Fascismo, regime della competenza

mussolini-visitaSe con sano occhio revisionista diamo uno sguardo alla realtà vera del Fascismo, alla sua incidenza sulla cultura alta e su quella popolare, all’insieme delle sue capacità di stimolare le arti e le scienze, l’iniziativa sociale, quella economica o in genere il sentimento comunitario dell’appartenenza, non possiamo non notare che c’è un abisso tra l’immagine propagandata dalla divulgazione democratica e la verità che appare evidente dalla letteratura scientifica.

La storiografia che, a getto continuo, da decenni ci propone sempre nuove inquadrature, sempre nuovi approfondimenti, sia pure entro le solite formule obbligate dell’antifascismo di facciata, poi finisce per fornire un quadro davvero impressionante della complessità strutturale e della capacità pratica del Fascismo di muovere le intelligenze, di stimolare creazioni politiche innovative, di guidare insomma un progetto di reale mutamento sociopolitico, in Italia mai pensato né prima né dopo su così vasta scala.

Scorrendo gli studi che, negli ultimi anni, si sono succeduti ad esempio sul problema dei rapporti tra Fascismo e scienza, si vede che, anche qui, il Fascismo non fu affatto un dominio dell’improvvisazione, ma, al contrario, un sistema che fece del mutamento programmato e del perseguimento di precisi obiettivi ideologici di rinnovamento e di funzionalismo il centro di un’intera visione politica e sociale. È soprattutto in questi contesti che si verifica con evidenza la caratteristica ideologica del Fascismo: la sua capacità di fondere in un insieme complementare sia la conservazione che l’innovazione, sia il pensiero mitico che quello scientifico, sostenendo, al massimo limite possibile all’epoca, tanto il rilancio dei tessuti sociali rurali quanto la ricerca tecnologica. Il casolare e il podere contadino accanto agli esperimenti televisivi o a quelli sugli aerei a reazione. In questo senso, parlare di un Fascismo “di destra” o “di sinistra” non ha alcun senso. Molti decenni prima che le due vecchie categorie del parlamentarismo liberale perdessero per strada ogni significato, il Fascismo aveva già per suo conto provveduto ad andare “al di là della destra e della sinistra”, dimostrando che una Weltanschauung totale aveva già allora la capacità di pensare in simultanea principi solo in apparenza oppositivi.

L’esempio più evidente di quanto andiamo dicendo è proprio il rapporto tra moderne dinamiche manageriali e politica nazionalpopolare, che il Fascismo fuse in un unico aggregato decisionista. Per dire, non sarà stato un caso che proprio il più radicale sostenitore del Fascismo “di sinistra”, Ugo Spirito, teorico della proprietà socializzata e del protagonismo pubblico in economia, sia stato al tempo stesso uno dei principali assertori del corporativismo come aristocrazia dei tecnici, cioè un’impostazione che dovrebbe essere “di destra”. Si trattava, in realtà, di un’idea che andava a completare la concezione del Fascismo come gerarchia della competenza, che già negli anni Venti Bottai aveva messo a fondamento del nascente Stato corporativo.

Oggi, gli studi sui rapporti tra tecnocrazia e Fascismo sono giunti a un punto talmente avanzato da permettere giudizi definitivi. Nel campo dei valori ideali, il Fascismo usò la mitopoietica popolare come collante sociale di base. Ma nel campo dei valori realizzativi, non si ebbero esitazioni nel propugnare il funzionalismo, l’efficientismo e il decisionismo più spinti. E a tutta una serie di tecnici di alto valore professionale vennero consegnati interi comparti sociali da assicurare all’innovazione. Pensiamo a personaggi come Serpieri o Tassinari, per quanto riguarda i riassetti rurali, geologici e territoriali. Le loro moderne concezioni di vero e proprio ecologismo d’avanguardia e al contempo di meccanizzazione dell’agricoltura, ne fanno dei casi ancora oggi studiati di funzionalismo agrario. Per dire, ancora recentemente, uno dei più prestigiosi organismi del settore, come l’Accademia fiorentina dei Georgofili, ha voluto rendere omaggio alle storiche realizzazioni di Tassinari. Incentrate sul primato sociale della piccola proprietà contadina, altamente produttiva e insieme elemento di conservazione dei patrimoni ecosistemici tradizionali. Oppure, si pensi al lavoro innovativo di tecnici di punta come Freddi, gestore della cinematografia italiana e creatore degli studi di Cinecittà, secondo metodi e indirizzi professionali e industrialisti per quei tempi decisamente rivoluzionari. Senza il tecnocratico Freddi, non ci sarebbero stati Blasetti, Visconti, Rossellini, Antonioni, il neo-realismo… insomma il “cinema italiano”, quello che negli anni Cinquanta-Sessanta raccolse i frutti – culturali ed economici – della semina fascista.

fascismo-razionale Ma poi: Beneduce, Cianetti, Gini… Proprio a Corrado Gini, il primo presidente dell’Istat dal 1926 al 1932, poi sociologo e demografo di fama mondiale, è stato dedicato il libro di Francesco Cassata Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica (Carocci), utile per mettere a fuoco tutto un settore d’importanza capitale per l’ideologia fascista. Si tratta delle politiche demografiche e nataliste, incentrate sull’espansionismo popolazionista, sull’igiene sociale e sulla protezione dei caratteri psicosomatici della stirpe. Il cuore della vita del popolo. Qualcosa a cui, oggi, il metodo mondialista ha sostituito la catastrofica denatalità bianca e il suicidio dell’identità biostorica della nazione, imposto attraverso il favoreggiamento dell’aggressione etnopluralista. Secondo quanto ricorda Cassata, il lavoro di Gini fu espressione della categoria di élite tecnica o élite strategica, in base alla quale gli studiosi hanno raggruppato la nuova sociologia integrale fascista, basata sul riconoscimento dei valori solidaristici, e tale da suscitare interesse in quegli anni anche in studiosi di gran nome, a cominciare da Sorokin e Talcott Parsons.

Gini, che fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925 e che collaborò con gli innovativi laboratori di psicologia e statistica di Agostino Gemelli, fu un tipico rappresentante di quel clima di indipendenza di ricerca e di analisi che, con qualche sorpresa, gli storici oggi rintracciano nella prassi politica fascista. Come sottolinea Cassata, il sistema fascista, al di sotto della patina dittatoriale, rivela tutti i suoi «livelli di mediazione e di autonomia esistenti fra classe politica e classe intellettuale». Anche gli scienziati, come i letterati, ebbero dunque i loro spazi. E la loro adesione ideologica al Fascismo, lungi dall’essere conculcata con la forza o con il ricatto, come in altri contesti, sorse spontanea per un convergere naturale di studio scientifico e obiettivi politici. Lo sostiene, oltre a Cassata, anche la studiosa Anna Treves, che in proposito ha scritto che il consenso degli intellettuali derivava dalla «condizione straordinaria in cui si trovarono studiosi che vedevano il regime attribuire una tale centralità a quelli che erano i temi e le opzioni cui essi giungevano in sede scientifica».

Questi risultati raggiunti dalla storiografia sono importanti. Essi mostrano che il disegno fascista di fare della scienza e della cultura in genere uno specchio dell’ideologia non era frutto di forzatura o di astrazione, ma una sinergia creatasi spontaneamente. Nel caso di Gini – che sostenne tutti i principali progetti fascisti, dall’incentivazione demografica all’eugenica popolare, dall’imperialismo sociale e di popolamento fino al razzismo –, Cassata aggiunge che la convergenza tra la scienza e il Regime non fu «soltanto il frutto di convenienze politiche, ma anche di una comune concezione organicistica». Quale tipico rappresentante della concezione tecnocratico-politica che il Fascismo aveva riguardo alle scienze di punta, Gini è stato affiancato ai suoi omologhi che, negli stessi anni, stavano facendo in Germania un lavoro simile, godendo di un equivalente tasso di autonomia nei confronti del potere. Non fu un caso, infatti, che lo stesso Gini collaborasse – oltre che con scienziati sociali americani, da lui incontrati in un viaggio nel 1936, durante il quale la sua teoria dei “cicli delle nazioni” riscosse grande attenzione – anche con studiosi come Hans Freyer (capofila della sociologia tedesca rivoluzionario-conservatrice) o come il demografo Friedrich Burgdörfer, studioso dei fenomeni della natalità e direttore dell’Ufficio statistico del Terzo Reich.

Questi scienziati sociali, tra l’altro, si davano da fare per mettere un freno alla caduta demografica che dagli anni Venti stava minacciando la popolazione mondiale bianca – segnalata con allarme anche da Spengler – e in questo trovarono accoglienza anche tra taluni sociologi nordamericani, come ad esempio Robert K. Merton, che delle teorie di Gini apprezzò soprattutto l’aspetto funzionalista ed organicista. Secondo il quale, se opportunamente stimolato, ogni sistema sociale e biologico, pur minacciato, tende ottimisticamente a ricostituire il proprio equilibrio naturale.

scienza-e-fascismo Si trattava di realizzare una razionalizzazione programmata di tutte le attività (dalla ricerca scientifica al ciclo economico, dall’industria al commercio), che sotto la guida politica avrebbe dovuto garantire efficienza e modernizzazione. Fu così che in Italia si avviarono programmi economici tutt’altro che risibili, come quello autarchico, verso il quale, nei tardi anni Trenta, mostrarono curiosità persino fior di liberisti pentiti. È in questo senso che, ad esempio, vennero creati istituti come l’IRI o il CNR. Del secondo si è occupato Roberto Maiocchi nell’ambito della sua ricerca su Scienza e fascismo (Carocci), uno studio in cui, ancora una volta, si precisano i contorni dello sforzo fascista di plasmare élites dirigenti di alta qualità professionale. Secondo il principio-base della gerarchia della tecnica. Era la teoria paretiana delle avanguardie dirigenti selezionate dal popolo. Come dire: la competenza al potere.

Sintetizza Maiocchi: «Nel comando della fabbrica, ordinava il fascismo, al capitalista doveva subentrare il tecnico della produzione, dunque l’organizzazione del lavoro doveva avvenire alla luce delle cognizioni tecniche più avanzate. Il corporativismo avrebbe dovuto assicurare l’armonia tra capitalista, direttore e operai».

Tra l’altro, il libro di Maiocchi chiarisce anche come mai questa struttura creata dal Fascismo ebbe i suoi intoppi. A cominciare, per dirne una, dal boicottaggio delle competenze del CNR da parte della casta militare, che per gelosie o insipienza disinnescò gran parte della preparazione bellica. Il metodo fascista non sarà certo stato il paradiso terrestre, ma ancora oggi, a distanza di tanto tempo, si presenta come un buon esempio storico di come si faccia – magari con una dose di buona fortuna in più – a uscire dalle secche liberiste attivando tanto la protezione dell’identità comunitaria quanto la razionalizzazione del lavoro e il potenziamento delle moderne tecnoscienze.

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Tratto da Linea del 25 luglio 2008.

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