Visioni evoliane sul mondo moderno: la demonìa dell’azione
Presentiamo su questo dodicesimo numero di Algiza un importante scritto di Julius Evola che abbiamo recentemente scoperto: si tratta di Superamento dell’attivismo, apparso il 18 gennaio 1933 nella terza pagina del quotidiano cremonese Il regime fascista diretto da Roberto Farinacci. Questo scritto, estremamente significativo, costituisce una novità per gli studii evoliani, dal momento che non è neppure segnalato nella più completa bibliografia evoliana sinora pubblicata – peraltro l’unica sinora che abbia tentato con una qualche pretesa di completezza di indicare tutti gli articoli di Evola apparsi su riviste italiane.
Si tratta, come si è accennato, di uno scritto di particolare interesse; la quale cosa, se certo non stupirà chi già legga e conosca Evola, converrà indicare a quanti ancora poco ne sappiano. L’articolo che proponiamo si compone di una pars denstruens e di una pars construens, come spesso avviene nella costruzione polemica evoliana: il moderno “demonismo” dell’azione priva di un centro e di una direzione è analizzato con particolari efficacia e incisività. Potrà forse stupire la estrema attualità delle considerazioni, svolte quasi settanta anni orsono: quando Evola scrive dell’azione materiale e passiva, spinta dall’esterno e volta verso l’esterno pare descrivere la nostra società contemporanea, e ancora più attuale pare il suo riferimento a quell azione segreta che non crea più macchine, banche e società, ma uomini, asceti e guerrieri, esseri superbi dominatori delle proprie anime, svincolati da ogni sete, liberati . Quel tipo di azione, cioè, svincolata e liberata dal giogo delle passioni e del divenire, che si fa fine di sè stessa, propria ormai di pochi rari individui. L’azione cui, nel mondo di rovine che egli stigmatizza, vale unicamente dedicarsi, e in funzione della quale davvero vale il vivere.
Come il suo pensiero sia stato d’avanguardia, è facile indicarlo. Analoghe considerazioni, su un piano leggermente diverso, aveva svolto l’anno precedente Ernst Juenger nel suo prezioso saggio Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, che non a caso interessò particolarmente Evola, per la consonanza di vedute, e al quale nel secondo dopoguerra dedicò un saggio, che di recente è stato riproposto al pubblico italiano.
Significativamente affini sono le visioni juengeriane sull Età della Tecnica, sull’Arbeiter che mobilita il mondo tramite la tecnica, alle indicazioni che Evola fornisce circa l’atteggiamento da tenere dinanzi a quest’epoca in cui la velocità è portata alle estreme conseguenze, l’azione si fa parossistica, ogni senso pare smarrito. E su queste basi, ci pare, le più brillanti conseguenze sono quelle che dal pensiero di Evola (e anche di Juenger) trasse Adriano Romualdi, senza dubbio il migliore esegeta del filosofo italiano, quando scrisse:
“La storia cambia pagina e il mondo della tecnica conquista il suo spazio. Dirne bene, o male, ciò non esaurisce il problema: v’è nella realtà della età tecnica un’ignoranza di ogni altra prospettiva, ma anche uno spirito di razionalità e di padronanza che si inquadra nel contesto d una tradizione europea […]. V’è nella scienza e nella tecnica un aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere. Uno stile ormai ottuso, una vocazione decaduta ad abitudine meccanica, ma dominata da una volontà di chiarezza […]. Possiamo semplicemente disfarci del gravoso fardello della civiltà bianca?”
La risposta che Evola dà è semplice, e consiste nella vera liberazione dell’azione dai suoi vincoli, nell’essenzializzazione, che passa attraverso la riscoperta di uno stile e di un modo di vivere tradizionale: in quello che egli definisce “nuovo classicismo dell’azione e del dominio”.
La speranza è che il riproporre oggi gli scritti di Evola possa avere la funzione, davvero preziosa e significativa, di trasmettere a qualcuno – anche a un’unica persona – l’interesse per quel Mondo della Tradizione che Evola ci ha insegnato ad amare.
Alberto Lombardo
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E’ un fatto difficilmente contestabile, che l’attivismo costituisca la parola d’ordine dell’ultima civiltà. L’esaltazione e la pratica dell’azione, quindi di tutto ciò che è sforzo, slancio, lotta, divenire, trasformazione, perenne ricerca, inesausto movimento, si vede affiorare da ogni dove. E non solo noi oggi abbiamo il trionfo dell’azione, ma abbiamo anche una filosofia sui generis al servigio di essa, che con una critica sistematica e con un forte apparecchio speculativo volge a crearsi alibi d’ogni genere e a gittare a piene mani il disprezzo sui valori proprii a ogni diverso punto di vista. Così, nelle cose l’occhio del moderno si abitua a trascurare sempre più l’aspetto “essere” per affissarsi invece sull’aspetto “divenire”, “sviluppo”, “storia”: “storicismo” e “divenirismo” vanno a battere il ritmo all'”attivismo” e noi vediamo che nelle stesse scienze i principii che ieri si ritenevano immutabilmente validi e intrinsecamente evidenti oggi vengono considerati come assunzioni ipotetiche da controllarsi in funzione del divenire della conoscenza scientifica; noi vediamo che nelle stesse religioni un’esegesi di tipo nuovo non tiene nessun conto delle pretese di assolutezza e di trascendenza che i dogmi e le “rivelazioni” presentavano e tende a non vedere in tutto ciò che dei momenti di un divenire, di una storia immanente dell’aspirazione religiosa, non esitando, su questa base, a procedere alle umanizzazioni più contaminatrici.
In filosofia la cosa è ancora più evidente. Pragmatismo, volontarismo, attualismo, ecc., sono correnti che, sia pure in forma varia, convergono tutte in un unico motivo il quale non fa che tradurre in sede speculativa il motivo stesso della vita immediata d’oggi, il suo tumulto, la sua febbre di velocità, la sua meccanizzazione volta a contrarre ogni intervallo di spazio e di tempo, il suo ritmo congestivo e privo di respiro che nei popoli anglosassoni e soprattutto americani giunge poi al suo limite. Qui il tema attivistico perviene realmente a un acme parossistico e quasi diremmo pandemico, assorbe la totalità della vita secondo un’accelerazione che sembra non conoscere più freno, mentre gli orizzonti si riducono sempre più sensibilmente a quello buio e impuro di realizzazioni affatto temporali e contingenti, dove la demonìa del collettivo si fa onnipotente su esseri privi di ogni sostegno tradizionale, tetanizzati da una irrequietudine che oltrepassa tutti i limiti, dominati da forze scatenate sotto molti aspetti subpersonali e prive di volto che li sospingono verso l'”ideale animale” di una nuova civiltà arimànica.
Per tale via, le cose sono giunte a un punto tale, che per coloro, i quali non sono ancora del tutto dimentichi di quelle antiche tradizioni, che fecero la nostra vera nobiltà spirituale, l’arrestarsi e il rendersi un conto preciso della situazione col riportarsi a un punto di vista più alto si impone. E in realtà è possibile muovere una critica e una reazione contro l’accennato orientamento del mondo moderno non in nome della stasi o dell’astrazione intellettualistica o estetizzante, bensì proprio in nome della stessa azione: mostrando che il mondo moderno, in fondo, di ciò che sia veramente azione non sa quasi più nulla – quel che esso esalta, è soltanto una forma inferiore d’azione – e che appunto in ciò stanno la deviazione e il pericolo.
In realtà, vi è azione e azione; vi è un attivismo sano e un attivismo che è semplicemente febbre, esaltazione, vertigine senza centro, tanto che, lungi dal testimoniare una forza, come volgarmente si crede, esso indica soltanto un’impotenza e un’incapacità. Oggi, sotto specie delle varie filosofie della “vita”, del “divenire” e dell'”irrazionale”, è appunto di questa seconda specie di attivismo che trattasi; e per questo occorre che il ritorno a una più alta concezione dell’azione ristabilisca l’equilibrio e arresti un processo, le cui deleterie conseguenze son già fin troppo visibili.
Noi abbiamo perduto il senso di ciò che nelle nostre tradizioni classiche significava spiritualmente l’opposizione fra mondo “naturale” e mondo “intelligibile”. Il movimento – in tali dottrine – era considerato come il principio delle cose di natura inferiore, però il movimento come la “perenne fuga delle cose che sono e non sono” (Plotino), come impotenza a compiersi e a possedersi in una legge e in un limite, a realizzarsi come atto perfetto. L’altro mondo – il “mondo intelligibile” – non era il mondo della non azione, ma era invece quello dell’azione perfetta, quello di un azione che si differenziava dal modo proprio alla “natura” in quanto era priva di desiderio e sufficiente a sè stessa: in quanto azione assoluta, avente in sè stessa il proprio oggetto e il proprio principio. Un ideale sovrannaturale, aristocratico dell’azione faceva dunque da anima a tale visione antimoderna: né a essa soltanto. Chi prendesse contatto con alcuni insegnamenti tradizionali dell’Oriente ariano si stupirebbe forse dinanzi all affermazione, che tutto ciò che è movimento, attività, divenire, cangiamento, è proprio a un principio passivo e feminile, mentre al principio virile e “solare” vien riferita l’immobilità, l’immutabilità, la fissità. E così non si renderebbe nemmeno troppo conto di che cosa possa significare l’altra affermazione, che “il Saggio discerne la non-azione nell’azione e l’azione nella non-azione”.
In ciò non si esprime affatto un quietismo, ma appunto la stessa consapevolezza di un ideale superiore, aristocratico dell’attività, rispetto al quale l’azione comune diviene quasi un non-agire. E’ l’idea che in termini metafisico-teologici si ritrova poi nella stessa dottrina aristotelica del motore immobile. Chi è causa e signore effettivo del moto, non si muove egli stesso. Egli suscita e dirige il moto, desta l’azione ma, egli, non agisce, nel senso che non è “trasportato”, non è preso dall azione, non è azione, bensì una superiorità calmissima, impassibile e imperativa, da cui l’azione procede e dipende. Ecco perché‚ il suo comando possente e invisibile si è potuto chiamare un “agire-senza-agire”. Dinanzi a questo ideale di azione dominata, chi agisce preso dallo slancio, dalla passione, dall’immedesimazione, dal desiderio, dall’inquieto bisogno non agisce veramente, ma è un agito. Per quanto paradossale possa sembrare questa espressione, il suo è un agire passivo. Ecco perché, rispetto al mondo trascendente, superiore, regalmente freddo, puramente determinativo, “immobile” dei “Signori del moto” lo si assomiglia appunto a femina: egli si muove, fa, crea, corre ma la ragione, la causa assoluta della sua azione cade fuori di lui.
Orbene, una volta compreso questo ideale tradizionale dell’azione e della non-azione, se si esamina il senso proprio alle dottrine attivistiche, diveniristiche, bergsoniane, ecc. in voga al giorno d oggi, di massima ci troviamo dinanzi precisamente a questa forma inferiore e passiva di azione: ciò che oggi si esalta, è uno slancio cieco e istintivo, onde si va senza sapere perché si vada, senza avere potere di essere diversamente da quel che si è, di dominarsi, di crearsi in sè stessi un centro, un limite, una luce, una ragione assoluta. E’ l’agire per agire, come era spontaneità e “elan vitae”, come necessità immediata e mai risolvibile – quand’anche il tutto non si riduca a una volontà più o meno consapevole di stordirsi e di distrarsi, a un’agitazione e a un rumore che tradisce la paura per il silenzio, per il distacco interno, per l’assoluto essere degli individui superiori – mentre dall’altra parte essa sostiene e fomenta in ogni modo la rivoluzione dell’uomo contro l’eterno.
Per quanto necessariamente tronche, queste considerazioni bastano per dare il senso del punto centrale di riferimento. Al tumulto della vita moderna, alla molteplicità scatenata delle forze e delle passioni che essa ha evocate sia nell’ordine della società che in quello stesso della natura su cui, attraverso la tecnica, l’uomo oggi fa sempre più profonda presa, dovrebbero corrispondere forze di centralità: di ascesi, di comando, di assoluto dominio spirituale, di assoluta individualità e di assoluta visione – forze che oggi meno che in qualsiasi altro tempo ci è dato di constatare d’intorno. E questo difetto è vano sperare che possa essere veramente rimosso, quando si continui a ridurre l’azione all’unico tipo dell azione materiale e “passiva”, spinta dall’esterno e volta verso l’esterno; quando non si veda altro che essa e si ritenga che l’azione interiore, l’azione segreta che non crea più macchine, banche e società, ma uomini, asceti e guerrieri, esseri superbi dominatori delle proprie anime, svincolati da ogni sete, liberati, non sia azione ma rinuncia, astrazione, perditempo. Finché tale sia il criterio non c’è da aspettarsi che una sempre più alta vertigine sempre più lontana da qualsiasi centro e a qualsiasi controllo che non sia quello della reciproca dipendenza di parti di un mostruoso ingranaggio lanciato a vuoto, senza nessuno che possa più nulla.
Se nella sua febbre di correre, di andare sempre più in là come degli assetati o degli inseguiti il mondo moderno non realizza che le estreme conseguenze del romanticismo, ciò che di nuovo potrà stabilire un equilibrio e non estinguere, ma integrare, centralizzare, rendere maschia, solare e attiva l’azione, non può essere che una rievocazione di quel che, in senso lato, si può chiamare l’esperienza classica: amore del cosmos contro il caos; della forma contro l’informe, dell’ethos contro il pathos, della chiarità contro la penombra, del distinto e del “dorico” contro il promiscuo, l’inquieto e il senza limite.
L’ideale di un nuovo classicismo dell’azione e del dominio, animato da nuovi contatti col supertemporale, preparato dai valori di un ascesi virile e di una superiorità aristocratica al semplice “vivere”, è ciò che oggi ci occorre. Esso varrà a creare lentamente centri, qualità e individualità nuove – nuove per essere “tradizionali” nel senso più profondo e vivo del termine – dinanzi a cui, per una legge naturale irresistibile, non potranno non piegarsi e non subordinarsi in un migliore futuro le forze senza centro, senza persona e senza luce emerse attraverso il mito dell’azione nei tempi ultimi.
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Da Algiza 12 (1999), pp. 4-8.
vate
Possiamo solo essere grati del contributo vitale che Julius Evola ha lasciato a quest’epoca. Molto difficilmente potremmo affiancarne altri di simile levatura. La sua grandezza non è certo quella dell’erudita inavvicinabile e dell’analista insuperato; il merito che più lo distingue è quello di arrivare dritto al dunque isolandolo da tutto ciò che è sfaldamento ed impostura. Qualcuno può vantarsi di conoscere una enorme quantità di notizie e di possedere una capacità analitica fuori del comune, ma se non è capace di convogliarla in direzione dello scopo ultimo dell’uomo, essa è ben poca cosa. L’analisi di Evola è qualitativa non quantitativa, e così compatta la notizia in una sintesi che va a pizzicare le corde di chi è capace di ascoltarlo facendo risuonare in lui la cosa nota. Egli non parla di metafisica, rende viva la metafisica nella realtà del quotidiano; e tale dote educativa e sicuramente un dono non tanto in quanto sia venuto a contatto con chissà quali organizzazioni segrete, ma piuttosto perché la coerenza del suo essere con la materia trattata lo ha reso talmente coeso alla stesse forze uraniche costringendole a rendergli grazia.
Tuttavia il suo pensiero può incappare nell’equivoco e, nel caso dell’argomento in questione se è facile convenire come in genere l’uomo occidentale sia meno predisposto alla contemplazione che all’azione, ed ancor più facile vedere come oggi quest’ultima sia ridotta ad un buio attivismo diametralmente opposto all’agire libero dal parassitismo dell’ego, quando l’azione resa leggera poteva concedersi alla misura del rito convogliando nella dimensione unica del sacro, dove anche il fare più umile reso dignitoso dal trasfondersi nel valore di un’offerta poteva trovare posto. Ecco qui può giungere il contrasto, e cioè riconoscendo in Evola il difensore delle elite per antonomasia, dell’uomo differenziato che si separa dalla massa, potrebbe sembrare che le faccende dell’uomo comune siano sempre corrotte. Ma l’elite alle quali si riferisce sono quelle aristocratico tradizionali, le quali agiscono per l’uomo e non contro l’uomo, qualsiasi sia il suo rango, trasferendogli in forma necessariamente diluita quegli stessi influssi che chi sta più in alto riceve direttamente.
Non vi è dubbio quindi che Evola sia per la dignità che investe tutta la gerarchia umana, e la sua opera sia destinata soprattutto all’uomo comune, senza infondergli vaghe speranze, ma mettendolo di fronte ai suoi limiti lo accosta a quelli che potrebbero non esserlo, fin quando in coscienza possa prodursi quel miracolo di evidenza dell’essere presente a se nel momento in cui non si vuole nulla di più e nulla di meno che essere se stessi. Il proprio destino trova allora l’antica direzione che lo conduce al di la da esso, in quel luogo riservato a chi riuscendo ad essere se stesso gremisce il significato ultimo dell’uomo aggiudicandosi la possibilità di essere un uomo vero.
Buon solstizio a tutti. (previsioni maya permettendo…)