Agli antipodi del razionalismo

Semplice: del pensiero di Evola la cultura contemporanea non può accettare nemmeno una virgola. Troppa distanza. Fino alla totale estraneità. E allora scatta l’esorcismo: “Vade retro, nazista!”.

 

A che punto è l’indagine scientifica su Evola a trent’anni dalla morte? A giudicare dalla mole di documenti a disposizione e dalla pubblicazione di saggi critici a lui dedicati la risposta non può non essere positiva. Ci sentiamo di affermare che in relazione al materiale reso disponibile dai ricercatori, lo studio del pensiero di Julius Evola non rappresenta più un grosso problema. E che sia così lo stanno a testimoniare alcuni volumi di fresca data, pregevoli per quantità di informazioni e utilizzo di fonti.

 

Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich Ma tutto ciò può bastare? È sufficiente un libro ben documentato per scrivere la parola “fine” in calce agli studi evoliani? In questo caso la risposta è un “no” deciso. L’acquisizione delle fonti dirette è certamente importante, ma non è tutto. L’abbondanza di documenti è un fatto, ma la giusta collocazione di questi all’interno di filoni culturali vasti e articolati è un’altra cosa. Non si tratta di sollevare il pensatore tradizionalista da responsabilità individuali (come penseranno i maligni), ma di conoscere a fondo il contesto storico all’interno del quale i suoi scritti vennero pubblicati. Insomma lo studio della bibliografia evoliana non deve risolversi in un esercizio di isolamento, bensì nella cura di un germoglio da far crescere sul terreno della Storia. Si tratta di un’attività che abbisogna di punti di riferimento dottrinari, tali da ammettere raffronti, filiazioni e contrapposizioni sulla base di dati acquisiti. Rivoluzione industriale, crisi del positivismo, modernismo, occultismo, spiritualismo, tradizionalismo, fascismi europei, destra radicale, sono espressioni e categorie relative a periodi e correnti della nostra èra che spiegano Evola più di quanto possa farlo un qualunque brano ridestato dall’oblio. Si tratta di termini che pongono in luce influenze e posizioni teoriche che ci permettono di abbandonare i percorsi del pregiudizio e di incrociare, se proprio lo vogliamo, quelli della Storia.

 

Ma secondo taluni “esperti” dell’ultima ora avvicinarsi al pensiero di Julius Evola e scoprire i dettagli della sua esistenza, significa in buona sostanza allontanarsi dal contesto storico all’interno del quale codesta vita diede i suoi risultati. Dopo la criminalizzazione degli anni ottanta, quando molti studiosi consideravano Evola un punto di riferimento morale del terrorismo nero, assistiamo adesso a un tipo di demonizzazione più sottile e perversa: Evola estirpato dall’epoca in cui visse, considerato il simbolo d’un male assoluto, giudicato un folle e irresponsabile visionario. Cosa sarà mai una data? Cosa interessano poche cifre al cospetto della potenza del male assoluto? Così come il demonio ha cento nomi ma un’unica infernale personalità, il male evoliano è male in ogni tempo o occasione. Perché questo trattamento, perché questo “servizio” intrinsecamente ascientifico? La risposta è complessa, perché complesse sono le ragioni di quello che consideriamo un vero e proprio accanimento. In primo piano sono comunque da collocare ragioni politiche.

 

Cominciamo col dire che la stessa personalità di Evola ha contribuito alla sua astratta demonizzazione, verrebbe quasi da dire che se l’è voluta lui. Evola non si pentì mai di ciò che aveva scritto, non “cadde mai di livello”, non chiese mai scusa, non rinnegò i suoi scritti (semmai tentò di storicizzarli, che è altra cosa), mantenne le sue posizioni, le chiarì più volte ma non fece mai abiura, non sconfessò il suo passato, continuò sulla strada intrapresa… E allora? Allora dato che per anni i nostri intellettuali hanno fatto a gara per criminalizzare quanto non profumasse di socialismo pacifista (socialismo pacifista proveniente dal paradiso sovietico ovviamente) e dato ancora che Evola non era né socialista né pacifista e mai si trovò su queste posizioni, era chiaro ch’egli dovesse scontare in tutti i modi la sua diversità. E chi meglio di lui poteva rappresentare quel male assoluto da condannare o da ridicolizzare secondo le occasioni? Ma c’è un’altra ragione che vogliamo sottolineare. Qualora volessimo analizzare la prima parte del XX secolo non sottovalutando ciò che accadde ma al tempo stesso non sconfessando nulla, scatterebbe un meccanismo di difesa, un meccanismo non più afferente alla politica ma alla morale, un meccanismo che ha un nome preciso: complesso della vergogna. Pensando a quel che è stata la prima parte del Novecento la morale corrente ci porterebbe a nascondere certe verità, a provare imbarazzo per il nostro passato. Ci vergogneremmo di aver ceduto all’irrazionale, ci vergogneremmo di aver sconfessato la religione del progresso e i sacri lumi della ragione, ci vergogneremmo insomma di esser stati quelli che siamo stati. Nascondendoci nel silenzio, sceglieremmo così di citare il meno possibile gli ostinati protagonisti di quel periodo. D’altra parte basterebbe la lettura di un solo brano a firma Julius Evola per scatenare un’isterica reazione di disgusto, un sentimento di repulsione: esibendo lo stendardo della buoni principi ci rifiuteremmo di affrontare fino in fondo le mille ragioni della Storia, condanneremmo Evola e butteremmo giù dalla torre il simbolo d’un epoca e con esso i nostri peccati.

 

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Tratto da Linea del 7 giugno 2004.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

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