mein Kampf19”, sempre nello stesso periodo Cantimori venne commissionato dallo storico Gioacchino Volpe di scrivere una “Storia documentaria del nazionalsocialismo” per la collana diretta dal Volpe di <Documenti di storia e di pensiero politico> per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale; che però rimase inedita. Cantimori era inoltre affascinato dall’intesa sovietico-tedesca del Trattato di non aggressione del 1939 e vedeva nel totalitarismo hitleriano e staliniano molti punti in comune nella politica sociale ed economica e nell’affinità ne auspicava una collaborazione; anche se intorno al 1940-41 i rapporti fra i due Stati in questione e i rispettivi movimenti, erano oramai deteriorati. Cantimori nelle sue analisi comparative dei due regimi cercava che la sua ricchezza e le sue speranze non si tradussero in un giudizio storico, e quindi poi politico, cercando quindi di rimanere super partes specialmente, nel caso citato, nel biennio 1940-41 che videro la Germania nazionalsocialista e l’Unione Sovietica in guerra aperta fra loro20. Si può concludere il discorso del rapporto fra Cantimori e il nazionalsocialismo dicendo che la parte del movimento in questione che interessava di più lo storico era la sua ala di sinistra e vicina alla così detta Rivoluzione Conservatrice tedesca; da qui l’interesse per Carl Schmitt e per i fratelli Otto e Gregor Strasser; infatti, nel 1944, nella Roma liberata uscirà addirittura un testo su Otto Strasser; esponente dell’ala sinistra del Partito Nazionalsocialista, in esilio in Canada scritto da Douglas Reed e con una prefazione dell’antifascista ed esponente del partito d’Azione Pietro Bullio che lo definirà “un vero socialista”21. Cantimori, va notato, giudicò negativamente il libro di uno degli ideologi di punta del Terzo Reich; Il Mito del XX secolo22di Alfred Rosenberg liquidandolo come “un mattone pieno di stravaganze come quella che Cristo è il figlio di un soldato romano e roba simile23”. Per Cantimori, sulla scia di Werner Sombart, “il nazionalsocialismo era l’unico movimento davvero politico nel mondo della destra rivoluzionaria24”.
Tralasciando la vita intricata fra storia e politica di Cantimori; proseguono gli studi suoi movimenti ereticali dell’autore, nel 1939 in occasione del concorso per il conferimento della cattedra universitaria pubblicò quello che dovrà essere il suo lavoro più conosciuto ed apprezzato: Eretici italiani del Cinquecento edito da Sansoni25 che all’epoca fu accolto con grande interesse, perché non era ancora stato pubblicato uno studio complessivo con tali caratteristiche. Mantenne il proprio valore nel tempo (nel 1992 fu ripubblicato a cura di Adriano Prosperi) e poi le ristampe si susseguirono fino all’edizione attuale (Einaudi, 2009).
Essendo, Cantimori, interessato alla storia del pensiero ed a come esso agiva nella politica e quindi nel divenire storico il discorso ereticale per lui era un modo di capire l’apporto italiano a quel corpus di idee che produssero la riforma protestante. Per il lavoro sugli Eretici Italiani egli si prese anni del suo tempo per ricercare negli archivi di tutta Europa: Svizzera, Olanda, Germania, Francia etc.
In quella che sarà la futura polemica fra Cantimori e Federico Chabod sulla Storia religiosa ed intorno a varie questioni di metodo storiografico nel periodo post-bellico26; si può rintracciare la principale differenza fra i due nel modo da seguire nei loro studi: Chabod è particolarmente attento all’aspetto istituzionale e alle manifestazioni della religiosità in una situazione ortodossa, prestando attenzione ai comportamenti delle masse, mentre Cantimori è attento al pensiero degli eretici quindi agli aspetti in una situazione eterodossa.
Comune ai due autori è la rilevazione del fatto che la riforma non era, in Italia, qualcosa di completamente nuovo, ma un evento che affondava le sue radici nel clima del rinascimento italiano.
Si può asserire che Cantimori apprezzava visto il suo orientamento anti-clericale la storia ereticale come la storia di coloro che, rimanendo ai margini della società per volere del potere ecclesiastico, si sono fatti artefici di un cambiamento rivoluzionario in senso politico che ha mutato il divenire storico e il ruolo egemone del cattolicesimo in Europa occidentale.
Cantimori, nei decenni degli anni ’20-30 insegnerà nei Licei, come al Liceo classico Dettòri di Cagliari e poi riceverà nel 1939 una cattedra di Storia all’Università di Messina e poi, un anno dopo, nel 1940 insegnò alla Scuola Normale Superiore di Pisa chiamato da Giovanni Gentile. Interruppe l’insegnamento durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana per riprendere poi l’insegnamento alla Normale di Pisa nel 1944.
3.3. Dal fascismo al comunismo, l’allontanamento dalla politica, il prosieguo degli studi e la morte
Con la fine della guerra e del regime Mussoliniano e l’inizio della Repubblica Italiana, Cantimori, insoddisfatto dal fallimento del corporativismo si avvicinò al Partito Comunista e quindi al marxismo nonché all’ideologia marxista-leninista propagandata dall’Unione Sovietica, che lui ammirava come sopra specificato, come fenomeno sociale totalitario.
Per lo studioso Eugenio di Rienzo, in questo contesto si assiste da parte dello stesso Cantimori (ed anche dei suoi allievi) il presentarsi come “ripulito” dal suo ex passato fascista nonché dal suo apprezzamento al sistema del nazionalsocialismo tedesco per abbracciare la visione marxista ed anche anti-fascista del Partito nonché del nuovo regime repubblicano27. Da un punto di vista esteriore, il Cantimori, potrebbe peccare di incoerenza nella sua prassi, ma alla fine l’agire politico ed anche storico di Cantimori si può vedere nel cercare una continuità socialista ed anti-clericale con il mondo risorgimentale e quindi con il passato prima della riforma protestante e dei movimenti ereticali che l’avevano visto in qualche modo appoggiare prima il fascismo ed a vedere dei lati positivi nel fenomeno nazionalsocialista tedesco e poi al marxismo ed al bolscevismo; ciò per cercare una linea sia storica che politica che fosse coerente all’avvenire di una vera rivoluzione italiana sia storiografica che politica. Nelle parole di Cantimori, che però nel dopoguerra in qualche modo fu costretto a trovare legittimazione nell’ambiente del Partito Comunista Italiano, disse che “già dal 1934 aveva studiato Marx e Lenin, cominciando a capire che il fascismo non era la rivoluzione italiana28” ed ancora che il movimento comunista internazionale rappresentava “l’espressione consapevole ed organizzata della coscienza storica e politica del movimento progressivo dell’umanità29”. Inoltre, nella testimonianza, del collega e amico di Cantimori, il teologo britannico Roland H. Bainton, alla domanda del “perché egli fosse diventato marxista” ricevette la risposta: “Because the Communist Party in Italy is the only party which will not make a deal with the Church30”. In sintesi, ancora, troviamo l’anti-clericalismo come movente ideale. In questo periodo inoltre assistiamo al fatto che Cantimori dichiarò (come sopra brevemente accennato) che aveva già letto Marx e Lenin durante il periodo fascista inoltre nel 1953, anno della morte del Capo sovietico Iosif. V. Stalin, scrisse un “barocco” elogio, come lo definì il Di Rienzo al fondatore dell’Unione Sovietica Vladimir I. Lenin, il cui nome, come riporta lo storico romano31, veniva definito da Cantimori destinato a “passare in leggende, presso i popoli dell’Asia, come quello di un titano che aveva lottano contro Asmodeo, l’amico dei ricchi e dei privilegiati, mettendolo in fuga e ritornando poi nelle regioni fredde a scriver libri di verità per il popolo32”. In questo periodo, insieme alla moglie, tradusse il primo libro del Capitale33di Karl Marx che vide luce come pubblicato nel 1951.
Sempre secondo Eugenio Di Rienzo34, Cantimori sarebbe privo di neutralità scientifica, ed apparirebbe come condizionato dalla sua partecipazione politica prima al fascismo e poi al mondo marxista; certamente questo è vero; ma le analisi fatte da Cantimori anche dei singoli argomenti più controversi es. la politica razziale del nazionalsocialismo rimangono obbiettivi e super partes.
Nel periodo post-bellico, si assiste, da parte dello studioso in questione, ad un’opera di scomposizione e ricomposizione delle sue opere e come affermato in precedenza, per tentare di spurgarsi dal passato fascista, egli inizia “l’edificazione di una <fable convenue>, che sfruttava l’interpretazione crocicana del fascismo, come intervallo di barbarie” e quindi proponeva l’esigenza di un ritorno “alla bibliografia, all’erudizione ed alla filologia”; ciò sempre per Di Rienzo rappresenta una strategia di sistematica “demolizione e mistificazione del passato35”. Se, durante il fascismo, nel 1937, l’Accademia d’Italia, sotto la direzione di Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe faceva uscire un volume “Per la storia degli eretici italiani del secolo XVI” a cura di Delio Cantimori e di Elisabeth Feist, studiosa ebrea tedesca; nel dopoguerra ciò subì un’autocritica “alla marxista”, per così dire, da parte dello studioso di Russi nonostante questa pubblicazione fosse la prima prova data dal Nostro, di un testo, che si legava all’ispirazione di quella “Storia degli Italiani fuori d’Italia” del Volpe ma anche agli stimoli che questi diede a Cantimori stesso nello studio della storia medievale che quest’ultimo avrebbe prima riconosciuto per poi negarli nel periodo post-bellico insieme al modus operandi che l’aveva influenzato nella stesura del suo “Eretici italiani del Cinquecento” di Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Federico Chabod36 [la famosa autocritica “alla marxista”].
In questo periodo, particolarmente virulenta fu la polemica con e su Federico Chabod fatta da Cantimori, come sopra citato, entrambi gli storici avevano visioni analoghe ma anche dissimili sul modo di affrontare il problema storiografico religioso.
Nell’ambiguo necrologio del 1960, fatto da Cantimori a Chabod accusa lo studioso di “voler mantenere in vita la lezione storiografica di Volpe37”, ciò viene visto dagli studiosi come Di Rienzo e da chi analizza questo “ambiguo necrologio” come il distanziarsi da parte dello studioso da coloro che lo influenzarono nel periodo politico precedente ciò è completamente coerente con la strategia culturale del Partito Comunista che in qualche modo, “con la morte di Federico Chabod” vedeva “la dissoluzione di un blocco nel quale erano tenute unite diverse tendenze ideali38”. Insomma, si assistiva ad un attacco di una concezione a dire dei marxisti, <idealistica>, della storia opposta ad una concezione materialistica di stampo marxiano.
Stessa cosa, come sopra specificato, Cantimori fece in una rilettura post-bellica della genealogia che fu alla base del suo opus magnus cioè gli Eretici italiani del Cinquecento dando conto dell’influsso di Gentile e Volpe; ma come avvertenza in senso negativo, di un periodo precedente alla “conversione marxista”39.
In questo periodo, le ricerche di archivio, andarono avanti, portate avanti per lo più da Cantimori e dai suoi allievi; che godevano, comunque di molta considerazione da parte di quell’intellighenzia di “sinistra” e generalmente marxista.
Con la repressione, dovuta all’invasione sovietica, delle proteste del 1956 in Ungheria; Cantimori uscì dal Partito Comunista Italiano; i fatti d’Ungheria avrebbero creato una frattura insanabile tra gli intellettuali comunisti e il partito, Cantimori, questa volta, avrebbe totalmente capitolato, arrendendosi alla politica.
Se nemmeno il comunismo era la strada giusta per la “rivoluzione” della nazione, se dopo il tortuoso percorso, questo rappresentava l’ennesimo fallimento, il problema sarebbe diventato ontologico: la politica in sé. Da una lettera di Cantimori a Bainton si evince l’amarezza per la situazione in cui era caduto lo spettro politico a lui contemporaneo:
“Lei mi domandò perché professavo certe idee. Devo dirLe che, mentre mantengo tutte le mie convinzioni riguardo alla necessità di cambiamenti profondi nella vita del mio Paese, gli avvenimenti ultimi mi hanno così toccato, che ho creduto in coscienza di non poter più dare il nome a nessuna organizzazione politica: la lezione degli Anabattisti e dei mennoniti, e quella del grande storico G. Arnold sono diventate evidenti e intuitive, dopo gli avvenimenti in Ungheria, anche per me. Le dico questo perché lei mostrò interessarsi a me, quest’estate, a Londra; ho molte volte pensato alle sue domande di allora, in questi ultimi mesi. Le chiede scusa se Le parlo tanto di me. Ma sento e credo che Lei deve sapere che sono uscito dal partito al quale appartenevo, per le ragioni che le ho detto40”.
Parafrasando il Lenin, che Cantimori aveva elogiato quattro anni prima di questa lettera e tre anni prima dei fatti d’Ungheria; “Che fare41?” Se la rivoluzione non poteva avvenire con un cambiamento politico, non restava che continuare gli studi storici e culturali; quindi optare per una “lotta culturale” che doveva avvenire continuando gli studi sugli eretici cinquecenteschi e poi sugli utopisti settecenteschi, di cui questi ultimi venivano visti come i continuatori del movimento ereticale. Nell’ultimo periodo della sua vita, Delio Cantimori continuò ad insegnare ed a collaborare con diverse case editrici; fra cui l’Einaudi di Torino.
Cantimori morì accidentalmente cadendo dalle scale della sua biblioteca personale nel 1966.
4.4. Conclusioni
La figura di Delio Cantimori divide il giudizio di molti specialisti della storia delle idee nonché storici che si interfacciano con il suo pensiero e quindi, di conseguenza, le sue opere, i suoi studi e il suo agire politico. Come abbiamo notato; studiosi come Eugenio di Rienzo sono piuttosto critici verso la sua figura; o meglio, il Di Rienzo critica il fatto che molti seguaci di Cantimori nell’interpretare la sua Opera e il suo agire nel mondo della politica cerchino di “purificarlo” dal passato di ammirazione rispetto ai regimi come quello fascista e nazionalsocialista nonché quello bolscevico; rispetto alla strenua difesa portata avanti dall’allievo di Cantimori, Adriano Prosperi, verso il maestro42. Altri studiosi come il citato Roberto Pertici pensano che l’abbandono di Cantimori del fascismo sia stato interno allo stesso regime; nonostante gli articoli da lui scritti su varie tematiche, ad esempio quelle sul nazionalsocialismo, il modo di operare dello storico in questione era obbiettivo e scevro da contaminazione ideologica43.
Altra cosa interessante è come la figura di Delio Cantimori viene percepita non soltanto dall’ambiente accademico italiano; ma anche dall’ambiente engagé e politico: sembrerebbe che né nella così detta “estrema sinistra” di stampo marxista nonché nel frammentato mondo della “destra radicale” sia stato ben percepito; salvo la pubblicazione, meritoria, negli anni ’80 da parte della casa editrice romana Settimo Sigillo44 di alcuni saggi di Cantimori che furono pubblicati, negli anni del fascismo, sulla Rivoluzione Conservatrice Tedesca. Di degno interesse fu anche, il giudizio, del famoso teorico e studioso nonché valente saggista, Adriano Romualdi, intellettuale tipico della “cultura di destra” italiana; che in modo sprezzante (ma pur sempre veritiero) liquidò Cantimori come “il viscido, sfuggente, Delio Cantimori45” riferendosi, a quanto pare, al suo passato politico turbolento che lo vedeva come un “salta in banco” dal fascismo al marxismo. Per quanto riguarda la così detta “sinistra radicale” escludendo qualche raccolta di saggi a cura della casa editrice Quodlibet risulta veramente poca attenzione all’autore in questione46.
Altra cosa da sottolineare, come viene scritto in un valente articolo pubblicato più di un decennio fa (2009) sull’Internet47 è l’analogia fra il pensiero di Cantimori (almeno durante l’epoca fascista) con un certo filo- europeismo anticipatore di tendenze geopolitiche, anche d’estrema attualità, che vedevano l’Italia e la Germania nonché, in più generale, la civiltà europea come in qualche modo tendente verso la Russia: in sintesi già “i tre regimi autoritari” dell’epoca dovevano, per Cantimori, come per un Karl Haushofer all’epoca in Germania, collaborare per un futuro assetto del pianeta. Questo ovviamente non si concretizzò per l’andamento storico, ma questa non è la sede per trattare ciò, ci si limita a citare un pezzetto di analisi data dall’articolo sopra menzionato:
“In politica interna, egli era naturalmente sostenitore dello Stato etico e corporativo. «A organizzazione culturale delle corporazioni, dove accanto alla cultura professionale e tecnica è unita la educazione secondo la morale di ordine e disciplina che il Governo Fascista ama accentuare come propria, appare di nuovo risposta chiara e netta ai bisogni della civiltà europea» (DELIO CANTIMORI, Politica e storia contemporanea, Torino, Einaudi, cit. p. 26). In politica estera, è molto interessante il fatto che egli fosse già conscio della decadenza d’Europa, e reagisse con un vigoroso europeismo a prospettiva imperiale, che anticipava già [Jean] Thiriart4849”.
Si può concludere, che nonostante le interpretazioni polemiche sul passato politico di Cantimori, dicendo che il suo lavoro sul fenomeno ereticale ove egli evidenzia, in più lavori, che gli eretici erano coloro che hanno anticipato gli utopisti e i movimenti risorgimentali italiani opposti al potere ecclesiastico ed al vecchio ordinamento, visto come reazionario e cattolico nonché egli era interessato alla ricezione dell’apporto italiano alla riforma protestante.
La storia per Cantimori non può prescindere senza un ruolo guida della filosofia e della politica, egli nell’ultimo decennio della sua vita sfiduciato dal suo presente, si immerse in una battaglia culturale; se così si può dire, diversa certo dal suo precedente passato. La storia viene vista come una storia di come la cultura, si vedano le sette ereticali viste dal punto di vista dell’apporto alla riforma protestante od al futuro rinascimento.
Cantimori rimane un uomo immerso nelle passioni ideologiche del suo tempo e rappresenta lo storico che fa della storia e della sua esistenza, anche sul piano politico, che in qualche modo creerà la storia a venire, l’azione come evidenziato da un Benedetto Croce prima e poi da un Paolo Prodi. Lo storico quindi sia come artigiano, ma nel caso di Cantimori, come militante politico. Il suo anti-clericalismo, il suo vedere il divenire storico in senso progressivo e il suo cercare una via alla “rivoluzione italiana” lo ha portato dalle radici familiari mazziniane al fascismo, con l’interessarsi al mondo germanico ed al fenomeno nazionalsocialista fino al marxismo ed alla militanza del PCI che certo si concluse; ma non l’attivismo per Einaudi e per la cultura e quindi per il sapere e per la Storia, quella con la S maiuscola.
E per l’Europa? Quale futuro darà l’analisi di Cantimori al nostro continente nonché all’Italia, suo paese natio? Sicuramente l’analisi fatta da Cantimori dei tre fenomeni autoritari – come detto prima – non si concretizzò; ma un dato è certo, ha anticipato analisi attuali, inclini alla migliore tradizione europea che vede nella geopolitica, o se si vuole pure nella basilare geografia, una prassi per comprendere l’andamento politico e storico: l’unità del continente europeo ed una sua collaborazione con la Russia è una questione basilare al giorno d’oggi nonché necessaria, nonostante tutti gli sconvolgimenti in atto, per il futuro del nostro spazio di Civiltà.
Se si vuole comprendere il nostro presente per interpretare l’avvenire nonché per resistere ai tempi, bisogna ripartire o meglio bisogna iniziare a riscoprire, anche uno studioso “eretico” che studiò le sette cinquecentesche con così tanta attenzione cercando di giudicare tramite esse il proprio tempo e le grandi ideologie novecentesche: che il tempo, quindi, ci porti verso Delio Cantimori e la sua Opera.
Note:
1. GISELLA LONGO, L’istituto Nazionale Fascista di Cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, Roma, Pellicani, 2000 cit. pp. 240 e ss.
2. EUGENIO DI RIENZO, Delio Cantimori e il <Dopoguerra storiografico>, in AA.VV., Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento (a cura di EUGENIO DI RIENZO e FRANCESCO PERFETTI), Firenze, Le Lettere, 2009 cit. pp. 82-83.
3. A tal proposito si consulti il testo di LUCA LEONELLO RIMBOTTI, Fascismo rivoluzionario. Il fascismo di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale, Firenze, Passaggio Al Bosco, 2018.
4. GIOVANNI GENTILE, Discorsi agli italiani (discorso pronunciato a Roma, in Campidoglio, il 24 giugno 1943) in Politica e Cultura (a cura di Hervé A.Cavallera), Firenze, Le Lettere, 1991, VOL. II, cit. p. 196.
5. DELIO CANTIMORI, articolo sul <Giornale critico della filosofia italiana>, XVI, pp. 86-88, 1935 citato in ROBERTO PERTICI, Mazzinesimo, fascismo e comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori, in <Storia della Storiografia>, VOL.31, Milano, Jaca Book, 1997, cit. p. 32 nota 24.
6. Su qualche considerazione data da Julius Evola su Gentile si consulti: JULIUS EVOLA, Fascismo e Terzo Reich, Roma, Mediterranee, 2001 e JULIUS EVOLA, I testi del “Meridiano d’Italia”, Padova, AR, 2002.
7. Ultima edizione: Torino, Nino Aragno, 2022.
8. Padova, AR, 1996.
9. GIUSEPPE SAITTA, Il carattere filosofico della tomistica, Firenze, Sansoni, 1934 cit. pp. 118-120-121 citato in EUGENIO DI RIENZO, Ivi. p. 94.
10. Cfr. WERNER KAEGI, Recensione a D.Cantimori, Ulrico von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma (<Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa>, XXX, 1930, 2, pp. 79 e ss. In <Historische Zeitschrift>, CLLVI, 1932, p. 400 citato in EUGENIO DI RIENZO, Ivi. p. 95.
11. Pisa, Pacini Mariotti, 1929.
12. DELIO CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento-Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Torino, Einaudi, 2009.
13. In Vita Nova, VII, 1931, cit. p. 763.
14. Cfr. EUGENIO DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2004, cit. p. 300.
15. Cfr. EUGENIO DI RIENZO, Delio Cantimori e il <Dopoguerra storiografico>, in AA.VV., Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento (a cura di EUGENIO DI RIENZO e FRANCESCO PERFETTI), Le Lettere, Firenze, 2009 cit. pp. 83-85.
16. Sansoni, Firenze, 1935. Nonostante criticò aspramente Schmitt in più occasioni Cfr. DELIO CANTIMORI, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Torino, Einaudi, 1991 e CARL SCHMITT, Stato, movimento e popolo, Pesa, Eclettica, 2021.
17. VI, 1935, cit. pp. 224-27 ora in DELIO CANTIMORI, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), Einaudi, Torino, 1991, cit. pp. 306-311.
18. ADOLF HITLER, La mia vita, Bompiani, Milano, 1940 [si consulti una recente buona edizione, edita dal tedesco integralmente: ADOLF HITLER, Mein Kampf, Roma, Thule Italia, 2019.].
19. DELIO CANTIMORI, Ibidem.
20. EUGENIO DI RIENZO, cit. p. 85.
21. Ivi p. 86 e dalla prefazione di Pietro Bullio a DOUGLAS REED, La storia di Otto Strasser, Roma, Catacombe, 1944 cit. p. 8.
22. ALFRED ROSENBERG, Il Mito del XX secolo, Roma, Thule Italia, 2017.
23. ROBERTO PERTICI, Mazzinesimo, fascismo e comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori, in <Storia della Storiografia>, VOL.31, Milano, Jaca Book, 1997, cit. p. 97.
24. Dalla voce Cantimori Delio citata da TRECCANI scritta da PIERO CRAVERI cit. in RENZO FRATTOLO, Il Dizionario Biografico degli Italiani, Ravenna, Longo, 1975 [vedi link consultato in data 15 aprile 2023 alla voce Delio Cantimori della TRECCANI online: <https://www.treccani.it/enciclopedia/delio-cantimori/>] Il testo di Sombart ove il pensiero di Cantimori parte nella sua elaborazione è WERNER SOMBART, Il socialismo tedesco, Padova, Il Corallo, 1981 [1^ Edizione italiana: Firenze, Vallecchi, 1941].
25. Firenze, Sansoni, 1939.
26. EUGENIO DI RIENZO, cit. pp. 88-89.
27. EUGENIO DI RIENZO, Ivi pp. 83 e 86.
28. RENZO FRATTOLO, Ibidem.
29. EUGENIO DI RIENZO, Ivi p. 87.
30. Traduzione italiana: “Perché il Partito Comunista in Italia è l’unico partito che non farà accordi con la Chiesa” da RONALD H. BAINTON, Chronicle of a subborn non-conformist, Yale, Yale University Divinity School, 1988, cit. p. 95.
31. EUGENIO DI RIENZO, Ibidem.
32. DELIO CANTIMORI, Lenin in Questioni di storia contemporanea, Milano, Marzorati, 1953, III, pp.693 e ss. In particolare p. 716.
33. CARLO MARX, Il Capitale, Roma, Edizioni Rinascita, 1951.
34. EUGENIO DI RIENZO, Ibidem.
35. Ivi. p. 88.
36. Cfr. EUGENIO DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2004, cit. pp. 233-234.
37. Cfr. EUGENIO DI RIENZO, Delio Cantimori e il <Dopoguerra storiografico>, in AA.VV., Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento (a cura di EUGENIO DI RIENZO e FRANCESCO PERFETTI), Le Lettere, Firenze, 2009 cit. p. 89.
38. GIULIANO MANACORDA, Appunti per una discussione sulle tendenze della storiografia italiana, Roma, Relazione per la Commissione culturale del Pci, 1962, Fondazione Istituto Gramsci, Archivio, f.1 cit. in EUGENIO DI RIENZO, Ibidem.
39. Cfr. EUGENIO DI RIENZO, Ivi. p. 91.
40. Cfr. RONALD H. BAINTON, Chronicle of a subborn non-conformist, Yale, Yale University Divinity School, 1988.
41. Si cita il noto testo del rivoluzionario marxista e fondatore dello Stato sovietico. Ultima edizione: Roma, Editori Riuniti University Press, 2019.
42. ADRIANO PROSPERI, Delio Cantimori maestro di tolleranza in “Il Manifesto” 30 marzo 2005.
43. ROBERTO PERTICI, Mazzinesimo, fascismo e comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori, in <Storia della Storiografia>, VOL.31, Milano, Jaca Book, 1997, cit. p. 174 ove nell’estratto in inglese English abstract si afferma che Cantimori abbandonò progressivamente l’interesse e il sostegno al modello fascista e nazionalsocialista tra il 1934 e 1938.
44. DELIO CANTIMORI, Tre Saggi su Jünger, Moeller van den Bruck, Schmitt, Roma, Settimo Sigillo, 1985.
45. ADRIANO ROMUALDI, Mussolini il rivoluzionario, da Il Secolo d’Italia (data sconosciuta), 1965 <https://www.centrostudilaruna.it/mussoliniilrivoluzionario.html> (consultato in data 12 aprile 2023).
46. DELIO CANTIMORI, Il furibondo cavallo ideologico, Macerata, Quodlibet, 2019.
47. <http://augustomovimento.blogspot.com/2009/12/il-fascismo-di-delio-cantimori.html> pubblicato su Augusto movimento in dato 24 dicembre 2009 (consultato in data 12 aprile 2023).
48. Su Thiriart e la sua visione geopolitica per certi versi, analoga a Cantimori, si veda: AA.VV. (a cura di PIETRO MISSIAGGIA), Europa Nazione. Jean Thiriart il cavaliere eurasiatico e la Giovane Europa, Milano, Aga, 2021.
49. Ibidem.
]]>È diviso in due parti, dedicate al “guerriero di Sorano” e a quello “di Pulica”, cioè rispettivamente alla statua-stele maschile rinvenuta l’anno scorso nei lavori di restauro delle pieve e al corredo della tomba a incinerazione trovato quasi contemporaneamente nel territorio di Fosdinovo.
Come rileva giustamente nell’introduzione la Sovrintendente Paribeni, i due reperti hanno in comune “la figura del guerriero nell’età del ferro in Lunigiana”, che bene evidenziano “il ruolo egemone dei guerrieri nella società dell’antico popolo dei Liguri… uno dei più sfuggenti dell’Italia antica”.
E al guerriero di Sorano sono dedicate considerazioni di Ambrosi, Perazzi, Maggiani, Gervasini, della stessa Paribeni e di Enrico Giannichedda, il quale ultimo, succeduto a Tiziano Mannoni negli scavi di Filattiera, ha sottolineato come il recente reperto consenta “nuove ipotesi interpretative sull’uso delle statue-stele e sulla storia dei culti in Lunigiana”. Risulta infatti che la Sorano V rimase visibile in loco “per quasi due millenni, fra l’età del rame e la prima età del ferro, quando venne modificata aggiornandone i caratteri stilistici, ma lo era certamente ancora dopo altri mille anni”, probabilmente fino all’VIII secolo d.C., al tempo in cui il famoso missionario longobardo Leodgar della lapide di San Giorgio hic idòla fregit.
Dunque “nell’Altomedioevo alcune statue-stele erano conservate in superficie e probabilmente oggetto di culto”. Risulterebbe inoltre che la stele Sorano V, non diversamente da quella di Lerici, rinvenuta nel 1992 in un ignoto contesto di provenienza, fosse stata rielaborata nel VII-VI secolo a.C. riadattando una statua-stele molto più antica, con l’aggiunta di elementi nuovi su modelli originari etruschi (Maggiani, Gervasini).
Ma bisognerebbe mettersi d’accordo: la Sorano V è “certamente di carattere funerario”, come dice Maggiani o è solo un’ipotesi “suggestiva ma lecita” (Gervasini) o ancora, come afferma Ambrosi, non si tratta di “statue funebri… ma simboli a protezione dell’uomo in una vasta area religiosa protostorica”? Bisogna sottolineare, infatti, come la ricorrente ipotesi funeraria abbia sempre urtato con l’assoluta mancanza di ogni contesto archeologico del genere: è ciò a maggior ragione vale anche per la recente stele di Sorano.
In quanto allo splendido reperto della tomba del guerriero di Pulica, cui dedicano attente analisi Paribeni, Fabiani, Maggiani e altri, si nota soprattutto l’elmo di bronzo a corna lunate (raro a trovarsi in area ligure, ma si veda il recentissimo reperto di Pisa San Rossore), “simbolo di vittoria per qualche generazione di guerrieri”, secondo la Paribeni, e infine “deposto nella tomba di un capo ligure”. Un elmo probabilmente elaborato in area gallica, ma prodotto dalle officine di Arezzo (Maggiani) e che forse aveva per cimiero “bianche penne di cigno, come descrivono alcune fonti letterarie” (Paribeni). Non vi è nessuna traccia dello scudo oblungo di tipo celtico” (Maggiani): ma come avrebbe potuto essere inserito nelle modeste fosse a cassetta delle necropoli liguri? (quella di Plica è di cm. 36×27 di pianta e di cm 34 di profondità).
Resta da chiedersi: quando mostre e analisi saranno terminate, dove finiranno questi importanti reperti (penso soprattutto alla statua-stele)?
Esisteva un giorno il museo del Piagnaro… Che fine ha fatto e – soprattutto – chi se ne occupa?
Tratto da Algiza 16 (2003).
]]>Si tratta di: «un reperto emerso dalla vasta e variegata koiné religiosa affermatasi al centro della penisola durante il VII secolo a.C.» (p. 10). Le variegate decorazioni del reperto, nota D’Anna, rendono plausibile un accostamento stilistico di questo reperto alla “ceramica orientalizzante” o “proto-attica”, diffusasi tanto in Grecia quanto nella Magna Grecia, dopo il tramonto dello stile “geometrico”, carico di simboli solari. L’intera superficie dell’oinochoe è decorata da ricchi fregi che definiscono una vera e propria “narrazione visiva”. In essa si distinguono, innanzitutto, i cosiddetti “denti di lupo” capovolti, da cui fluiscono verso il basso le fasce sacramentali. Da questo particolare si evince che: «nel territorio di Caere si era ampiamente sviluppata una […] simbiosi di elementi dottrinali e stilistici di sicura origine etrusca con la variegata cultura latina, con le tradizioni elleniche fiorenti nelle vicinissime […] colonie greche e […] con molti aspetti delle forme religiose coltivate nelle tante città italiche» (p. 19). Il patriziato di Caere, in forza delle positive relazioni con la Magna Grecia, aveva stretto rapporti con l’élite apollinea di Delfi, al punto che, tra i “tesori” custoditi nella città ai piedi del Parnaso, vi era quello della cittadina etrusca.
Ciò trova conferma nel fregio principale dell’oinochoe, in cui la scena madre è strutturata in due parti. A sinistra, sono visibili sette guerrieri all’uscita da un labirinto: l’artista si è soffermato sui dettagli del loro abbigliamento. Di particolare rilevanza risulta essere, per l’esegesi di D’Anna, lo scudo rotondo sul quale è effigiata la testa di un cinghiale. Il valore simbolico di quest’animale è, tanto in Oriente quanto in Occidente, associato: «alla più elevata dimensione sapienziale e all’esercizio dell’autorità sacerdotale» (p. 29). Nel caso della processione dei guerrieri etruschi rappresentata sul vaso rinvia, al contrario, alla casta guerriera e ai suoi riti di iniziazione. I sette giovani presentano le medesime fattezze somatiche a indicare la loro appartenenza a una fratria, a un sodalizio chiuso. La loro nudità rituale, inoltre, rimanda alla realtà spirituale connotante di sé l’efebia ellenica. Per questo, la presenza del cinghiale nell’oinochoe, pur richiamando la vittoria di Teseo sul Minotauro, della Luce sulle Tenebre, del cosmos sul caos, è qui indicativa della “guerra santa” che ogni guerriero vive in sé per diradare il disordine spirituale.
Allo scopo, i giovani in armi durante le processioni sacramentali davano luogo a vere e proprie danze rituali. Con W. F. Otto, D’Anna è convinto che la danza consenta all’uomo: «di fondersi direttamente con il “fluire universale della vita”», per la qualcosa il danzatore sacro si identifica con il cosmo. I sette guerrieri sono guidati, in una sorta di “danza pyrrica”, da un “Maestro” (come accadeva nella “danza armata” dei popoli del Nord). La fila è chiusa da un personaggio ieratico che alza un bastone sacro dalla forma curvilinea, richiamante quella del serpente: «L’abituale e periodico rinnovamento […] dello strato epidermico del rettile […] veniva interpretato come il simbolo della rinascita ciclica e della trasfigurazione spirituale» (p. 38). La figura del “Maestro” rinvia a Teseo che, come ricordato da Callimaco, quando giunse a Delo da Creta, guidò i sette giovani e le sette giovinette sottratti alle fauci del Minotauro in una danza. All’Eroe si deve l’istituzione della “danza delle gru” nel momento in cui, proprio a Delo, l’isola”invisibile”, “Centro del mondo”, poté celebrare il fulgore di Apollo Licio.
In tale circostanza, per simbolizzare il dono di Ariadne, vale a dire il filo di lana che permise all’Eroe di uscire indenne dal labirinto, fece danzare i quattordici giovani con in mano un filo che li legava l’un l’altro. Le loro circonvoluzioni ritmiche figuravano i volteggi armonici dei delfini in acqua. Il delfino era considerato, per antonomasia, uno dei veicoli di manifestazione di Apollo. Sull’oinochoe è ritratto un labirinto dal quale escono due cavalieri in armi. Il primo ha postura statica mentre, sullo scudo del secondo, è ritratta una gru nell’atto di librarsi in volo. L’artista ha voluto indicare con tale modalità figurativa due diverse realtà spirituali: la prima appesantita materialmente e spiritualmente, la seconda protesa verso la dimensione anagogica. Il candore delle piume delle gru era interpretato quale segno del nitore della conoscenza spirituale, la proverbiale lunga vita del volatile era considerata simile alla “longevità” degli iniziati, la periodica migrazione verso Nord delle gru alludeva al ritorno nella Terra Iperborea. Sull’ultimo cerchio del labirinto dell’oinochoe si trova una scritta che può esser letta come truia, lemma rinviante all’area linguistica indoeuropea. L’iscrizione allude alla “danza del mulinello”, in cui è palese il riferimento ai veicoli apollinei del delfino e della gru: «Si tratta di un simbolismo […] che ha alimentato […] anche il rituale del Troiae lusus» (p. 63), il che indica una continuità simbolico-rituale sopravvissuta fino all’età imperiale romana. Del Troiae lusus D’Anna si occupa nell’Addendum che chiude il volume.
Sostanzialmente anche a Roma in questo rituale si afferma la medesima visione del mondo simbolizzata nel racconto di Teseo e il Minotauro: il guerriero si trasfigura nell’Eroe civilizzatore; il caos indistinto diviene cosmos, spazio ordinato da leggi; le regole iniziatiche delle consorterie guerriere si trasfondono nell’Urbe: «una Città nella quale si dovrà instaurare la pax deorum» (p. 121). Non è casuale, pertanto, che l’ultima rappresentazione dell’oinochoe raffiguri una coppia di giovani che si accoppiano: si tratta di un hieros gamos, l’attualizzazione dell’: «unione prototipica del Cielo e della Terra» (p. 84), che garantiva la rigenerazione universale.
Questi alcuni dei temi che emergono dalla lettura di Simboli e misteri dell’Etruria antica, un unicum nella pubblicistica storico-religiosa.
]]>L’autore nacque nell’Algeria francese nel 1914. Laureatosi in lettere a Aix-en-Provence, divenne docente presso l’Istituto francese di Lisbona. Tornato in patria, aderì a Vichy. Dopo la guerra si trasferì definitivamente in Portogallo, dove fondò la rivista in lingua francese «Découvertes», sui cui «Cahiers» uscì la seconda edizione del libro che qui presentiamo (la prima, sempre in portoghese, comparve nel 1949): «Il volume costituisce, sostanzialmente, un’apologia dell’Estado Novo, creato in Portogallo da Salazar» (p. III) e dell’esperienza petainista. Generalmente i regimi di Salazar e del Maresciallo Pétain sono derubricati dalla vulgata storiografica al calderone del fascismo europeo. Ciò non corrisponde, in senso storico e filologico, a verità: mentre il fascismo tese alla mobilitazione (sia pure in chiave di modernizzazione conservatrice) delle masse, i due personaggi ricordati centrarono la loro proposta politica sulla “demobilitazione delle masse”. Erano convinti, lo ricorda Ingravalle: «che il nazionalismo», elemento essenziale nei fascismi, fosse «una costruzione ideologica fondamentalmente democratica» (p. IV). Guardarono a modelli conservatori, sia pure connotati in senso identitario, rifiutando la legittimazione “dal basso” del potere.
Salazar, divenuto presidente del Consiglio nel 1932, in forza anche delle proprie competenze in ambito economico, impose al paese lusitano il sistema corporativo. Si ispirò, in particolare, all’enciclica di Pio XI, Quadrigesimo anno. Introdusse una Costituzione che amplificava i poteri della Presidenza, sospese la libertà di stampa e abolì i sindacati. Vicino a Franco, all’esplosione della guerra civile spagnola rimase neutrale. Anche il nuovo ordinamento dello “Stato Francese” di Pétain ebbe impianto corporativo e il Parlamento venne esautorato e non più convocato. In sostanza, a dire dell’autore, il sistema corporativo era atto a mettere in scacco l’individualismo liberista: fu una variante di un generale “New Deal”, realizzato allora con modalità e intenti diversi in tutto il mondo occidentale e che darà luogo al Welfare state. Nacquero, così, sistemi economici: «che hanno scoperto (scoprirono) la straordinaria potenza coesiva dell’economia sociale» (p. XI).
I fascismi, ricorda lo studioso francese, risanarono i sistemi liberal-democratici dalla loro inevitabile decadenza. Com’era possibile, pertanto, spiegare il consenso che la democrazia riscosse nel secondo dopoguerra? Haupt risponde: «l’uomo ascolta con piacere chi cerca di convincerlo che egli vale più di quanto non valga in realtà e che gli promette più di quanto egli possa mai ottenere» (pp. XXIV-XXV). La democrazia, inoltre, si basa su astrazioni: presuppone la bontà dell’uomo e persegue il progresso materiale, senza tener conto che a esso non corrisponde un progresso morale. Non esiste la libertà in assoluto, la libertà ideale, ma solo molteplici libertà a volte contraddittorie tra loro. Per questo, l’uomo politico deve realisticamente attenersi al “meno peggio”: pensare la maggioranza come “infallibile”, idolatrarla, porta alla morte dei sistemi politici. I “partiti”, con la loro elefantiaca burocrazia, presto danno luogo a un loro sistema di potere, noto come “partitocrazia”. Riproducono al loro interno la medesima parzialità presente nei Parlamenti: si frazionano in correnti, il cui equilibrio, proprio come quello del potere liberal-democratico, è sempre precario: «Ogni maggioranza è instabile, essendo costituita da coalizioni assai “volatili” di partiti» (p. XXVII). Il potere democratico ha tratto epidemico: si insedia sul popolo in quanto dittatura collettiva, anonima.
Di fronte all’incompetenza del personale politico democratico, Haupt si fa latore di una svolta tecnocratica e oligarchica delle liberal-democrazie, o almeno in tal senso interpreta alcune, lo si è visto, delle esperienze maturate nell’alveo del fascismo, cui guarda con interesse. Pertanto, Processo alla democrazia, nella realtà del XXI secolo: «rischia di tracciare un quadro realistico delle democrazie parlamentari, non soltanto occidentali» (p. XXXI). Va ricordato che le precedenti due edizioni italiane furono utilizzate quali strumenti critici nei confronti della democrazia parlamentare, intesa quale “anticamera del comunismo”. Negli anni Cinquanta e Settanta, la proposta dell’autore fu accostata, lo ricorda il prefatore, a quella di molti pensatori che si confrontavano con il problema rappresentato delle istituzioni democratiche, Rougier, Plevris, Spirito: «la prospettiva di Haupt è […] più prossima a quella di Rougier nel metodo, ma analoga al nazionalismo radicale di Plevris nel merito» (p. XVI), in quanto entrambi contrari alla moderna mobilitazione delle masse. Sotto il profilo politico fu proprio il comun denominatore anticomunista a unificare tali differenti prospettive esegetiche maturate a “destra”.
Nel mondo della globalizzazione, in cui fascismo e comunismo hanno un’esistenza ectoplasmatica evocata nelle sedute spiritiche tenute dai padroni del vapore, forse bisognerà guardare a diversi denominatori intellettuali e politici per uscire dall’impasse della democrazia tecnocratica.
]]>Kaczynski afferma: “Nella nostra società […] gli individui non soddisfano i propri bisogni psicologici in autonomia, bensì funzionando come parti di un’immensa macchina sociale. Al contrario, l’autonomia di cui le persone godono nello svolgimento delle proprie attività sostitutive appare massima” (p. 52); questo squilibrio, questa inautenticità sarebbero all’origine delle patologie depressive, per eccesso o assenza di sforzo (p. 61) e per coscienza più o meno profonda dell’assenza di senso (in quanto destinazione e significato) dell’esistenza: “una prolungata incapacità di conseguire i propri obiettivi [non indotti, n.d.a.] nel corso della vita porta […] alla depressione” (p. 48), che è l’abbandono della lotta che costituisce la vita, e quindi l’abbandono della vita stessa, la resa all’artificio. Questa subdola patologia, ormai tratto caratterizzante la Stimmung di Occidente, potrebbe quindi essere strutturalmente connessa alla assenza di libertà reale (che in qualche modo inibisce la volontà), di cui è manifestazione palese la “fabbrica delle necessità” su cui si fonda la cd. “economia di mercato” neocapitalistica: il bisogno indotto, ovvero la percezione di un bisogno reale, è artatamente stimolato dalla “creazione” di domanda da parte dei “persuasori occulti”, che condurrà ad un consumo parossistico di merci superflue, inutili o addirittura nocive. Una tale economia, d’altra parte, costituisce la continuazione della guerra moderna con altri mezzi, sia perché si basa sul principio della competizione senza freni, sia perché le sue forme ed i suoi strumenti sono stati costruiti a partire da modelli militari.
Le “attività sostitutive”, definite come “obiettivi artificiali” che le persone che non hanno bisogno di sforzarsi per soddisfare i propri bisogni elementari si impongono surrettiziamente (p. 49), sembrano analoghe al “surrogato” (Ersatz) marxiano, che conduce alla alienazione ed alla soggezione, e quindi è specifico del mondo moderno: “l’uomo moderno si trova a dover soddisfare le proprie necessità relative al processo del potere attraverso bisogni artificiali creati dall’industria pubblicitaria e del marketing, e tramite attività sostitutive” (p. 62). Ciò ricorda anche le riflessioni evoliane sull’artificiosità del cd. “tempo libero”, “divertimento” tramite cui l’uomo moderno tenta di “evadere” da un lavoro e da una realtà alienanti. Anche l’ideologia può configurarsi come “attività sostitutiva” (p. 84), e tuttavia “non è un’ideologia a guidare il sistema, bensì la necessità tecnica” (p. 95) universalmente omologante (p. 95 n. 27); a nostro parere, invece, l’ideologia che fonda la “necessità tecnica” è quella del progresso, le cui parole d’ordine (ed operazioni) della scienza e dell’economia di mercato non possono essere messe in discussione. Interessanti risultano anche le riflessioni dell’A. sul tipo psicologico dell’uomo di sinistra, posseduto dall’ideologia (pp. 33-34; pp. 155-165) e prossimo al patologico.
Oltre che l’artificio, la virtualità di una società fondata sul ni-ente e la percezione accelerata del tempo (latori di angosce) costituiscono due tratti essenziali della modernità. L’acquisto di una (o più) auto, di un cellulare (con tutto quello che ne deriva), di un pc, di una TV, di una connessione ad internet — rendendo “confortevole” e velocizzando la vita e la raccolta e trasmissione di dati –, non costituiscono opzioni libere, ma, di fatto, sono obblighi socialmente indotti, rifiutando i quali si è emarginati dalla collettività e dalle relazioni (in buona parte anche dal “mondo del lavoro”): i mezzi di comunicazione e di trasporto, che hanno carattere “totalitario”, da un lato tendono a “sovrasocializzare” (pp. 41-46: la sovrasocializzazione essendo, secondo l’A., uno degli attributi fondamentali dell’uomo di sinistra) chi ne fa uso — col risultato di scatenare dapprima inibizioni, volizioni e sentimenti socialmente determinati, per far inevitabilmente emergere poi gli sfoghi delle nevrosi le più varie –, dall’altro, paradossalmente, rendono gli uomini più lontani tra loro (p. 102). L’incomunicabilità, come è noto, non è solo caratteristica precipua del mondo attuale – per cui non ci si sente amati e si ha l’impressione di non aver vissuto pienamente –, ma costituisce anche uno strumento attraverso cui il sistema di potere attuale agisce più efficacemente sulla monade neoliberale, imbrigliandola nella rete di “surrogati” che irretisce la persona, essenzialmente sola nella folla anonima.
Inoltre, la “immensa macchina sociale” ha trasferito il potere, tramite la cd. “deregulation”, dagli Stati alle grandi multinazionali, inaccessibili perché apolidi e senza volto, che controllano ubiquamente tramite ristrettissime élites la società, prevedendone e indirizzandone gli sviluppi (p. 65 e n. 61); e sono proprio i fini del dominio, anche attraverso la previsione e la sperimentazione (si pensi agli esperimenti di ingegneria sociale, di cui quello relativo al Covid-19 è stato esempio palese), a caratterizzare dapprima la magia, e quindi le sue “evoluzioni” in scienza e tecnologia quali ideologie diffuse. Ad es., “i contenuti dei programmi di intrattenimento si configurano come una potentissima forma di propaganda” (p. 68), che induce “le persone a desiderare quanto già per esse è stato confezionato” (p. 94), ciò che ricorda le elaborazioni del Debord de La società dello spettacolo (pubblicità e immagine come mezzo di “conquista delle coscienze”, e quindi di controllo, nelle società “democratiche”). D’altra parte, Braudel ha acutamente scritto che la Rivoluzione industriale non fu altro che “una trasformazione dei desideri” (Civilization and Capitalism, vol. II [The Wheels of Commerce], NYC 1982, tr. it. p. 183): con il che, si avviò il processo che ridusse l’uomo ad una “macchina desiderante” (Baudrillard). Se l’uomo è una macchina desiderante, mero ingranaggio di una enorme macchina sociale, che a sua volta costituisce un gigantesco sistema di desideri artificialmente indotti (ma la natura del desiderio sta proprio nella impossibilità di essere soddisfatto!), l’esito della ciclotimia di massa non è poi così inspiegabile.
Pure, il permissivismo concesso “in ambiti irrilevanti rispetto al funzionamento del sistema” è ordinato al mantenimento dell’ordine neocapitalistico (ibidem), ma la tecnologia — espressione della società industriale contemporanea, che l’A. ritiene immodificabile coi mezzi del riformismo tradizionale (pp. 90-91) — resta il nemico fondamentale dell’autentica libertà (p. 80; pp. 92-97), sapientemente e rigidamente circoscritta dai “padroni del discorso” (panem et circenses in cambio di autonomia: si pensi ai vacui divertissements dell’ambiguo mondo LGBT+). La libertà non è comfort o benessere (p. 103 n. 30), che anzi ottundono la mente e svuotano la volontà, rendendo schiavo chi si crede libero (Seneca).
Quella di Kaczynski, sebbene spesso penetrante, è però una elaborazione monca, comprensibilmente reattiva e distruttiva, ma che sceglie consapevolmente di non dotarsi di una pars construens “politica” (p. 32) e “trascendente”, che assuma il peccato originale come origine del divenire. L’esito “positivo” della rivolta non può certo consistere in un primitivismo antistatuale che nega la storia: è proprio qui che si manifesta la tragica impossibilità di una rivoluzione auspicata (e auspicabile), ossia nella incomprensione del dato che sono le idee a fare la storia. D’altra parte, l’A. non sfugge (non può sfuggire) ai limiti del paesaggio culturale statunitense, un contesto-recettore che inevitabilmente deforma o limita ogni tentativo autenticamente “radicale” entro il proprio universo ideologico; inoltre, l’irrefrenabile chiacchericcio dei media relega immancabilmente posizioni pure acute (e coraggiosamente coerenti sino al limite delle possibilità umane) nelle secche dell’irrilevanza e della stravaganza (quando non della criminalità, come in questo caso). L’A. si è detto esser stato ”costretto” ad uccidere (p. 82), per dare una visibilità, altrimenti non conseguibile, alle proprie tesi: cavalcando così la tigre dei media, che però, di rimando banalizzando e guardando consapevolmente al dito e non alla luna, riescono a “satanizzare” (a ridicolizzare, a ridurre allo psicopatologico) i critici più radicali del sistema col potere incontrastato dello storytelling e dell’immagine. “Unabomber” ha combattuto e perso una battaglia che non si poteva vincere; ma, nonostante tutto, è ancora dentro di noi.
]]>Pubblichiamo l’Introduzione di Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa al libro di AA.VV., Gianfranco de Turris. Uomo di espressioni varie e Tradizione una, fra qualche giorno nelle librerie per Oaks editrice (pp. 402, euro 30,00) in cui 77 autori rendono onore agli ottant’anni di de Turris e alla sua instancabile attività letteraria e intellettuale.
Il libro che avete tra le mani non è solo un omaggio a una delle personalità intellettualmente più curiose e trasversali degli ultimi sei decenni italiani. Ne è una collezione di memorie o un resoconto di improbabili “come eravamo”. Piuttosto, è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Sparsi tra i saggi qui raccolti – occasionati dal suo ottantesimo compleanno – non è difficile individuare alcuni dei momenti fondamentali della cultura cosiddetta “non-conformista” e dei saperi “di frontiera”, sensibilità che ha attraversato e attraversa tre generazioni, come dimostrato dall’età anagrafica dei compilatori. Un ambiente che, agli inizi del nuovo millennio, ha ancora molto da dire. Anzi, di più: è forse il solo a disporre delle giuste coordinate per decifrare il futuro.
Questo volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e da Luca Gallesi, che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di “una festa a lungo attesa” in una controstoria della cultura italiana. Essa appare tra le righe dei contributi qui raccolti, alcuni più personali, altri relativi alle attività di GdT, altri ancora dedicati ad alcuni dei molti argomenti di cui si è occupato: il fantastico in tutte le sue forme ed espressioni, Tolkien e Lovecraft, lo studio critico dell’opera evoliana, l’impegno politico-culturale, il ruolo di promotore editoriale… Non mancano nemmeno racconti, soprattutto di tipo fantastico (preponderante, naturalmente, la quota lovecraftiana), che in pochi scambi di battute evocano atmosfere e suscitano mondi, portando i lettori in universi tanto ignoti quanto maledettamente familiari.
Una polifonia di voci che converge però su un unico fuoco: l’attività di qualcuno che ha saputo introdurre nella cultura italiana autori, correnti e pensieri ben prima che il mainstream li riscoprisse, facendolo con una serietà e un rigore editoriale quasi unici in un Paese dove la produzione culturale è venduta un tanto al chilo. Non sono pochi, soprattutto tra i più giovani, coloro che hanno fatto tesoro di questo metodo, realizzando riviste, collane e iniziative usando come preferirei:prendendo a modello quelle di GdT. Che, tra le altre cose, ha sempre evitato quelle passerelle mediatiche che finiscono per stregare – e, spesso, fregare – molti altri. Alla domanda: «Quanti libri ha curato?», risponde sempre: «Non li ho mai contati», quasi scocciato, con una certa impazienza, come a dire: «E ora passiamo a cose più interessanti, come ad esempio il prossimo libro, la prossima rivista, il prossimo convegno…». Anzi, i prossimi, essendo il Nostro capace di lavorare indefessamente su tre o quattro progetti contemporaneamente, senza mai mancare di rispondere alle email, al telefono, né sottraendosi ad amici e collaboratori, in un’epoca di “uomini sfuggenti”.
Ecco, abbiamo ceduto alla tentazione, citando Evola, che ha parlato anche di “impersonalità attiva”, espressione che spesso finisce in bocca a ipertrofici dell’Ego, con i loro eterni ritornelli: «Non mi hai chiamato», «non mi hai citato», «non mi hai invitato»… Nulla di tutto ciò affligge Gianfranco, che attivo lo è, senza ombra di dubbio, e anche impersonale. Impossibile dimenticare infatti la sua attività di cacciatore di talenti nell’ambito della letteratura fantastica. Un talent scouting di cui pochissimi si occupano, preoccupati soprattutto di vedere pubblicate le proprie opere, più che quelle altrui. GdT, no: legge tutto ciò che gli viene spedito (e non è poco), dà consigli, promuove o boccia, suggerisce correzioni, dopodiché, se l’opera è giudicata meritevole di attenzione e pubblicazione, la passa a uno dei mille editori con cui collabora – e tutto questo, gratis et amore Dei, “per puro amore della cosa”, come ama ripetere.
Questo e altro troverete nel libro che avete fra le mani. Introdurlo non è semplice. Difficile chiedere una introduzione al diretto interessato (soprattutto perché, come da antica tradizione, la copertina non gli piacerà, piacendo a noi!). Più facile curarlo, come abbiamo fatto.
Auguri, Gianfranco.
]]>Julius Evola è morto cinquant’anni fa. Sul suo nome continuano a gravare pregiudizi aprioristici recentemente rinfocolati dal battage giornalistico mainstream mirato a promuove un volume poco informato, in cui il pensatore tradizionalista è presentato, nientemeno, come il “mandante morale” dello “stupro del Circeo”. Aveva davvero ragione il filosofo Piero di Vona, uno dei più accorti esegeti della visione del mondo evoliana, nel rilevare l’urgenza improcastinabile, al fine di sottrarre Evola alla denigrazione preconcetta o all’altrettanto sterile esaltazione agiografica, di scrivere una biografia oggettiva ed equilibrata di questo intellettuale che ha attraversato il “secolo breve” da protagonista. A questa esigenza di chiarificazione storica ha risposto Andrea Scarabelli con il suo Vita avventurosa di Julius Evola, nelle librerie per Bietti (per ordini: 02/29528929, pp. 830, euro 39,00).
Si tratta di una ricostruzione minuziosa della vita del tradizionalista, sviluppata in dieci capitoli dal tratto organico, revisionata prima della pubblicazione da numerosi studiosi di Evola e non solo. Il lavoro di Scarabelli ha, innanzitutto, evidente qualità letteraria. La vita di Evola, di certo non comune e al di “sopra delle righe”, nella narrazione è indagata anche attraverso opportuni riferimenti al suo percorso di pensiero. Queste pagine non si limitano alla presentazione di dati biografici, di contingenze storico-esistenziali, ma sono ritratto del: «pensiero incarnato» di Evola. Il lettore abbia contezza che leggerà la: «biografia di qualcuno che non voleva essere biografato, la periodizzazione di un pensiero che ha fatto di tutto per librarsi al di là della Storia, salvo poi scommettere sulla Storia stessa» e sull’impegno in essa al fine di “rettificarne” il corso. Si esce dalla lettura con una certezza: la linearità dell’iter evoliano è più problematica di quanto il filosofo abbia voluto far credere, costituita com’è da punti d’arrivo e ripartenze conseguenti che, in alcuni casi, rappresentano una rottura rispetto alla fase precedente.
Scarabelli si è servito di vasta documentazione d’archivio, ha scandagliato (è la prima volta che ciò accade) l’intero materiale custodito dalla Fondazione, ha consultato epistolari (in alcuni casi inediti), ha raccolto nuove testimonianze, seguendo le tracce lasciate da Evola in Italia e in Europa. Grazie alla vasta documentazione prodotta, si può parlare, e non soltanto per la mole del lavoro, di un libro monumentale, di un’opera spartiacque nella bibliografia critica riguardante il tradizionalista. Il personaggio Evola è qui indagato a tutto tondo, se ne rilevano le positività, la grandezza, ma anche i limiti e i tratti “umani, troppo umani”. Ne esce un ritratto equilibrato: un Evola davanti allo specchio.
Nell’incipit viene ricostruito, compiutamente (per quanto i documenti consentono) l’ambiente familiare, rilevando la natura nient’affatto gentilizia della famiglia di origini siciliane (l’appellativo “Barone”, con il quale Evola è spesso designato, in realtà è un nomignolo attribuitogli nel periodo dadaista). Suggestiva è la ricostruzione del mileu esoterico-occultista di cui Evola fu animatore nella Roma dei primi decenni del secolo scorso all’epoca del «Gruppo di UR», con le sue divisioni e con gli straordinari personaggi che lo animarono, da Reghini a Maria de Naglowska. L’autore presenta anche una puntuale ricostruzione d’ambiente dei circoli futuristi che l’artista-filosofo, dapprima vicino a Balla e poi maggior interprete italiano del dadaismo pittorico-poetico, frequentò nel mentre animava serate memorabili alle “Grotte dell’Augusteo”.
Evola fu anche appassionato viaggiatore. Amò la Capri pre-turistica, cuore del Mediterraneo panico-dionisiaco, rifugio, in quel frangente, di “eretici” di ogni specie e dove Evola acquistò casa, assieme a due amici nel 1943 (Villa Vuotto, in Via Campo di Teste). Qui lavorò a una delle tante riviste progettate ma che non furono realizzate, «Sangue e Spirito», coadiuvato da una giovane e bella segretaria tedesca Monika K., figlia di un fotografo berlinese, la quale, Evola assente dall’isola, si suicidò ingerendo un’ ingente quantità di tranquillanti. La cosa indusse Evola a tornare repentinamente a Capri e a scrivere una missiva accorata alla sorella della giovane amica (l’episodio, fin qui, non era noto). Anche a Vienna, il pensatore, oltre a partecipare alla fondazione, con gli elementi di spicco della Rivoluzione Conservatrice locale, del Kronidenbund: «passa in rassegna […] la dimensione notturna della città». Frequenta un locale denominato, non casualmente, “Il Nulla”, sulle cui pareti si stagliavano simboli ermetico-astrologici e dove: «Al posto dei tavoli vi sono bare e le bevande vengono servite in teschi». In Germania fu ben accolto negli ambienti dell’aristocrazia, intrattenne un rapporto positivo con Edgar Julius Jung, segretario di von Papen, poi eliminato dai nazisti. Non mancano episodi della vita di Evola legati al paranormale: fu invitato, per esempio, al Castello di Tuafers di Campo Tures dove avvenivano fenomeni medianici. Al suo ingresso, tali fenomeni anziché placarsi si accentuarono. Evola li riferì a: «Influenze erranti, energie allo stato libero». Visitò, inoltre, la certosa di Hain, nei pressi di Düsseldorf, dove poté assistere a un rito che: «nel cuore della notte evoca qualcosa di radicale».
Due sono gli aspetti, a nostro parere, più rilevanti che emergono dalla biografia: 1) una relazione medica anonima dell’ospedale dove Evola venne ricoverato dopo l’esplosione della bomba del 21 gennaio 1945 (bombardamento indubitabilmente americano!) in cui compare l’anamnesi dello stato di salute del pensatore e le terapie cui venne sottoposto. Sino ad ora si era sempre ipotizzato che Evola, subito dopo il bombardamento, fosse rimasto paralizzato agli arti inferiori. Dall’esegesi della cartella clinica si evince, al contrario, che furono le terapie applicate, inadeguate alla patologia di Evola, a far peggiorare e degenerare la situazione: si trattò di un caso di malasanità, spiegabile con le condizioni in cui versavano allora gli ospedali austriaci; 2) l’analisi del razzismo evoliano. Il “razzismo spirituale” proposto dal filosofo non solo alla luce delle contingenze storiche era impraticabile e, quindi, inservibile politicamente, ma fu avversato, in quanto “antitedesco”, oltre che dai nazisti, da ambienti afferenti alla Compagnia di Gesù, a padre Agostino Gemelli e a Tacchi-Venturi. Perfino Giorgio Almirante (che più tardi definirà Evola: «il nostro Marcuse») e Giulio Cogni contribuirono all’isolamento di Evola.
Scarabelli nota che, in alcuni scritti e circostanze, anche il filosofo cedette alla cultura del tempo, al razzismo “popolare”, sviluppando considerazioni non condivisibili. Resta il fatto che il “razzista” Evola fu meno “razzista” e “antisemita” di molti altri, successivamente convertitisi agli ideali dei nuovi padroni. Abbiamo fatto riferimento solo ad alcuni dei molteplici aspetti che emergono dalla biografia. La storia terrena di Evola si chiuse con la deposizione delle sue ceneri tra i ghiacci del Lyskamm, dopo non poche vicissitudini: «È la conclusione di una vita avventurosa e non comune, che ha attraversato il ’900, indossandone le maschere e interrogandone gli enigmi».
]]>Seguendo la lezione illustre di Vercos e Irène Némirovsky, Lottman rivela, documenti alla mano, come gli esponenti più in vista della Parigi letteraria che conta, quella per intenderci di André Gide e Jean Paul Sartre, Louis Aragon e Maurice Merlau – Ponty, onde poter continuare a scrivere, insegnare e mettere in scena le proprie opere teatrali indisturbati, abbiano assunto nei confronti dei nuovi signori della guerra giunti dall’altra parte del Reno un atteggiamento tutt’altro che ostile se non perfino connivente, collocandosi per calcolo lungo quella linea grigia dove il confine tra ciò che si ritiene sia giusto e ciò che è facile diventa irrilevante. Comodamente seduti ai tavolini del Café de Flore e dietro le cattedre della Sorbona ammiccano alla Rivoluzione nella quale, secondo lo sprezzante giudizio espresso su di loro da Dmitrij Merezkovskij, “vedono solo un esperimento d’ingegneria sociale, interessante perché si svolge in un luogo lontano ed esotico” che quindi, in fin dei conti, non li riguarda davvero e tuttavia non disdegnano di partecipare, su invito di Otto Abetz, alla mostra intitolata “Le Juif et la France”, organizzata nel settembre del 1941 a Palazzo Berlitz dall’Istituto di ricerca sulle questioni ebraiche, ritrovandosi così gomito a gomito con Georges Montandon, Louis Ferdinand Céline, Lucien Rebatet, Robert Brasillach e Pierre Drieu La Rochelle, vale a dire il fior fiore dell’intellettualità collaborazionista del tempo.
Un tema, quello dell’ambiguità degli scrittori sedicenti democratici con i totalitarismi novecenteschi che anche dalle nostre parti ha offerto alle cronache mondane, giornalistiche e letterarie esempi eclatanti. Se la notizia della collaborazione di un giovanissimo Giorgio Bocca alle pagine de “La Difesa della Razza” di Telesio Interlandi (figura di poliedrico animatore culturale alla quale Giampiero Mughini ha dedicato un libro straordinario edito da Marsilio) è ormai di dominio pubblico e non fa più sensazione, una certa eco ha avuto negli anni scorsi la polemica, rimbalzata sui principali quotidiani nazionali, seguita al ritrovamento da parte degli storici Mauro Canali e Dario Biocca del fitto carteggio intercorso almeno fino al 1931 tra Ignazio Silone e il commissario dell’OVRA Guido Bellomo, dal quale risulta che lo scrittore abruzzese, celato sotto lo pseudonimo di Silvestri, abbia fornito alla polizia politica del regime fascista notizie sugli affiliati al Partito Comunista clandestino al quale lui stesso appartiene. I pasdaran dell’antifascismo militante si sono precipitati a fare quadrato intorno ad una delle figure simbolo della lotta partigiana, dando la stura ad una dietrologica querelle di accuse, controaccuse, rivelazioni e smentite che, in un profluvio di pagine scritte è ben lontana dall’essersi appianata, ma il sospetto rimane. Intervenendo sulla questione in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2015, Sergio Romano ha con acutezza osservato come il caso Silone mostri più di qualche assonanza con la vicenda occorsa ad una altro scrittore dell’epoca, Dino Segre (1893 – 1975), meglio conosciuto come Pitigrilli, del quale la casa editrice milanese Oaks ha da poco riproposto, in una bella edizione a cura di Fabio Andriola, la gustosa autobiografia apparsa nel 1949 per Sonzogno.
Nato a Torino in una famiglia di origini ebraiche dalle solide disponibilità economiche, Pitigrilli fa parlare di sé nel periodo a cavallo tra le due guerre per una serie di racconti a sfondo erotico come Cocaina e Mammiferi di lusso (entrambi disponibili nel catalogo Bompiani) nei quali, con uno stile apparentemente scanzonato e frivolo, mette a nudo senza mezzi termini la doppiezza morale di quella buona borghesia che si ripara all’ombra del Fascismo solo per poter coltivare indisturbata i propri vizi inconfessabili, la stessa che poi, negli Anni Settanta, non avrà remore di sorta a flirtare con le frange più radicali della Sinistra extraparlamentare. Benché il diretto interessato si periti di farci sapere, con uno studiato snobismo dal sapore malapartiano, di non aver mai avuto interesse per la politica, preferendo sempre, al più sciocco dei propri sodali il più intelligente dei nemici, dal saggio che Domenico Zucaro gli dedica nel 1977, Lettere di una spia (Sugarco Edizioni), apprendiamo che Pitigrilli non disdegna di offrirsi come confidente dell’OVRA in cambio di un assegno mensile di cinquemila lire, cifra per l’epoca davvero ragguardevole.
L’Agente 373 (questo il suo nome in codice) si rivela così efficiente nella propria attività di delazione che Mussolini decide di mandarlo a Parigi per prendere contatto in prima persona con i capi dell’opposizione in esilio, guadagnandosi la loro fiducia. Le rivelazioni contenute nei suoi rapporti minuziosamente dettagliati risulteranno essenziali per procedere all’arresto di personaggi del calibro di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi e Leone Ginzburg, come pure nella pianificazione dell’attentato in cui nel 1937 trovano la morte i fratelli Rosselli. Un’eredità senza dubbio ingombrante, soprattutto per un figlio disperso d’Israele, che spiega in gran parte la coltre di silenzio sollevata intorno a lui nel dopoguerra. Un ostracismo che tuttavia non sminuisce le sue qualità di scrittore. Maestro insuperato del paradosso, Pitigrilli finisce per trovare il suo più attento esegeta nientemeno che in Umberto Eco, altro nume tutelare della cultura dominante il quale, in virtù di uno di quei cortocircuiti ideologici ai quali il Novecento ci ha resi avvezzi, lo definisce prosatore “sapido e rapido, fulminante”. Riproponendo nel 1976 l’edizione critica di alcune sue opere, è proprio l’autore de Il nome della rosa a fornirci il ritratto dello scrittore torinese che, a mio giudizio, meglio si attaglia alla sua sulfurea personalità. “Amareggiato da nemici reali, Pitigrilli si affanna contro nemici immaginari per coltivare la sua dolente bizzosità, sanculotto che attacca la Bastiglia nella speranza di essere invitato a cena da Maria Antonietta e che, una volta invitato, fa arrossire le signore presenti, convinto di aver fatto il suo 14 luglio, ma si lamenta poi di essere un incompreso quando viene bastonato dai servi”. Non so che cosa ne pensiate ma, visto così, sembra un tipaccio che vale la pena conoscere.
A cura di Fabio Andriola, Pitigrilli parla di Pitigrilli, Oaks Editrice, Sesto San Giovanni 2023; pag. 276, € 28,00.
]]>Il pensiero di Jakob Böhme (1575-1624) è, per chi scrive, cruciale per l’influenza che ebbe sui romantici e la filosofia classica tedesca, quanto per il tratto dirompente dei suoi contenuti, soprattutto se confrontati con la vulgata teoretica e teologica contemporanea. Usciamo dalla lettura di un volume di Alexandre Koyrè, La filosofia di Jakob Böhme, curato da Francesco Novelli, nelle librerie per Mimesis (pp. 703, euro 32,00). Il lucido e dirimente saggio introduttivo è firmato dal curatore stesso. La filosofia di Jakob Böhme è una puntuale e organica esegesi della proposta speculativa-realizzativa del tedesco, che consente al lettore di coglierne gli aspetti sostanziali e quelli accessori.
Koyrè, studioso franco-russo, fu uno dei massimi promotori della Hegel Renaissance in Francia. Fu docente all’École des hautes études di Parigi, dove operò sotto la sagace guida, tra gli altri, di Étienne Gilson. Successivamente, si avvicinò, attraverso la fenomenologia di Husserl, alla “filosofia del vissuto”. È questa una delle chiavi interpretative di cui si serve in queste pagine dedicate alla mistica böhmeiana. Obiettivo di Koyré è far parlare il teosofo con “la propria voce”: «prescindendo il più possibile da postulati genealogici di discendenze, influenze e derivazioni» (p. 9). Altri aspetti metodologici da tenere in debito conto, per avere acconcio accesso al libro, sono il rifiuto della ratio positivista e del determinismo marxista, nonché l’interesse di Koyré, condiviso con l’antropologo Lévy-Bruhl, per la riemersione della mentalità arcaica nel pensiero moderno, sospeso tra queste riviviscenze e: «nuove rivoluzioni epistemiche» (p. 10).
L’esperienza di Böhme è un tentativo di rispondere a una domanda circostanziata: «A cosa mi serve una scienza nella quale io non possa anche vivere?» (p. 108). Quesito sollecitato dalla constatazione, nel frangente storico in cui gli toccò in sorte di vivere: «di una scissione tra il vissuto religioso e l’istituzione ecclesiastica luterana» (p. 10). La Slesia era, allora, terra devastata dalla guerra dei Trent’anni: in quella regione la nobiltà rurale impoverita e gli artigiani delle città erano particolarmente sensibili alle dottrine mistiche e critici nei confronti della chiesa visibile. Böhme si prefisse, pertanto, di corrispondere a due istanze vividamente avvertite: ricongiungere l’uomo a Dio e affrontare il problema della presenza del male nel mondo. A suo dire: «L’esperienza tragica dell’uomo è riflesso, immagine o similitudine […] di quella, altrettanto tragica, di Dio. La vita di Dio […] è evoluzione, storia, processualità» (p. 15). In Böhme, l’emanazionismo ipostatico assume una curvatura emozionale e fisica, che si lascia alle spalle l’autocostitursi del divino inteso in termini meramente concettuali e logocentrici. Esso ha, invece, a che fare con la “nascita”, Geburt. Per questo, il Dio cui allude il teosofo-ciabattino, è personale e vivente. In tal senso, egli si richiama, in modalità non scolastica e ripetitiva, all’henologia di Eckhart. Laddove questi e, più in generale la mistica renana, avevano pensato la Deità quale terminus ad quem del tragitto dell’anima, Böhme, al contrario, esperisce la Gottheit quale terminus a quo della complessa, dolorosa, auto-gestazione del divino. Pertanto: «Il Dio-Persona […] contiene in sé ogni “differenza”, tutto l’infinito di opposizioni e distinzioni che eternamente supera e riunisce […] È nel movimento, e il movimento è in lui» (pp. 17-18).
L’intera visione teologica del tedesco è irrorata dall’idea di seme, germe cosmico, (Keim), intesa quale mysterium vitae: «È […] una unione dei contrari, perfino dei contraddittori. Il seme è […] ciò che esso non è. È già ciò che non è ancora […] Eppure non lo è […] Il seme è […] la “materia” che evolve e la potenza che lo fa evolvere» (p. 217). È un chiaro riferiemento alla dynamis greca, che la ragione calcolante, identitaria e dicotomica, non è in grado di cogliere. Tale idea troverà in Schelling un’eco profonda, in particolare, rileva Koyré, nella filosofia della libertà. Jean Wahl, autore di un noto volume sulla “coscienza infelice” di Hegel, recensì entusiasticamente l’opera di Koyré al fine di giustificare la propria esegesi del filosofo di Stoccarda: «come pensatore romantico animato da afflati mistici e tragici» (p. 13). In realtà, il “negativo”, la tragedia, nel sistema hegeliano, sono tacitati ab initio: «la sua tragedia è un tragedia del pensiero, non una tragedia vissuta […] il tragico che è reale per l’uomo, non è affatto reale per Dio: per Dio- e anche per Hegel- la tragedia è già superata» (p. 14). L’eredità speculativa di Böhme, al contrario, è viva in Schelling, che aveva ben compreso, rileva Koyré, come in Hegel il tragico fosse fittizio, da sempre risolto dialetticamente in un nuovo positivo. Un Dio puramente spirituale, chiosa Böhme, sarebbe imperfetto, in quanto persona deve avere un corpo.
Dio ha in sé una natura che pur non coincidendo con lui, lo induce, lo sospinge al novum, oltre se stesso, fino all’auto-rischiaramento. Per Koyré, in Böhme i contrari si richiamano l’un l’altro, si implicano: l’uno si dice solo nei molti: «Tale è il grande mistero dell’essere» (p. 360). Egli trasforma la “metafisica della luce” in una “metafisica del fuoco”: la natura divina è fiamma ardente, pyr eracliteo, potenza distruttrice e generatrice: «È in Dio quella morte che è origine della vita, il fuoco senza il quale non vi sarebbe né fiamma né luce» (p. 371). Il fuoco è principio infondato e spiega la polarità dinamica del reale. Il mondo, in tale ottica, ha le fattezze della paracelsiana signatura rerum, è espressione nel senso indicato da Giorgio Colli di un Ab-grund, ed è in relazione biunivoca e simpatetica con l’invisibile. Il linguaggio di Böhme, il suo tedesco “selvatico”, testimonia il tentativo böhmeiano di porsi oltre l’analitica della Vernuft, oltre il tratto dia-bolico e divisivo che la connota, al fine di alludere al mistero della coincidentia oppositorum: una faticosa pratica, quella del teosofo, che ha a che fare con la professione artigianale che egli esercitò in vita, quella di calzolaio, teso a concedere un Grund, un suolo, a un Dio vivente, “corporeo”, che agita, ab initio, gli enti. Prassi artigianale e “demiurgica”, traslata in filosofia.
Alla teosofia di Böhme debbono guardare quanti vogliano sottrarsi al dominio del concetto e dell’onto-teo-logia, quanti vogliano recuperare alla prassi teoretica la dimensione museale, immaginale, al fine di cogliere l’essere sempre all’opera del principio, della dynamis, libertà-potenza. Il libro di Koyrè, in tal senso, è utile e illuminante viatico.
]]>Attenti e compiaciuti lettori, quel che vi presento in questo mio nuovo testo non parrebbe di avere niente a che fare con la scienza indoeuropeistica, almeno stricto sensu, ma in lato sensu sì, certamente, e ne capirete tra poche righe il perché.
Daudeferd, infatti, non si occupa solo di Glottologia, Linguistica comparata, documentazione archeologica e antropologica, ma si occupa da svariati anni anche di particolari forme di espressione musicale che ovviamente trovano linfa vitale e scopo nell’alveo dei culti ancestrali e delle più avite tradizioni dei popoli d’Europa: conoscere, vivere, contestualizzare, tutelare, conservare tutto il nostro patrimonio culturale e spirituale, nostro remoto retaggio, nostro cammino e nostro obiettivo futuro.
Fortunatamente, in questa oscura epoca (Kali Yuga), sì tanto decadente divenuta ed ancora in fieri, abbiamo noi Europei la possibilità di appigliarci alle nostre memorie storiche e folkloriche, potendo così trovare scampo alla implacabile piaga del ‘’deserto che avanza’’; di rimanere sempre verdi e vitali dinanzi alla morte spirituale e culturale quale peggiore e mesto scenario a cui ormai ahimè siamo avvezzi nel nostro quotidiano vivere.
Lo studio ci salva, ma anche l’arte. Continuiamo ad essere, anzi a persistere, come il nostro avo Cro-Magnon ci ha abituati sin dagli albori della nostra presenza (Satya Yuga) nella nostra Urheimat: allo studio della Natura, all’osservazione dei fenomeni, alla contemplazione dei noumeni, alla codificazione delle nostre acquisizioni cognitive in simboli, all’operatività prescelta nell’esprimere e comunicare la nostra profonda consapevolezza, l’essenza dell’Io, che ovviamente necessita quel Werkraum per lasciar traccia del proprio sé. Il graffire un segno sulla nuda e fredda roccia è imprimere la propria memoria, la propria Voluntas: una Actio che diventa simbolo del proprio sé, della propria Weltanschauung, ed essa si fa Storia, la Storia si fa Cultura, e la Cultura è sopravvivenza, ed ancora a livelli più alti di consapevolezza, essa, la Sapienza, trascendentale, fa della Cultura il segno dell’esistenza.
Questa Voluntas, tra le varie modalità espressive, ha come canale di energia anche le onde sonore: parole, espresse in prose e poesie, canti e suoni, anche accompagnati da movimenti del corpo intenti a formare sincronicamente simmetrie, che scandiscono in modo quantitativamente preciso (numerico) e qualitativamente programmato (cadenza-metro) il tempo impiegato all’abilità performativa entro quello spazio prescelto quale luogo sacro (‘’ritagliato’’, come usavano dire gli antichi Elleni con temenos). Così nacquero le arti del narrare, della musica e della danza, quali momenti celebrativi e rituali-propiziatori che le Muse ci dettero nel tempo antico. E con esse, con le arti, noi possiamo portare avanti le nostre speranze: la nostra sopravvivenza.
Certo, nel tempo, tutte queste forme espressive (d’arte) hanno perso il loro valore sacrale degli albori, divenendo viepiù sempre più ‘’umane, troppo umane’’, più decadenti: verso quell’umano ‘’sin troppo umano’’, ben lontano dalla Kultur e sempre più affetto di Zivilisation, con il quale noi Europei, ahimè, proprio ai tempi odierni non ci riconosciamo per niente.
C’è chi come me ha fatto scelte diverse, proprio perché nutre sentimenti differenti dalla massa della Zivilisation, e anela ardentemente alla Kultur, a quella voce remota della Tradizione, del retaggio dei nostri Ahnen, gli Avi.
Poiché Homines, si sa, similes cum similibus facillime congregatur: ed ecco che ci siamo ritrovati e riuniti ad una nuova tavola rotonda, provenendo da varie e remote parti del nostro Miðgarðr, avendo ascoltato il richiamo della nostra Tradizione ancestrale.
The Hyperboreans’ Sun, ossia ‘’Il Sole degli Iperborei’’, è un sodalizio artistico-musicale, spirituale e culturale, nato per mia volontà e che ha riunito attorno ad un comune fine, il risveglio e la tutela della Tradizione ancestrale europea, progetti musicali come Sun Vessel dai dintorni di Melbourne (Victoria, Sud-Est dell’Australia), Atlantean Blood dalla Germania, The Weird Rider da Kiev, Ucraina, e Discipline Of Hate dall’Italia. Questo risveglio e questa tutela della Tradizione ancestrale europea, in preciso ambito sacrale, mai fu tanto preciso il termine di Bloodtheism (preso dal titolo di un album di un progetto che adoro, gli Arditi), che potrebbe facilmente -sebbene non letteralmente- tradursi in ‘’Culto delle proprie radici’’, o anche delle proprie origini.
Sono molto differenti gli stili musicali seguiti e proposti da questo sodalizio ‘’iperboreo’’, ma è giusto anche dire che seppur apparentemente diversi tutti essi prendono forma da una sostanza comune, condividendo comunque lo stesso genoma, la medesima essenza, che ben si manifesta -e buon sangue non mente- nelle emozioni (input) e sensazioni (output) che essi stessi, indipendentemente l’uno dall’altro, o tutti essi fusi in un’unica cosa, riescono a destare nell’ascoltatore: Neofolk, Ambient, Black/Death Metal ….. Musica per la Tradizione europea.
Inizio col recensire il primo album/cd, a cui segue anche una brevissima intervista all’artista australiano da me condotta (e così farò anche con gli altri, tranne, ovviamente, con i Discipline Of Hate).
Più di un anno fa, così per caso, mi imbattei sul web, in cerca di sonorità che già ben conoscevo, in questo progetto nuovissimo e freschissimo di meraviglioso Neofolk: Sun Vessel ….. dall’Australia. Il primo brano che ascoltai, Sacred Nobility, con quella peculiare immagine scelta accuratamente per fare da sfondo perfetto alla soave cascata di versi, fu folgorante. Mi venne la pelle d’oca: musica, parole e quella immagine erano e tuttora sono ….. semplicemente perfetti. Cercai altri brani allora, trovandone sempre di belli, sempre ardenti e soavi al tempo stesso, di cui uno addirittura con il campionamento della voce di Julius Evola, presa da una tarda intervista: The Long Peace That Follows. A quel punto provai anche uno strano brivido percorrere il mio corpo: io devo assolutamente contattare questo musicista!
Ascoltai tutti i brani disponibili sul web, il suo album, Etched In Eternity, al tempo non ancora disponibile su formato discografico (autoprodotto e rilasciato in data 2 Aprile 2022), il suo mini album, Toil & Trial, anch’esso molto accattivante sin dalla copertina (quattro brani, tutti belli, molto evocativi, soprattutto dai forti toni nostalgici, Toil & Trail, Honour Again, Spirit Of The Age, We Were Born In The Right Time, autoprodotto e rilasciato in data 21 Settembre 2021), poi altri brani ancora (fino all’ultimissimo album, ancora autoprodotto, A Seed Fallen To Earth, firmato in data 14 Gennaio 2024); senza contare le sue bellissime partecipazioni a cover e collaborazioni varie. Intanto, lui, il nostro artista australiano, mi rispose, davvero molto compiaciuto ….. sebbene io fossi probabilmente ancor più compiaciuto di lui. E tra le altre cose, senza saperlo, lo avevo già trovato tempo prima (1 o due anni prima, non ricordo), ma smarrito nel marasma del web, a dir il vero senza così tanta attenzione da parte mia dopo aver visto e ascoltato un suo ‘’strano’’ o meglio dire inusuale video nel quale leggeva proprio alcune Meditations on the Peaks: Mountain Climbing as Metaphor …, ovvero ‘’Meditazioni dalla cima della montagna: scalare montagne quale metafora’’ di Julius Evola! Quel testo a noi Italiani noto col titolo: Julius Evola, Meditazioni delle vette, Edizioni del Tridente, La Spezia 1971.
Intanto quella musica, la sua arte, per mesi e mesi ha invaso la mia mente, e sino ad oggi, anche a distanza di tempo e così ripetuti ascolti, essa risulta essere sempre nuova, fresca, bella, rinvigorente, da pelle d’oca: proprio quanto gli dissi sin dall’inizio, in perfetto stile di cantautorato alla Death In June dei primi anni ’90, una buona dose di primissimo Of The Wand And The Moon ed un cucchiaino proprio (just a tea spoon) di primordialissimi Strength Through Joy; ma il tutto eseguito in un modo assolutamente personale, consono ad una forte e spiccata personalità, molto strutturata.
Anche se l’album Etched In Eternity si snoda in un continuum di ballate tipicamente Neofolk (nove brani su un totale di dieci), una più accattivante dell’altra, dalla prima, Beauty Is In The Way We Live, passando con nobile tatto a True Abode, Clear Was The way, Light Of The Heart, Golden Hour, Our Torch Shines Brightly, Now & Forever, la suddetta The Long Peace That Follows dedicata a Julius Evola, e così via fino alla sensazionale, dinamica, imperativa ed ultima Resistance Is Fertile, che precede la suddetta Sacred Nobility, ve ne è una, Sky-Way Of Warriors molto evocatica ed in stile Martial, in cui l’influenza ‘’ardita’’ degli Arditi è facile da scorgere (piacciono molto ad entrambi, infatti).
Ebbe inizio così la nostra corrispondenza, facendo così conoscenza reciproca e avviando anche la nostra collaborazione. Lo aiutai nella ricerca di una label, ma alla fine un altro palato fino del genere Neofolk si fece avanti dalla Francia e gli produsse finalmente l’album nel corso del 2023 con il marchio In Illo Tempore, parte della Vltima Ratio Regvm, ora divenuta Gladivs.
Anche quest’ultimo lavoro di Sun Vessel, A Seed Fallen To Earth, non fa ancora una piega: si presenta sempre bello, delicato, introspettivo, ma al tempo stesso splendente, imponente, proprio come un tenero germoglio di primavera, ancora bianco e verde molto chiaro, così tanto tenero, tutto avvolto dalle annerite fronde boschive cadute nel tetro e mortuario autunno ed imbibite di umidità, ma che grazie all’energia ricevuta dal Sole di primavera con inarrestabile forza inizia ad ergersi verso l’infinito celeste, l’iperuranico regno degli Altissimi, divenendo lentamente ma continuamente, inarrestabilmente, superando ogni avversità, quella robusta quercia che ci sovrasta immane: l’albero secolare del fulmine, che nella Weltanschauung indoeuropea è *perkw–os ‘’colpito’’ ….. dalle saette del Dio Padre Celeste (da cui il lemma latino quercus, quello gallico o celtico herkos, così anche ᚪ ac del sistema runico anglo-sassone/frisone, da cui a sua volta la derivazione inglese oak, quella tedesca Eiche e quella norvegese eik). Altri dieci brani, tutti da amare, tutti da ascoltare più e più volte, riscoprendo in essi, proprio come nel primo album, nuove sensazioni, nuovi pensieri, nuove meditazioni, sempre nuove energie: Meditation Beyond Good & Evil, The Ecstasy Before The Agony, Through The Copse, Thorugh The Meadow (con la collaborazione della notre belle fille Camarade celto-bretone Bleunwenn, di cui riporto la strofa finale ‘’I remember a place I’ve never been/it’s more my home than any place I’ve known in this life/home, I’m coming back to you/I’m returning to the Source’’, firmata in data 18 Febbraio 2023, in traduzione ‘’Ricordo un luogo nel quale non sono mai stato/ma mi è più familiare di qualsiasi altro luogo io abbia conosciuto in questa vita, ed io ci sto ritornando/io sto facendo ritorno alle Origini’’), Seeking Always The Silence (ispirata alla vita del tedesco Hans Georg Henke, che giovanissimo milite di soli 16 anni al servizio della Luftwaffe per la difesa della propria Patria, rimase immortalato piangente nei famosi scatti fotografici del giorno 3 Aprile 1945, quando venne raggiunto dai soldati americani della 9° Armata, di cui riporto ancora la strofa finale … ‘’The grief teaches lessons/that no other can/but silence is courage/this too shall pass’’, firmata in data 13 Ottobre 2022, in traduzione ‘’S’impara dal dolore/ciò che nient’altro può fare/ma il silenzio è coraggio/anche questo dovrà finire’’), Mutinous Destiny, Creation’s New Camouflage, No Mediation; Pure Contact, Purity’s Witness, Divine Authority, Dharma Quest.
Vi presento Sun Vessel, per la prima volta in assoluta e mia esclusiva al pubblico italiano.
Riporto la breve intervista sia in lingua inglese sia in lingua italiana; nella versione originale in lingua inglese (in corsivo), così che i lettori possano anche cogliere il senso originario, scritto direttamente dall’artista.
Why Sun Vessel? What inspired you for such a name?
Perché Sun Vessel? Cosa ti ha ispirato per un nome simile?
The name came to me when I was considering a project through which solar-oriented ideas and concepts could be expressed. The sun represents this metaphysical principle in phenomenal form. A vessel contains something. Therefore putting the two together, ‘’Sun Vessel’’ presented itself, and music was the medium in which it found its output.
Il nome mi è venuto in mente mentre stavo valutando un progetto attraverso il quale si potessero esprimere idee e concetti orientati al solare. Il sole rappresenta questo principio metafisico in forma fenomenica. Un vaso contiene qualcosa. Quindi mettendo insieme i due, ‘’Sun Vessel’’ si è presentato e la musica è stata il mezzo in cui ha trovato la sua uscita.
What about your Runic path and Traditionalism?
Cosa mi dici del tuo percorso runico e del tradizionalismo?
From the moment I ever saw runes, something stirred within. Perhaps it was blood memory, but I knew that they had a big significance in our history as European people, not only for writing but for all sorts of things magical and spiritual.
Having being raised a Christian, but never quite ‘’internalizing it’’, I was a bit jaded with the Abrahamic view of things and started to look elsewhere. After floundering around a bit with dead ends, I began researching Indo-European religion generally and found resonance with much of it, including Eddic, Vedic and Buddhist writings as well as Greco-Roman. Alongside all this I was also reading stuff from the Traditionalist school.
So you could say laying eyes on the runes really had a big hand in where I am today. I don’t begrudge my Christian upbringing though, it’s played a part as well. I’ve always been interested in the big questions.
Dal momento in cui ho visto le Rune, qualcosa si è mosso dentro. Forse era un ricordo di sangue, ma sapevo che avevano un grande significato nella nostra storia come popolo europeo, non solo per la scrittura ma per ogni sorta di cose magiche e spirituali.
Essendo cresciuto come cristiano, ma non avendolo mai ‘’interiorizzato’’ del tutto, ero un po’ stanco della visione abramitica delle cose e ho iniziato a guardare altrove. Dopo aver dibatteto un po’ in vicoli ciechi, ho iniziato a fare ricerche sulla religione indoeuropea in generale e ho trovato risonanza con gran parte di essa, compresi gli scritti eddici, vedici e buddisti, nonché greco-romani. Oltre a tutto questo leggevo anche materiale della scuola tradizionalista.
Quindi si potrebbe dire che posare gli occhi sulle Rune abbia davvero avuto un ruolo importante nel determinare dove mi trovo oggi. Non disprezzo però la mia educazione cristiana, anche questa ha avuto un ruolo. Sono sempre stato interessato alle grandi domande.
Tell us about your first meeting with Evola’s books and thoughts.
Raccontaci del tuo primo incontro con i libri e i pensieri di Evola.
I began to read his works in my early 20s. I began with Revolt Against the Modern World, which was a mistake (or was it?), as it’s one of the most difficult of his works to understand, especially when you don’t know where he’s coming from. Eventually, after reading some of his other books and soaking up some understanding of his position, I was finally able to gain some understanding as to what he was saying in Revolt, and it opened up a new world for me. As I said, all this alongside the many religious texts I was reading.
Ho iniziato a leggere le sue opere quando avevo vent’anni. Ho iniziato con Rivolta contro il mondo moderno, che è stato un errore (o forse no?), poiché è una delle sue opere più difficili da comprendere, soprattutto quando non sai da dove viene. Alla fine, dopo aver letto alcuni dei suoi altri libri e aver compreso un po’ la sua posizione, sono riuscito finalmente a capire cosa stesse dicendo in Rivolta, e mi ha aperto un nuovo mondo. Come ho detto, tutto questo insieme ai tanti testi religiosi che stavo leggendo.
What is the real purpose of Sun Vessel?
Qual è il vero obiettivo di Sun Vessel?
It was started out of a need to channel creative energy into something healthy, and to illustrate concepts, ideas and feelings in order to ‘’get them out’’, instead of letting them brew. It’s never all sunshine, sometimes it’s clouds. My hope is that it’s contributing toward something bigger than itself, too.
È nato dalla necessità di incanalare l’energia creativa in qualcosa di sano e di illustrare concetti, idee e sentimenti per ‘’farli uscire’’, invece di lasciarli fermentare. Non c’è mai sempre il sole, a volte ci sono anche le nuvole. La mia speranza è che contribuisca anche a qualcosa di più grande di se stesso.
1 | Beauty Is In the Way We Live | |
2 | True Abode | |
3 | Clear Was the Way | |
4 | Light of the Heart | |
5 | Golden Hour | |
6 | Our Torch Shines Brightly, Now & Forever | |
7 | The Long Peace that Follows | |
8 | Sky-Way of the Warriors
Featuring – Nullus Abnormocracy |
|
9 | Sacred Nobility | |
10 | Resistance Is Fertile |
Link utili per ascoltare e comprare i dischi di Sun Vessel:
https://sun-vessel.bandcamp.com/
https://vltimaratioregvm.bandcamp.com/album/etched-in-eternity (vedasi adesso Gladivs, sempre su Bandcamp.com)
https://gladivsrecords.bandcamp.com/album/etched-in-eternity
Youtube.com/@sunvessel
https://bio.link/sunvessel
Ma la magia di Sun Vessel non rapì in quel periodo soltanto me. Questo almeno compresi, allorquando, così, all’improvviso, si fece avanti un misterioso progetto musicale e culturale, con il fragoroso e folgorante nome di Atlantean Blood: un vero e proprio lampo nel firmamento della musica sperimentale, psicadelica ed ambient, che dapprima ci lasciò stupiti, letteralmente a bocca aperta, con una cover di Sun Vessel, precisamente la bellissima ballata Sacred Nobility, che tanto piacque e lasciò attonito anche il nostro australiano. Da lì a poco nacque l’interesse, tanto in Sun Vessel tanto in me, per questa nuova rivelazione, accorgendoci che era da anche un po’ di tempo che questa stupefacente e misteriosa entità pubblicava non solo brani musicali, uno più bello ed interessante dell’altro, ma pure particolari video incentrati sui culti antichi della Tradizione europea, sempre con un certo accenno paneuropeo tra l’altro, ed altri incentrati su meditazione yogica e runica. Ci accorgemmo anche che Atlantean Blood non agiva da solo, ma spesso accompagnato da una meravigliosa voce femminile, che sempre dava quel qualcosa in più sia in bellezza sia in completezza armonica, che ben più ne esaltava la potenza dei vari brani. E il nostro australiano cosa fece allora? Per nobile risposta fece una cover di Atlantean Blood, precisamente un brano preso dal suo secondo album, Dreams Of The Black Sun, intitolato Blood Memory, a cui pure diede un nuovo magico sfondo ad accompagnare le meravigliose melodie: ancora una volta, nel nostro australiano emerge dirompente quello state of mind che è l’Europa più antica ed incontaminata. I due progetti si incontrano, stringono fratellanza, e così anch’io entro nella cerchia ristretta di Astral Avalon, il nome dato da Atlantean Blood al proprio spazio creativo spirituale e culturale. Incontriamo così anche la giovane ucraina The Weird Rider, e conviene pure Bleunwenn della meravigliosa terra di Bretagna, il Finis Terrae celtico. Inizia così una nuova fase con un rinnovato sodalizio, e cominciano pure svariate collaborazioni: un brano pensato da me, con un testo scritto da me, nel quale presero parte tutti quanti per dedicarlo a sorpresa a Sun Vessel; un brano che si inspira direttamente, già nel titolo e nella impostazione, allo struggente pezzo di Death In June, intitolato This Is Not Paradise dell’album But, What Ends When The Symbols Shatter?, narrato, non cantato, splendidamente da David Tibet dei Current 93. Il brano in questione, non fa una grinza, è stato intitolato Rhys … This Is Not Paradise, ancora una volta narrato, non cantato, in lingua inglese da The Weird Rider e in lingua francese da Bleunwenn. Ed ancora una volta, Sun Vessel ‘’chiama’’ in soccorso Atlantean Blood e The Weird Rider per un nuovo brano, tutto particolare, questa volta elettronico, intitolato Calling Forth, ben ispirato a quei particolari pezzi elettronici di Nada! di Death In June nell’ormai remoto 1985. Il brano infatti ricorda anche nel titolo il noto pezzo The Calling dell’album Nada!, ed è molto bello, nostalgico, come sempre: antico e nuovo al tempo stesso. Anche The Weird Rider e Bleunwenn fanno musica per loro conto ed hanno produzioni all’attivo, sebbene i due generi siano molto diversi. L’ucraina The Weird Rider ci delizia con sonorità molto plumbee ed elettroniche, che hanno il loro fascino, cercando di esprimere quella profonda sensazione di sgomento e magnificenza acquisita dinanzi al complesso simbolismo arcano indoeuropeo: l’Ucraina fu terra di ondate Kurgan, di Sciti, Slavi, Variaghi, questo non si dimentichi.
Se il primissimo album di Atlantean Blood, tutto rigorosamente Ambient, intitolato Basileia e sinora mai dato alle stampe ufficiali, è stato privo di cantato, ecco che dal secondo, ormai divenuto un duo molto psicadelico, la fragranza di The Weird Rider si fa sentire quasi in ogni brano, e così anche nel terzo album Transmission From Orion che io ricevetti come regalo nel giorno del mio compleanno. Bellissime le cover eseguite da Atlantean Blood–The Weird Rider: Helige Krieg dei grandi Werkraum e Little Black Angel dei Death In June, poi inserita in questo nuovo terzo album ma rinonimata per l’occasione Little White Angel; entrambi eseguite con stucchevole originalità. The Weird Rider intatto ha dato i suoi frutti: il suo primo ep, intitolato Exploration Of Hidden Knowledge, rilasciato in data 11 Settembre 2023 e contenente questi accattivanti 4 brani per all’incirca 28 minuti di magico-onirica musica elettronica (Lunar Path, Shipwreck, Encrypted Signals ed Errata), è disponibile attraverso il canale di distribuzione del circolo Astral Avalon, assieme al materiale discografico di Atlantean Blood.
The Weird Rider
1 Lunar Path 07:502 Shipwreck 06:483 Encrypted Signals 06:094 Errata 06:57
Sembra impossibile stare appresso a questa Kundalini ridestata ed ormai in flusso: Vril aziona senza soluzione di continuità Atlantean Blood e The Weird Rider, con sempre nuove tracce sonore, sempre nuove grandi sorprese per l’udito e l’anima. Poi un altro video di Atlantean Blood, e qualche giorno dopo una nuova collaborazione tra Sun Vessel, Atlantean Blood e il canto eterico della nostra ucraina. Prima di passare alla doppia intervista ad Atlantean Blood e The Weird Rider, voglio aggiungere poche altre righe agli album di Atlantean Blood sinora disponibili, anche solo da ascoltare via web.
Il primo, Basileia, album totalmente Ambient, molto interessante, attualmente è soltanto disponibile per l’ascolto online. Magari, forse in un non lontano futuro verrà dato alle stampe da qualche benemerita label. Lo speriamo. L’ultimo brano è un eccezionale omaggio ad uno dei Nostri Grandi e Irriducibili: Varg Vikernes, il Lampo nel firmamento del Nord.
Il secondo album, Dreams Of The Black Sun –il titolo dice già tutto-, si presenta in tutto lo splendore della metamorfosi compiuta dal progetto: l’Ambient c’è ancora, ma ben diluito nell’intruglio magico e arcano di Progressive, Martial, Neofolk ed anche qualcosa di molto particolare che sfiora persino il Doom. Brani come Secrect Of The Vril Women, Lucifer-Kristos, Northern Heritage (poi ripresentata in nuova versione nel seguente album, Trasmission From Orion, così come altre) e Blood Memory (rifatta, come già detto da Sun Vessel), lasciano il segno. L’album, dapprima rilasciato in versione su cassetta, molto old fashioned, dalla piccola label tedesca Teutonic Fury, poi è stato rilanciato in formato cd con nuovo artwork, e di recente anche nella splendida versione in vinile 12’’ in collaborazione con l’altra label, sempre tedesca e molto rinomata, ossia la Darker Than Black. Il terzo album, Transmission From Orion, non è ancora disponibile in alcun formato, ma ascoltabile via web; è sempre sulla scia del secondo, con questo intruglio mantrico a base di Progressive, Martial e Neofolk, ma meno ambient, e con brani nuovi che restano in mente per tutto il giorno e si canticchiano con grande facilità: la prima traccia, Apoliteia, approssimativamente recita: ‘’I want to leave so far away from the sick society,/I want to live on my own in a place of ancient stones,/Apoliteia, Apoliteia …’’, in traduzione ‘’Io voglio andar via così lontano dalla società marcia,/io voglio starmene da solo in un luogo di pietre antiche,/Apoliteia, Apoliteia …’’ e come dargli torto! A questa prima bellissima canzone segue Beyond The Northern Wind, che mellifluamente trascina estaticamente fino a Satya Yuga Will Come con il suo caratteristico mantrico refrain: ‘’… Satya Yuga, Satya Yuga, Golden Age will come again’’, in traduzione ‘’… Satya Yuga, Satya Yuga, l’Età aurea ritornerà’’. Poi la suadente Orion, l’energica Isle Of Thule, il rifacimento di Northern Heritage con The Weird Rider (suo remixaggio), e così anche la cover di Death In June rinominata Little White Angel, che è semplicemente stupenda! Tutto l’album, sebbene molto breve, come il secondo del resto, meno di 30 minuti entrambi, è molto bello, resta impresso nella mente e ad ogni ripetuto ascolto è come se si rinnovasse, volta per volta, potendo in esso cogliere sempre dei messaggi nuovi e delle peculiarità uniche proprie del suo stile unico, inequivocabile.
Dreams Of The Black Sun
1 Secret Of The Vril Women
2 Northern Heritage
3 Princess Basileia
4 Pleiadians
5 Lucifer Kristos
6 Allfather Wotan
7 Blood Memory
8 Untersberg
9 Fuer Elise
Segue ora la breve e doppia intervista al frontman del progetto Atlantean Blood (AB) e The Weird Rider (TWR): ad ogni domanda le risposte di entrambi nell’originale inglese e poi da me tradotte in lingua italiana.
Why Atlantean Blood/The Weird Rider (everyone answers for one’s own project)? Please, explain to us the choise and the meaning
of such a name for your project.
Perché il nome Atlantean Blood/The Weird Rider (ognuno ovviamente risponde per il proprio progetto)? Per favore, spiegateci la scelta e il significato di un nome simile per il tuo progetto.
AB: The name is supposed to express a closeness to our roots (from an exoteric perspective). We used the term ‘’atlantean’’ because it sounded best to us. It also could have been ‘’hyperborean’’ or ‘’thulean’’ or something similar, but the term itself isn’t that important.
TWR: I came up with this artist name a long time ago, without putting any meaning into it. It just appeared in my head. Later I found out that the weird/wyrd is the web of destiny and Odin was a Rider. So the beautiful coincidence turned out.
AB: Si suppone che il nome esprima una vicinanza alle nostre radici (da una prospettiva exoterica). Abbiamo usato il termine ‘’atlantideo’’ perché ci suonava meglio. Potrebbe anche essere stato ‘’iperboreano’’ o ‘’thuleano’’ oppure qualcosa di simile, ma il termine in sé non è così importante.
TWR: Mi è venuto in mente questo nome artistico molto tempo fa, senza dare alcun significato preciso ad esso. Mi era appena apparso in testa. Più tardi ho scoperto che lo Weird/Wyrd è la rete del destino e Odino era un Cavaliere [Egli, Padre di Tutti e del tutto, è, nota di Daudeferd]. Così si è rivelata la bella coincidenza.
Tell us about your first approach to Traditionalism, and how it is
important to you in a Germanic level and an European one.
Raccontaci del tuo primo approccio al Tradizionalismo, e quanto è importante per te a livello germanico ed europeo.
AB: For me our traditions are rituals, which are supposed to bring us closer to our roots again and remind us who we are and where we come from. An appreciation of mother nature and also an appreciation of yourself. In my opinion people who despise their own ancestry and culture have lost their self-respect completely and this is also the reason why they always want to force their own self-hatred onto others. It is natural to feel a connection to your roots because this is necessary for the survival of your folk.
TWR: I think it is very important to recognize what is appropriate and what is not, both for yourself and in terms of how you influence others, because we are all more connected than we think. For me, such understanding often works intuitively, or based on observations of certain phenomena. The stratification of European society is frustrating, especially the fact that people are becoming less and less like something created by nature/God. And all because they don’t even need themselves.
AB: Per me le nostre tradizioni sono rituali che dovrebbero portarci più vicini alle nostre radici e ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Un apprezzamento per madre natura e anche un apprezzamento per te stesso. Secondo me, le persone che disprezzano i propri antenati e la propria cultura hanno perso completamente il rispetto di sé e questo è anche il motivo per cui vogliono sempre imporre il proprio odio per se stessi agli altri. È naturale sentire una connessione con le tue radici perché questo è necessario per la sopravvivenza della tua gente.
TWR: Penso che sia molto importante riconoscere cosa è appropriato e cosa no, sia per te stesso che in termini di come influenzi gli altri, perché siamo tutti più connessi di quanto pensiamo. Per me, tale comprensione spesso funziona in modo intuitivo o sulla base dell’osservazione di determinati fenomeni. La stratificazione della società europea è frustrante, soprattutto il fatto che le persone stanno diventando sempre meno simili a qualcosa creato dalla natura/Dio. E tutto perché non hanno nemmeno bisogno di se stessi.
How do you feel this dark age named Kali Yuga, and why Europe felt in this decline?
Come senti quest’epoca oscura chiamata Kali Yuga, e perché l’Europa si sente coinvolta in questo declino?
AB: Everything in nature is based on creation and destruction. So the Kali Yuga is just part of a cicle. Besides that I think that linear time is something that only exists here in the 3rd dimension, so I think the Kali Yuga is just the result of the collective mind of the people in this realm. With other words, you have to work on your own mind to start the Satya Yuga within yourself. Life is a fight against yourself. Your real essence against your artificial ego. This is what I like to call ‘’the holy war’’.
TWR: I think that when there is a lot of negative things going on around us, we should maintain good relationships with the people we care about and not do destructive things under the influence of negativity from outside, clearing our mind. Thus, without letting Kali Yuga inside us.
AB: Tutto in natura si basa sulla creazione e sulla distruzione. Quindi il Kali Yuga è solo parte di un ciclo. Oltre a ciò, penso che il tempo lineare sia qualcosa che esista solo qui nella terza dimensione, quindi penso che il Kali Yuga sia solo il risultato della mente collettiva delle persone in questo regno. In altre parole, devi lavorare sulla tua mente per avviare il Satya Yuga dentro di te. La vita è una lotta contro te stesso. La tua vera essenza contro il tuo ego artificiale. Questa è quella che mi piace chiamare ‘’la guerra santa’’.
TWR: Penso che quando accadono molte cose negative intorno a noi, dovremmo mantenere buoni rapporti con le persone a cui teniamo e non fare cose distruttive sotto l’influenza della negatività esterna, schiarendo la nostra mente. Quindi, senza lasciare entrare il Kali Yuga dentro di noi.
What is the purpose of Atlantean Blood/The Weird Rider?
Qual è l’obiettivo di Atlantean Blood/The Weird Rider?
AB: The goal is first of all the creation of music. And I see music or frequencies in general as a kind of magic ‘’spells’’, because you can manipulate the world with it. To some it brings joy and positive energy, while others feel negative or get offended by it. But it always causes a change in the mind.
TWR: I enjoy the creation process. I like to keep myself busy with this. And the product of this process is already a mixture of my inner world with the things that inspire me. And why not show this story to others, perhaps in this way to find like-minded people or just give someone a nice melody for the night, for example?
AB: L’obiettivo è innanzitutto la creazione di musica. Ed io vedo la musica o le frequenze in generale come una specie di magici ‘’incantesimi’’, perché puoi manipolare il mondo con essa. Ad alcuni porta gioia e positività, buona energia, mentre altri si sentono negativi o ne vengono offesi. Ma provoca sempre un cambiamento nella mente.
TWR: Mi piace il processo di creazione. Mi piace tenermi occupata con esso. E il prodotto di questo processo è già una miscela del mio mondo interiore con le cose che mi ispirano. E perché non mostrare questa storia ad altri, magari in questo modo per trovare persone che la pensano allo stesso modo o semplicemente regalare a qualcuno una bella melodia per la notte, per esempio?
Per contatti e acquisto del materiale fonografico di entrambi i progetti, contattare:
https://t.me/astralavalon
E così giungiamo ad acer in fundo, o meglio dire all’espressione artistica (ed anche ideologica) estrema, e che più estrema non si può, della quotidiana battaglia nell’epoca del Kali Yuga contro le scatenate forze dell’anti-tradizione (liberalismo, liberismo, marxismo, freudianesino), dove l’unica speranza è la guerra totale (‘’Do you want Total War?’’, urlava dai palchi il nostro Boyd Rice/NON), senza compromessi, senza patteggiamenti di alcuna sorta, senza tregue, proprio così, ‘’until the living flesh is burned’’.
Lettori, questo è il progetto che porta il deflagrante nome Discipline Of Hate. Progetto nato più di 25 anni fa, concepito nell’assolata Sicilia Sud-orientale, ma nato nel Nord della Gran Bretagna, dove poi è cresciuto, ed infine ritornato di nuovo in Italia. Il progetto Discipline Of Hate proviene da un ambiente spirituale e culturale (propriamente cultuale) che è quello del Tradizionalismo evoliano, profuso in senso romualdiano, con il preciso intento di invocare, onorare e difendere senza arresa la Weltanschauung indoeuropea, o meglio dire nordica, europea, iperborea (ognuno usi il termine aggettivale che voglia, o che ritenga più opportuno). Assorbendo e ricombinando variegati elementi sonori provenienti dai più estremi ascolti, ciò che ne è venuto fuori è questo durissimo e devastante stile inconfondibile: grinding Black/Death Metal, definibile anche senza remora Blackened Deathgrind, una sorta di versione grinding degli ellenici Der Stürmer, oppure anche come una specie di versione più Death Metal dei tedeschi Absurd o dei nostri italianissimi Frangar, in cui riecheggi simili a infuocate e letali schegge di Fallen Christ, Morbid Angel, primissimi Deicide ed i veterani Necrovore, primissimi Impaled Nazarene e primissimi Incantation, degli oscuri finnici Belial, Damnation (quelli polacchi), dei selvaggi senza compromessi australiani Bestial Warlust e Sadistik Exekution, dei grandiosi austriaci Miasma, Unlord, dei primissimi Schizo, catanesi (sto parlando delle leggendarie demo, rilasciate tra il 1985 ed il 1987, in una delle quali è possibile ascoltare una intro ad una delle tracce realizzata con un sampler del famoso pezzo Death Of A Man di Death In June del 1986, che commemora la morte eroica di Yukio Mishima, contenuta nell’album The Wörld Thät Sümmer; e primo album Main Frame Collapse del 1989), dei primissimi, genovesi, Necrodeath (demo e primi due album, dunque tra 1985 e 1989), di quei torvi e duri britannici quali Necrosanct, Mithras e Throne Of Nails, emergono violentemente scagliate a velocità incredibili da un gorgo profondissimo e violentissimo originatosi nella suprema, oscura e terrificante Schola scandinava di quasi trentacinque anni or sono (soprattutto quella norvegese); il tutto in lega molecolare con la tradizionale (e pertanto tradizionalista) Schola del Martial, dell’Ambient e del Nuovo Folk, in cui risplendono nomi aurei quali Arditi, Puissance, Triarii, Legionarii, Toroidh, Folkstorm, Der Blutharsch, Blood Axis, gli olandesi A Challenge Of Honour e Blot (proprio il fondatore di quest’ultimo progetto ha preso parte alla realizzazione dell’album Natura Duce di Discipline Of Hate); e con l’aggiunta di quel marchio ‘’Traditional Evolian’’ che sta a significare sia il fatto di essere molto influenzato da Julius Evola, ma anche da altri pensatori del Tradizionalismo europeo, sia il fatto di essere anche ‘’Traditional’’ tout court, quale sottogenere estremo del Black/Death Metal che fa da trade mark-brevetto di un nuovo modo di esprimersi, sempre nel fosco ambito dei generi musicali estremi (in questo caso uno specifico in particolar modo), di cui ne è appunto il capostipite. Non mancano invero ai giorni odierni vari gruppi che per vie totalmente diverse siano addivenuti -non si sa come- a soluzioni stilistiche molto simili, anche e soprattutto concettuali (molto probabilmente è stato proprio quest’ultimo fattore, quello concettuale, emergente ovviamente dalla medesima Weltanschauung, a determinare questa convergenza stilistica, mai assolutamente cercata o voluta, mai dunque volontaria): Martial Barrage, canadesi e molto belligeranti, a seguire, sempre canadesi, Revenge e Axis Of Advance, gli americani Arghoslent, che sebbene molto conosciuti nell’area propongono uno stile decisamente molto differente rispetto a quello del progetto Discipline Of Hate, e ciò dicasi anche per i veterani, sempre americani, Infester ed Evil Incarnate; poi gli irlandesi Abaddon Incarnate (primissimi lavori), con un peculiare stile, molto grinding e caotico, ma sempre molto distante di quello recante il nome Discipline Of Hate; poi ancora gli ellenici Wargrinder e Hate Manifesto, tra cui proprio i Wargrinder sembrano più avvicinarsi al verbo Discipline Of Hate, sebbene sempre senza quell’aurea mistica che fa largo uso di possenti dosi di Martial e Ambient.
In questo caso specifico, ossia di questo nuovo sottogenere, del quale il nome Discipline Of Hate ne conserva il primato assoluto (essendo un progetto nato sul finire degli anni ’90), ma senza mai aver potuto influenzare direttamente o indirettamente gli altri gruppi (che se già c’erano, come nel caso dei gruppi americani, hanno sempre suonato stili molto differenti), resta sempre il fatto che il progetto Discipline Of Hate è stato l’unico a saper dare valida risposta (quantomeno a coglierne direttamente il senso più recondito) a quella struggente eco di dolore giuntaci da una delle bellissime composizioni dell’album Kampf (2003) del progetto italiano Tronus Abyss, in particolar modo a quel struggente recitato di Atratus nella canzone omonima: ‘’Io, figlio di un’Europa che non si riconosce più. Il sentimento dell’odio che affrange la mia anima. Il pianto di un popolo che non si ritrova mi si strozza in gola. Io creo, ma lui distrugge. Il figlio dei Savi. Quei Savi che hanno perso l’amore ed il Cameratismo per Essa. Davanti a noi balaustre e filo spinato’’.
Discipline Of Hate è la reazione a questo dolore, spirituale e fisico: la lotta nel Kali Yuga, senza compromessi, con ferrea determinazione ed aurea solennità, fino al superamento ed alla Vittoria.
Il progetto Discipline Of Hate pertanto suonano genuinamente: True Traditional Evolian Blackened Deathgrind, music for Heritage, Honour and Pride, ben contraddistinto dai due simboli in associazione, la Ruota Solare ed il glifo runico Cweorð ‘’accensione/illuminazione’’. Il glifo runico Cweorð è la fiamma luciferina che arde eterna dentro, che si sente nella mente, ultimo chakra raggiunto da Kundalini destata, quella fiamma interiore ispirata dalla Ruota Solare, quale sua origine e destinazione ultraterrena, e che per siffatta causa aspira pertanto a tornare alla sua origine, a far ritorno nella sua sede primigenia e sempiterna. Cweorð è quanto mandato dalla Ruota Solare nel mondo sub-lunare, il mondo sensibile, e che poi sempre ad Essa deve far ritorno: interiormente arde una fiamma che ha origine dalla Ruota Solare. Nella Disciplina, nell’Ordine imposto al Kosmos, dunque nel simbolismo stesso della Ruota Solare: la Forza primigenia divina e virile che impone l’Ordine, segna lo spazio e il tempo nell’infinito vuoto sbadigliante, che il tutto conteuto nel Chaos, così come è descritto nel Ṛgveda (X, Puruṣasūkta) ‘’Puruṣa evedaṃ sarvaṃ yad bhūtaṃ yac ca bhavyam’’ (Puruṣa è tutto questo Universo, sia ciò che è stato sia ciò che deve ancora essere). L’Odio, quale sentimento supremo di repulsione e di purificazione da ciò che ci è nemico, assolutamente alieno, in totale contrapposizione, vale a dire tutta questa immonda, immorale, stupida ‘’modernità’’ imposta alla grande massa cosmopolita e ciecamente obbediente da queste lobbies di potere sovrapolitico di scuola anti-tradizionale attraverso tutti i suoi lunghi e viscidi tentacoli (liberalismo, liberismo, marxismo, freudianesimo, neopositivismo, scientismo, trans-genderismo e trans-umanesimo, e tante altre orrende mostruosità).
Discipline Of Hate
Heritage : Honour : Pride
Molte informazioni biografiche ed anche quelle inerenti agli orientamenti filosofici e dottrinari del progetto, così come le maggiori esplicazioni sui concetti espressi tanto nei testi (e così i testi stessi, tutti da seguire e leggere attentamente durante l’ascolto) tanto nella loro lucida e precisa sequenza nel formare un concept imprenscindibile, e tanto ancora nella scelta dei colori (sempre alchemici) e nella grafica in senso generale (sempre simbolica), sono esse contenute nelle releases: Palingenesis MCDLXXXVIII – A New Ancient Order To Come, un ep prodotto in formato vinile 7’’ dalla label catalana Negra Nit nel Maggio 2021, limitato a sole 40 copie in colore trasparente, molto elegante e per gusti collezionistici raffinati; Natura Duce – Visions Of Blood, Fire And Iron Before The Palingenesis, album cd prodotto dalla sottoetichetta Heimat und Jugend (001) nel Luglio 2023, in collaborazione con la tedesca Christhunt, contenente nuovi 12 brani plus i 6 pezzi del precedente 7ep Palingenesis, per un totale di 18.
Non voglio togliere a nessuno la sorpresa sul contenuto testuale e concettuale in genere (tra orientamenti e vari simbolismi espressi nell’artwork di entrambe le releases, ma posso solo dire per stimolare la vostra curiosità che: Palingenesis nasce da una Weltanschauung già compiuta, già matura e provata, in cui la forma esteriore rifulge l’essenza, è già frutto della plasmazione operata dalla Voluntas e pertanto divenuta (la forma) Rubedo; Natura Duce è quanto avviene nelle fasi precedenti, nella lotta eroica ‘’solo contro tutti’’ nel Kali Yuga, superando la Nigredo, passando per l’Albedo, poi la Citrinitas fino al compimento … Rubedo, che è la Palingenesi.
Natura Duce è un disco concept nel senso più stretto del termine, va ascoltato dal primo all’ultimo brano senza soluzione di continuità; va capito, interiorizzato, metabolizzato, attuato. È un disco per la trasformazione interiore, per la forza interiore, per la Voluntas. Qui forma mentis deve essere riflessa nel modus operandi, e questo anche viceversa: la razza spirituale di evoliana memoria è il genoma psichico, il Logos, puro e sempiterno, che si manifesta nel mondo materico mediante la forma, ossia la razza espressa in termini biometrici. Il titolo già dice chiaramente ciò: ‘’Come Madre Natura comanda’’.
La fosche atmosfere evocate hanno lo scopo preciso di analizzare non solo l’esteriorità pessima e vuota di significati spirituali dei tempi odierni, ma anche di scavare dentro noi stessi e pertanto di ritrovare la vera essenza di noi stessi. Tinte fosche, terribili anche, proprio come nel primo periodo del pittore norvegese Edvard Munch, quello del naturalismo espressionista, allorquando egli diceva di dipingere con ‘’il sangue del cuore’’; ma un naturalismo espressionista applicato con forza, determinazione e sfida a scenari brulicanti di azioni belligeranti come nelle opere più dinamiche di Paolo Doni detto Uccello.
La sfida lanciata dal progetto Discipline Of Hate al decandente e frustrato mondo moderno è possibile riassumerla in frasi prese dai maggiori pensatori del Tradizionalismo europeo: ‘’There are situations where the true existence is to oppose resistance’’ (Ernst Jünger). Oppure parafrasando lo stesso Julius Evola: non arrendersi, oggi, è la regola; in questa perdente società noi dobbiamo permetterci di mantenere un carattere forte.
Discipline Of Hate risponde: ‘’Wir kapitulieren niemals’’.
Link utili per acquistare i supporti fonografici del progetto Discipline Of Hate:
discipline, hate, disciplineofhate (paura.cat)
Search Results for “Discipline Of Hate” – CHP | CHRISTHUNT PRODUCTIONS
discipline of hate | eBay (Tenebris Marsica, Italia)
1 | Hate (Living The Kali Yuga) | |
2 | Furious Winds | |
3 | On The Golgotha | |
4 | Bloody Fields | |
5 | Iconic Christian Kidnapping Kindness | |
6 | Waste And Dust | |
7 | Flame Of Hatred | |
8 | In The Name Of War And Hate | |
9 | Scythed Heads As Harvest | |
10 | Wrath | |
11 | Death Is Liberation | |
12 | Outro – The Palingenesis (And Then… Victory Came, Satya Yuga) | |
13 | Wings Of Death | |
14 | Misanthropy | |
15 | Warlust | |
16 | Your Promised Land | |
17 | Inverted Cross | |
18 | Wolf Among the Flocks |
Note: 13-18 Bonus tracks taken from the Palingenesis MCDLXXXVIII 7ep.
Gennaio 2024
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