Quando uno scrittore pone, ad epigrafe del capitolo conclusivo del proprio libro fondamentale , le seguenti parole del De Maistre: «Bisogna tenersi pronti ad un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale marciamo con velocità accelerata» – e questo scrittore ha la serietà di Evola, ci si può attendere che il suo libro non dica cose banali. Evola sta svolgendo e popolarizzando ormai da anni, dalla pagina filosofica quindicinale di Regime fascista, intorno al quale si raccoglie tutto un gruppo di scrittori, un’attività, che si concretò dapprima in difficili libri e in riviste per ristretti cenacoli: e tale attività col pensiero che la informa, mi sembrano tra i più singolari e significativi dell’ora presente.
Dire ch’essa rappresenti un indirizzo affine, sotto qualche aspetto, al Nazismo (allo stesso modo che, al polo opposto, l’atteggiamento delle riviste giovanili romane: Saggiatore, Oggi, Cantiere può definirsi più o meno filo-bolscevico) non è che un semplice schematizzare.
Vediamo qualche spunto del pensiero di Evola. Sua tesi fondamentale è la negazione dell’idea di evoluzione e di progresso: è, anzi, il concetto opposto, cioè è la natura decadente del mondo moderno: «nulla ci appare assurdo come l’idea del progresso, col suo corollario, la preminenza delle civiltà moderna». Opposta ad essa, la civiltà «tradizionale»: «per comprendere, sia lo spirito tradizionale che il mondo moderno in quanto negazione di esse, bisogna partire dall’insegnamento circa le due nature. Vi è un ordine fisico e vi è un ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore dell’‘essere’ e vi è quella infera del ‘divenire’. Vi è un visibile e un tangibile e, prima e di là da esso, vi è un invisibile e un intangibile, quale sopramondo, principio e vita vera… Il mondo tradizionale conobbe questi due grandi poli dell’esistenza, e le vie che dall’uno conducono all’altro. Conobbe la spiritualità come ciò che sta di là sia da vita che da morte. Conobbe che l’esistenza esterna è nulla, se non è un’approssimazione verso il sopramondo… Un mondo tradizionale conobbe la Divinità Regale. Conobbe l’atto del transito: la Iniziazione – le due grandi vie dell’approssimazione: l’Azione eroica e la Contemplazione – la mediazione: il Rito – il grande sostegno: La Legge tradizionale, la Casta – il simbolo terreno: l’Impero».
Vi rendete ben conto di quel che significa tutto questo? Il fatto, cioè, che questo linguaggio inaudito (voglio propriamente dire: non più udito da secoli o da millenni) sia contemporaneo del bolscevismo? E fino a qual punto (appoggiato più o meno alla forza del Nazismo, e ad altre), esso illumini di cruda luce le antitesi e le profondità abissali del nostro tempo? Né crediate si tratti di mera «religiosità» o di flebile «legittimismo», ché vuol essere invece l’eco di cose immensamente più profonde ed antiche: «Imperialismo pagano» è infatti il nome che gli dà il suo stesso autore.
In luogo dunque di «evoluzione» e di «progresso». Evola scorge la decadenza dal mondo tradizionale al moderno come crescente oblio della vera spiritualità, perdita di contatto col sovrannaturrale, caduta sempre più accelerata nel «tempo» e nella idolatria della «storia». Né è cosa di ieri. «Le prime forze di decadenza in senso moderno avrebbero cominciato a manifestarsi tra l’VIII e il VI secolo a. C…. Un secondo e più visibile momento di decadenza si ha con la caduta dell’Impero Romano e coll’avvento del Cristianesimo». Poi, una ripresa di civiltà tradizionale, nordico-ariana, col medioevo feudale, imperiale, cavalleresco, ghibellino: «una terza fase si inizia infine al tramonto del mondo feudo-imperiale, giungendo al punto decisivo con l’Umanesimo e con la Riforma… Da allora in poi, il processo sarà sempre più rapido, risolutivo, universale». Come ultime fasi, e con aspetti sempre più catastrofici, ecco, dopo la società capitalistico-borghese, la Russia e l’America. Sgretolatosi con l’ultima guerra il blocco tradizionalistico dell’Europa centrale, «noi vediamo che le forze volte a travolgere le ultime dighe si centralizzano in due fuochi precisi… Ad oriente è la Russia, ad occidente è l’America… E’ cosa nota che la verità centrale del bolscevismo sia l’uomo collettivo, la distruzione, nell’uomo, di tutto ciò che può aver valore di autonomia e di personalità, che può costituirgli un interesse disgiunto dal puro colletivo… Se la Russia ravvisa, secondo la parola di Lenin, nel mondo romano-germanico il maggiore ostacolo per l’avvento dell’uomo nuovo, essa vede invece nell’America una specie di terra promessa… Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo – ‘nomade dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standard onnipotenti; alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più, in una forma ancora più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime sovietico».
Queste ultime citazioni in cui si conferma quanto, per mio conto, vado sostenendo da anni, mostrano uno dei punti essenziali del mio accordo con Evola. Né è esso il solo – però tale accordo non sembra estendersi oltre certi limiti. La mia difesa della personalità è umanistica (sia pure spiritualistica, alla Goethe e alla Bergson): ed Evola invece condanna l’umanesimo come una delle forme già progredite ed irrimediabili di decadenza dall’ideale tradizionale: «L’individualismo moderno è la prima faccia dell’umanismo… Individualismo, come pretesa prevaricatrice di un Io, che è semplicemente quello mortale del corpo… Con la rivolta dell’individuo, ogni coscienza del sopramondo è perduta. Allora resta come certa la sola visione materiale del mondo… Alla scienza si deve la profanazione sistematica dei due domini dell’azione e della contemplazione presso allo scatenamento della plebe sui mercati d’Europa». Quanto ci sarebbe da dire su tutto questo? In un intelligentissimo articolo dedicato tempo fa alla mia corruzione del «demiurgo», Evola gli ha rimproverato precisamente il suo umanesimo, consigliandogli di andare oltre, di «indirizzarsi alla realizzazione di forme effettivamente super-personali, di tendere ad una rinascita in una super vita». Gli ha consigliato cioè, in parole povere, di tendere a farsi Dio. Il che era stato già un’aspirazione di Papini. Ora, in Evola la cosa è ben più seria, né io sono così sciocco da pigliare alla leggera, o da fraintendere, quel che egli vuol dire. Rispondo solo, per ora, alcune parole. Io considero il suo pensiero, e il movimento cui esso dà luogo, come una cosa, non solo significativa del nostro tempo, ma seria e importante, e vi simpatizzo sotto più di un aspetto: affine, nel suo carattere di «spiritualità eroica», a quanto va di meglio nel Nazismo «ghibellino» (quello, per intenderci, che richiama gli ideali guerrieri ed ascetici dell’Ordine teutonico); accolto nello stesso seno del Fascismo come uno dei suoi orientamenti possibili – io ravviso tutto ciò un sintomo di confortante ripresa dell’Occidente, un’alta possibilità di difesa dalla marea e dal disonore del materialismo russo-americano. Lasciando da parte la questione metafisica – sul terreno storico un ideale ci unisce: la Cavalleria: ma la Cavalleria non era solo bellicosità, era anche generosità e pietà; in essa si realizzava veramente quella «sintesi cristiana» di cui ha ben parlato Giuseppe Piazza nei suoi studi critici sopra il Nazismo: ora, questo punto voi lo dimenticate. Non solo di eroismo ma anche di bontà, di generosità, di pietà il mondo contemporaneo ha bisogno come del pane: se no, fra poco esso diventerà inabitabile, l’atmosfera sociale irrespirabile. Si può essere eroici insieme e pietosi, coraggiosi ed umani, volitivi senza avere sempre l’insulto sulle labbra e la bava alla bocca. Ecco la sintesi cui mira il demiurgo. Del resto se essa non si realizzerà, penseranno fra poco gli scatenamenti di tutti contro tutti a darci retrospettivamente ragione. Bisogna finirla con questa feroce antitesi di una nietzschiana morale di signori opposta a una pretesa cristiana morale di schiavi: il fenomeno cavalleresco è là per mostrarci la sintesi. A questa, il demiurgo aggiunge poi ancora, per suo conto, due sublimi ingredienti: la poesia, per trasfigurare magicamente la vita (senza menomamente «eluderla», come teme Evola); la scienza per dominare la natura. Così munito (e senza escludere la possibilità di altre armi), il demiurgo ha qualche speranza di non venir messo completamente da parte, il giorno dell’assunzione eroica e del giudizio divino.
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Recensione di Rivolta contro il mondo moderno apparsa, a firma di F. Burzio, sul Corriere Padano del 28 settembre 1935, riprodotta nel numero 47 (luglio 2004) di Margini. Letture e riletture, periodico della Libreria Ar.
Bruno
Buongiorno, avrei bisogno di un’informazione inerente l’opera di Evola. In un punto, quasi sicuramente di “Rivolta contro il mondo moderno”, Evola spiega il perché dell’assurdità del concetto di intendere e di volere. Ho riguardato il libro, letto molti anni fa, ma non riesco a trovare dov’è che esprima questo concetto. Qualcuno mi può aiutare? Grazie